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Tuckett D. (1993). Alcuni pensieri sulla presentazione e discussione del materiale clinico della psicoanalisi

1)Questo articolo è comparso col titolo “Some thoughts on the Presentation and Discussion of the Clinical Material of Psychoanalysis” su The International Journal of Psychoanalysis, 1993, 74: 1175-1189. Pubblichiamo col permesso dell’Int.J.Psycho-Anal. Traduzione di Francesco Carnaroli.

Questo lavoro intende stimolare la considerazione dei problemi che noi fronteggiamo come psicoanalisti nel tentativo di discutere i nostri dati basilari, costituiti dal materiale proveniente dal setting clinico psicoanalitico. Mi interesso di questo argomento da diverso tempo, ma particolarmente in seguito a due lavori clinici che ho recentemente presentato, nei quali fornivo un resoconto dettagliato di sedute psicoanalitiche con due pazienti, entrambi i quali erano stati in analisi per diverso tempo. Queste presentazioni furono apprezzate e condussero a una vivace discussione.

In entrambi i casi, emersero interessanti e intricati approcci alternativi alla comprensione e alla interpretazione del materiale. In seguito alla prima presentazione, ci fu molto dibattito riguardo a in quale misura il comportamento del paziente potesse essere concepito in termini dei suoi conflitti riguardo al sentirsi ben capito o piuttosto fosse un prodotto del punto di vista interpretativo dell’analista che ripeteva il trauma infantile. Nella seconda presentazione ci fu un’altrettanto incisiva discussione riguardo alla questione se la difficoltà del paziente nello sviluppare i suoi pensieri su se stesso riflettesse un conflitto narcisistico riguardo alla dipendenza o una difesa contro un invischiamento omosessuale. Ogni psicoanalista che abbia preso parte alla discussione di materiale clinico avrà sperimentato il tipo di discussione che ho menzionato soprattutto se lo psicoanalista fornisce il resoconto di un processo dettagliato(2). La presenza in questo numero del Journal della discussione di due delle tre presentazioni plenarie al recente Congresso di Amsterdam presentazioni e discussione di cui qui si darà già per scontata la lettura fornisce un contesto per le idee che voglio sviluppare, permettendomi di evitare la descrizione di una mia personale presentazione e di una discussione a scopo illustrativo.

Ad Amsterdam sia Jacobs (1993a) che Duncan (1993) hanno presentato accurati resoconti del lavoro coi pazienti. Essi hanno fornito dettagli molto precisi di ciò che essi e i loro pazienti hanno fatto e detto reciprocamente, e hanno discusso i loro pensieri e sensazioni private sia durante che dopo la seduta. E’ stato molto apprezzato il dettaglio e la cura con cui essi sono stati disponibili a rivelare le loro stesse menti analitiche al lavoro. Molti di coloro che erano presenti hanno sentito che Jacobs e Duncan fornivano le condizioni essenziali per una discussione fondata della nostra teoria e della nostra pratica: essi hanno stimolato i partecipanti al Congresso a pensare con cura e precisione ben maggiori rispetto a quelle occasioni in cui i lavori sono presentati indicando ciò che si dovrebbe o potrebbe fare, ma con dati clinici insufficienti per offrire un’effettiva opportunità di pensiero.

Lo scritto di Jacobs è stato discusso da Green (1993) e Wender (1993), mentre quello di Duncan è stato discusso da Schafer (1993) e Bernardi (1993), e poichè tutti questi interventi sono stati pubblicati in maniera completa (insieme alla replica di Jacobs [1993b])(3), mi limiterò a poche brevi osservazioni sulle discussioni di Green su Jacobs e di Schafer su Duncan.

Green e Schafer, come è costume e come essi sono stati invitati a fare, fanno essenzialmente due cose nelle loro discussioni: entrambi offrono esaurienti interpretazioni alternative del significato inconscio delle parole e delle azioni dell’analista e del paziente, e si servono poi di queste alternative per formulare il loro particolare modo di pensare e di lavorare nella gamma pluralistica di approcci che caratterizza l’era post-freudiana.

Per esempio, Schafer dice, “dopo aver letto [il resoconto di Duncan] mi sono accorto che ero testimone di una scena analitica e stavo ascoltando un dialogo analitico piuttosto differente da quello che egli aveva presentato”. Egli prosegue poi, brevemente, suggerendo una re-interpretazione del materiale; la paziente sta cercando obliquamente di comunicare al suo analista la sua credenza che egli sia un abusatore narcisistico e la sua esperienza di transfert è messa in atto (enacted) nella forma di un litigio, che è poi acquietato piuttosto che essere esplicitamente esplorato e interpretato. Schafer poi usa questa re-interpretazione del materiale di Duncan per compiere una serie di puntualizzazioni teoriche riguardanti la relazione fra l’ascolto e l’interpretazione, gli usi del controtransfert, il ruolo del riconoscimento dell’esame di realtà da parte del paziente, e differenze nell’atteggiamento analitico. E’ interessante che Schafer noti esplicitamente all’inizio della sua re-interpretazione che i suoi pensieri scaturiscono “dalla mia pratica di cercare di ascoltare le implicazioni reali o immaginate di controtransfert in qualsiasi cosa gli analizzandi portino” in altre parole, egli parte con un esplicito modello teorico.

La facilità con cui colleghi intelligenti e riflessivi sono in grado di suggerire nuovi modi di comprendere il materiale clinico può essere uno degli aspetti più stimolanti, o al contrario più irritanti, della nostra disciplina. Nella supervisione, nei seminari di insegnamento e negli incontri fra colleghi, finalizzati allo scopo di mantenere gli standard clinici personali, la capacità di vedere interpretazioni alternative è grandemente arricchente.

Quando ciò è fatto con sensibilità, l’analista il cui lavoro è sottoposto a discussione può quasi sempre trarre beneficio dall’essere esposto a opinioni alternative, e probabilmente può essere rafforzato da esse. Inoltre, ben pochi psicoanalisti avranno assistito a un incontro clinico dove non vi sia stato qualcuno che abbia tentato di fare ciò e, come ad Amsterdam recentemente, i partecipanti si troveranno poi ad avere forti opinioni sia riguardo all’esperienza di prendere parte alla discussione sia riguardo all’una o all’altra interpretazione del materiale presentato.

Poca meraviglia, forse, che molti analisti non abbiano voglia di descrivere il loro lavoro in dettaglio e anche che le presentazioni cliniche nella nostra letteratura siano rare. Non di rado, osserviamo alcuni colleghi prendere le difese del relatore e sostenere che i suggerimenti alternativi costituiscano una supervisione piuttosto che una discussione scientifica. Altri colleghi, convinti della loro idea riguardo al materiale clinico e a malapena in grado di restare seduti e calmi durante la presentazione, fanno ipotesi alternative riguardo al loro collega che sta presentando e le possibili “macchie cieche” (blind spots) o carenze che egli (od ella) potrebbe avere. E ancora, altri colleghi sembrano adottare una posizione radicalmente relativista, forse rifugiandosi in una versione delle idee ermeneutiche o nella nozione di sovra-determinazione, per evitare del tutto ogni conflitto fra costruzioni riguardo a ciò che sta succedendo. Ogni opinione è valida quanto ogni altra. Altri pensano che vi sia poco da guadagnare nel presentare un lavoro dettagliato per scopi scientifici, e sembrano credere non solo che noi pratichiamo in condizioni di considerevole incertezza ma anche che le nostre differenze siano alla fine dei conti irrisolvibili.

Non è mio scopo qui schierarmi fra queste diverse posizioni, ciascuna delle quali contiene almeno una qualche verità. Desidero suggerire, comunque, che si possa fare di più per riflettere sulla posizione del relatore e dell’uditorio (autore e lettore) quando viene presentato del materiale clinico, e che non abbiamo affatto esaurito la nostra capacità di essere maggiormente costruttivi riguardo alla situazione che fronteggiamo. Nel resto di questo scritto, rifletterò ulteriormente sulla situazione ed esplorerò tre aspetti di ciò che accade quando degli psicoanalisti presentano e discutono tra loro materiale clinico.

MODELLI ESPLICATIVI
Le aspettative dell’analista e del suo uditorio chiaramente influenzano la loro comunicazione. Con “aspettative” io intendo contenuti mentali, che vanno dalle presupposizioni teoriche ai pregiudizi emotivi, dalle credenze consce o preconosce alle risposte affettive che scaturiscono da bisogni difensivi. Tali preconcezioni non possono essere chiarite in dettaglio ogni volta e potrebbero causare confusione e disaccordi, o alternativamente dare l’impressione di accordo dove, in realtà, le opinioni sono discordanti.

E’ stato largamente osservato e dimostrato, per molti anni in molte discipline, che l’attività della percezione non può essere separata dall’attività della cognizione e che le osservazioni non possono esistere separatamente dalla teoria che guida l’osservatore. In effetti, le sensazioni di tutti i tipi, anche l’esperienza del dolore (Melzack, 1973), non possono essere separate in alcun semplice modo dal contesto del significato in cui esse sono vissute. Chiaramente, perciò, sia che noi stiamo ascoltando un paziente sia che stiamo ascoltando un collega che presenta un resoconto clinico, noi ascoltiamo con concezioni che influenzano ciò che udiamo e capiamo. L’ascolto e la comprensione, in breve, sono processi in cui il significato è attivamente costruito.

Sta diventando un luogo comune notare che la comunicazione fra psicoanalisti ormai ha luogo all’interno di una gamma pluralistica di teorie. Anche se noi limitiamo la nostra teoria a ciò che Freud ha scritto, sono possibili varie interpretazioni di molte delle sue idee centrali, molte delle quali contengono un’essenziale tensione concettuale che ha messo in difficoltà anche i sistematizzatori dal pensiero più lucido (vedi Morris, 1993). Certamente, ogni volta che noi ascoltiamo un collega che presenta materiale clinico dettagliato, una delle cose che ci influenzano è il modello teorico che noi crediamo che egli stia usando per guidare i suoi interventi; un modello teorico che noi percepiamo attraverso una combinazione delle nostre stesse inferenze, dei nostri pregiudizi e modelli teorici (un punto che Green ha specificamente sottolineato nella sua discussione della presentazione di Jacobs).

Un semplice esempio della confusione teorica che sorge dalle differenze nei modelli teorici si può riscontrare là dove un analista descriva un paziente riluttante ad accettare “interpretazioni di transfert”. In alcuni circoli, per esempio, è probabile che fare un’interpretazione di transfert significhi rendere espliciti al paziente i legami tra la sua esperienza dell’analista e la sua esperienza nell’infanzia, probabilmente dei suoi genitori. In altri circoli, comunque, è più probabile che interpretare il transfert significhi indicare al il paziente alcuni legami fra le sue sensazioni e produzioni verbali e la sua esperienza e reazione alla relazione qui-ed-ora con l’analista, mentre la relazione fra il qui-ed-ora e il passato viene lasciata implicita o considerata oscura.

I differenti modi in cui il concetto di transfert può essere compreso nelle culture psicoanalitiche ci rende sensibili rispetto a una particolare implicazione del fatto che la comunicazione abbia luogo in un setting sociale e culturale. Giacchè il significato è costruito, la comunicazione del significato è molto più complessa, invece di essere semplicemente la questione di un chiarimento di usi linguistici differenti o di confusioni terminologiche. Un concetto che ho trovato utile per aiutare a comprendere meglio questo processo è il concetto socio-antropologico di “modello esplicativo” (Kleinman, 1975; Tuckett et al., 1985).

Questo termine può essere usato per porre attenzione al modo in cui, quando attribuiamo significato a ciò che qualcuno ci sta dicendo, noi usiamo un ampio spettro di idee, conoscenze e assunti che hanno una gamma molto ampia di implicazioni. Per esempio, se noi osserviamo qualcuno che sta camminando verso la porta di ingresso, o proviamo un prurito alla pelle al momento di svegliarci, noi troviamo un senso a ciò. Nel farlo, noi implicitamente imputiamo causa e colpa, motivazioni e implicazioni, e agiamo in accordo con le idee e gli assunti intrapsichici e culturali che spesso diamo per scontati a meno che non siamo costretti a riflettere. In effetti, spesso tendiamo ad essere sorpresi o ansiosi se gli eventi non corrispondono ai nostri modelli, e troviamo dei modi per realizzare una consonanza.

Un esempio dalla vita di tutti i giorni può aiutarci a rendere questo punto più forte di quanto possa apparire di primo acchito. In uno studio della comunicazione fra medico e paziente, io intervistai un paziente che chiamerò signor Nixon. Era stato dal suo medico di base lamentandosi di una sensazione di prurito e tensione alla gamba, che gli pareva che peggiorasse quando si muoveva. Nella consultazione egli disse al medico che pensava che questi sintomi potessero essere causati da troppo zucchero nella sua dieta. Il suo medico gli disse che lui aveva un piccolo disturbo della pelle, che poteva essere curato con una crema idratante. Il signor Nixon credette che il trattamento e la diagnosi fossero sbagliati, sebbene a quel tempo non lo avesse detto.

Nell’intervista che ebbi col signor Nixon dopo la consultazione, gli chiesi essendo questo il focus del lavoro che stavo facendo quale lui pensava che fosse il legame fra la sensazione sulla sua pelle e il mangiare troppo zucchero. Mi disse che pensava di avere un disturbo, che egli pronunciò come “pulce-ci-morde” (“flea-bite-us”), che apparentemente lui riteneva essere sintomo di un disturbo circolatorio, e che perciò egli aveva connesso con una malattia cardiaca e con l’alta pressione sanguigna. Quando gli chiesi di spiegarmi ulteriormente, venne fuori che questa spiegazione dei suoi sintomi era basata sul fatto che egli mangiava una gran quantità di zucchero e che aveva osservato che i sintomi peggioravano quando camminava.

Gli era stato detto, o aveva saputo dalla televisione o dalla radio, disse, che lo zucchero nella dieta fa male al cuore, e anche che il dolore collegato all’esercizio fisico come il camminare è indice di problemi cardiaci. Mi disse che aveva recentemente sentito che l’ex presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, era stato in ospedale con quello che egli pensava avrebbe potuto essere il suo stesso problema. Solo allora io realizzai che aveva fatto una equazione fra il disturbo che egli chiamava “flea-bite-us” [pulce ci morde] (con ovvi riferimenti linguistici ai fenomeni del pungere e delle sensazioni di prurito di cui si lamentava rispetto alla pelle della parte inferiore della gamba) e il disturbo cardiovascolare flebite, per la cura del quale l’ex Presidente era stato recentemente ricoverato in ospedale. I legami fra i suoi sintomi, il loro peggiorare con l’esercizio, il troppo zucchero e il disturbo cardiaco, erano ora divenuti chiari: il modello esplicativo del signor Nixon riguardo alla sua condizione, un’affascinante commistione di osservazione e logica rispecchiante il processo formale diagnostico in medicina, si era adesso rivelato. Inoltre, dal suo punto di vista, esso era notevolmente plausibile.

Credo che per una efficace comunicazione e un efficace esito di questa consultazione medica, il medico e il paziente avrebbero dovuto comprendere i reciproci modelli esplicativi, e avrebbero dovuto impegnarsi in un processo di domande reciproche per chiarire il modo in cui ciascuno dei due stava costruendo un significato. Quando vidi una trascrizione della consultazione, dopo il mio colloquio col paziente, mi fu chiaro che essi non erano giunti ad alcuna comprensione condivisa dei loro rispettivi modelli esplicativi, e conseguentemente non avevano colto ciò che era andato storto fra di loro nella consultazione.

Era chiaro che c’era stata un’ovvia frustrazione e un crescente attrito interpersonale verso la fine della consultazione, quando il medico infine suggerì al paziente che forse aveva una difficoltà di udito e che doveva farselo controllare (Tuckett et al., 1985, pp.60-2).

Così, tenendo questo esempio a mente, è chiaro che quando udiamo uno psicoanalista raccontare una storia clinica noi lo ascoltiamo dalla prospettiva delle idee che già abbiamo. Per complicare la questione, comunque, le nostre idee come la discussione clinica testimonia spesso implicano tipicamente nozioni di imparzialità, colpa e responsabilità tratte dalla nostra posizione nel nostro spazio personale, sociale e culturale. Quando ascoltiamo un collega che presenta, nelle nostre idee senza che ne siamo sempre completamente consapevoli sono incorporate le nostre nozioni di una tecnica analitica attesa ed appropriata, le nostre credenze riguardo a ciò che analista e paziente si pensa che stiano tentando di fare insieme, e le nostre teorie riguardo all’eziologia e al trattamento. Abbiamo tutti assistito ad accalorate discussioni in cui alcuni colleghi suggerivano all’analista che stava presentando di avere sovrastimato la distruttività del paziente, mentre altri gli contestavano di essere stato troppo morbido e collusivo. L’accaloramento generato ad Amsterdam quando il lavoro di Jacobs fu discusso sarà evidente anche a coloro che si limitino a leggere le discussioni e la risposta. In tali circostanze, credo, si diventa consapevoli del fatto che sono stati esibiti aspetti complessi ed emotivamente scatenanti di modelli esplicativi latenti.

Wyman & Rittenberg (1992) hanno suggerito che una presentazione clinica dovrebbe distinguere chiaramente cosa il paziente ha detto, cosa l’analista ha sentito, cosa l’analista ha pensato riguardo a questo, e cosa l’analista ha detto e perchè. Se noi aggiungiamo l’essere chiari riguardo al modello con cui l’analista sta lavorando, questo è un buon inizio. Comunque, mentre un pensiero chiaro e una sua definizione è probabile che riducano la confusione, la comprensione condivisa di ogni complesso insieme di idee dipende dalla reciproca articolazione del modelli esplicativi in una situazione basata su esempi provenienti dalla pratica. Nel contesto di una consapevolezza del problema dei modelli esplicativi, può essere chiarificante la presentazione clinica dettagliata e probabilmente la presentazione di materiale che copra un certo periodo di tempo. Le differenze molto spesso diventano chiare soltanto quando due persone devono arrivare ad un accordo su qualche questione dettagliata, come ad esempio come intendere le parole del paziente o dell’analista. La discussione di un resoconto più generale può non far emergere affatto le differenze.

Certamente, qualsiasi cosa noi pensiamo riguardo alle cause del divario fra la teoria e i modelli di lavoro per la pratica, il fatto è, come Schafer (1990) ha argomentato in un precedente congresso, che non possiamo dare per scontato di sapere cosa intendiamo quando parliamo l’uno con l’altro usando i nostri concetti, e che questo problema è profondo. Il concetto di modelli esplicativi come applicato alla comunicazione psicoanalitica delinea il tipo di processo chiarificatore fra il relatore e i suoi ascoltatori (in un gruppo, o a livello immaginario se si sta leggendo un lavoro) che è necessario se vogliamo avere un accordo significativo, o, se è il caso, una controversia.

Vi è, comunque, un ulteriore fattore di rilevanza nei nostri problemi di comunicazione che è stato messo in evidenza nello studio formale dei modelli esplicativi nelle Società. I modelli esplicativi sono sia complessi che usualmente impliciti, e molto spesso contengono idee e dati osservativi contraddittori. E’ possibile esplicitare chiaramente un modello esplicativo, come nel caso del signor Nixon o nei modelli medici formali del disturbo, ma ciò può essere talvolta in contrasto con altre esigenze. Ho già detto che, generalmente parlando, i modelli esplicativi esistono in un più largo insieme di credenze e questioni pragmatiche; questo significa che renderli espliciti può risultare un compito sia complesso che potenzialmente conflittuale. I sistemi sociali e culturali di credenze strutturano e regolano materie come il potere, lo status e l’autorità in un gruppo.

Essi strutturano e regolano anche l’esperienza dell’angoscia, della sfortuna, dell’incertezza e della colpa, essendo in fin dei conti legati alle fondamentali questioni dell’ideologia e delle credenze riguardo al sacro (vedi, ad esempio, Evans Pritchard, 1937). Il fatto che i modelli esplicativi siano impliciti consente di lasciare nascosta la tensione e la dissonanza cognitiva, ma con la conseguenza che le credenze dissonanti potrebbero rimanere vive e vegete per lunghi periodi dopo che ci si sarebbe potuto aspettare la loro scomparsa. Inoltre, con lo scopo di proteggere se stessi, i gruppi socio culturali di tutti i tipi tendono a creare proibizioni istituzionali e tabù che circondano la rivelazione di idee sgradite e dissonanti inclusa la restrizione di situazioni in cui il conflitto può divenire esplicito.

E’ chiaro che molti psicoanalisti operano, nelle loro vite professionali, con modelli esplicativi dell’attività in cui essi sono coinvolti che sono impliciti come molti altri modelli esplicativi in ogni aspetto della vita. Come Sandler (1983) ha argomentato, le teorie in uso e i modi di comprendere i dati clinici tendono a non essere nè trasparenti nè coerenti. Inoltre, concetti importanti come il transfert, per come sono usati nella pratica, sono situati all’interno di più ampi sistemi pluralistici di pensiero che tentano di trattare ogni genere di questione: il peso relativo di fattori eziologici interni vs. esterni; credenze riguardo all’esistenza o meno di una vita mentale fin dalla nascita, e se sia possibile lavorare con essa nel trattamento degli adulti, etc. Sembrerebbe probabile, nel contesto che dovremmo considerare, che la rarità con cui troviamo esempi pubblicati ben presentati di lavoro clinico, con dettagli di ciò che fu detto nelle sedute psicoanalitiche, abbia una funzione sociale radicata nel timore che il movimento psicoanalitico possa frammentarsi irrimediabilmente. Certamente l’assenza di resoconti dettagliati, che potrebbero realizzare una maggiore chiarezza, è in contrasto con l’enorme quantità di discussioni della tecnica psicoanalitica che fanno piuttosto delle affermazioni generali su ciò che dovrebbe essere fatto.

Infine, su questo argomento sembra necessario menzionare quelle forme estreme di modelli esplicativi nelle quali una grossa quantità di significato implicito si aggrappa a una breve frase descrittiva o a un’etichetta. Le etichette in psicoanalisi, sia assunte che presunte, implicano preconcezioni cariche di connotazioni emotive e giudicanti molto condensate, come capita quando una descrizione apparentemente neutrale è di fatto gravata da connotazioni non dette che colorano le parole del relatore: per esempio, il gruppo psicoanalitico a cui l’analista appartiene, dove ha fatto il training e con chi, possono influenzare, negativamente o positivamente, la percezione, da parte dell’uditorio, di ciò che l’analista ha da dire ancor prima che essi abbiano ascoltato, o letto, una sola parola di ciò che egli sta comunicando. A causa della loro funzione difensiva, e a causa del fatto che il loro significato emotivo è più o meno nascosto, o pesantemente razionalizzato, tali preconcezioni possono essere difficili da riconoscere e da superare.

LA NARRAZIONE ED IL NARRATO
Che cosa presentiamo quando portiamo una seduta psicoanalitica per la discussione sia in una presentazione fatta a voce sia in una pubblicata? Un analista che descrive una seduta psicoanalitica, e che perciò presenta del materiale clinico, fronteggia il problema di selezionare il materiale che presenterà: dovrà omettere dettagli del background del paziente che sono rilevanti per la storia; lo sviluppo del trattamento, che magari dura da vari anni, è condensato in poche frasi; e anche il resoconto della seduta non può essere pienamente esauriente. L’analista potrebbe descrivere il materiale, le sue interpretazioni e la risposta del paziente; potrebbe fornire dettagli rispetto agli spostamenti nelle sensazioni e stati d’animo durante la seduta, fra i partecipanti e all’interno di ciascuno di essi, collegandoli con interpretazioni e libere associazioni; egli potrebbe anche fornire al suo uditorio i pensieri, i ricordi e i collegamenti che hanno motivato le sue interpretazioni forse col rischio di affogare l’attenzione del suo uditorio in un mare di dettagli convoluti e tuttavia qualche sottigliezza andrà inevitabilmente persa, e qualche connessione sarà stata omessa.

La selezione è inevitabile, e non vi sono criteri preordinati di inclusione. La scelta di ciò che va messo in evidenza nel background del paziente e nella seduta e, ovviamente, l’importante scelta di quale seduta (o quali sedute) presentare, dipende interamente dall’analista che, soprattutto rispetto a quest’ultima decisione, non ha linee guida esterne.

Vi sono, comunque, fattori che complicano ulteriormente e in notevole misura il processo di selezione: per esempio, questioni apparentemente banali come la preoccupazione dell’analista rispetto alla sua posizione professionale. Egli potrebbe sentire che, dovesse mai presentare qualche maldestra gestione della seduta, o apparire non ortodosso, o forse troppo convenzionale, i suoi colleghi potrebbero perdere la fiducia in lui, ostacolare il suo training (se è un candidato), o non inviargli pazienti (se è un analista qualificato, il cui sostentamento dipende almeno in parte dagli invii da parte dei suoi colleghi). Tali timori possono completamente frenare gli analisti nel presentare, oppure considerazioni sociali potrebbero oscurare i criteri clinici nel processo di selezione.

Talvolta l’analista che presenta può invocare il carattere confidenziale come la ragione dell’omissione o della distorsione di ogni sorta di dettagli; la riservatezza è davvero un grosso problema, specialmente per quanto riguarda il materiale pubblicato, ma essa potrebbe essere usata come una giustificazione per coprire il desiderio di rappresentare erroneamente il materiale. Altri problemi sono collegati con la risposta emotiva dell’analista a specifici pazienti, a cui ci si riferisce come controtransfert, e questi giocano un ruolo centrale nel processo della comunicazione, ma saranno discussi più aventi.

Nel costruire le loro presentazioni, io credo che sia Duncan che Jacobs desiderassero accettare l’invito a mostrare il dettaglio di come essi ascoltano e indicare la loro visione di ciò che è implicato quando si fa un’interpretazione in un processo psicoanalitico. Com’è pratica comune, nessuno dei due resoconti ha usato delle registrazioni: entrambi hanno fatto assegnamento sulla propria memoria degli eventi ed hanno selezionato quelli che secondo loro fornivano un resoconto coerente. Questo è l’approccio usuale e, come psicoanalisti, la maggior parte di noi pensa che esso abbia validità. In una seduta accade molto di più di quanto si possa dedurre dalla semplice trascrizione verbale anche se la seduta è stata audio-registrata e pienamente annotata per dar conto della gestualità, del tono di voce, e così via. Le parole usate dai due partecipanti e come essi le hanno dette sono aspetti centrali fino a un certo punto, ma l’essenza della situazione è che l’immediatezza del significato di ciò che è detto è soggettiva e anche che il significato inconscio deve essere inferito in base a principi altamente soggettivi, in cui la percezione e la comprensione degli affetti giocano una parte dominante.

Seguendo Spence (1982, 1992), il resoconto che l’analista fa del suo lavoro col suo paziente potrebbe essere considerato una narrazione. Ma che cosa è che l’analista narra? Nelle due presentazioni di Amsterdam, Jacobs cominciò con un breve resoconto del background, con aspetti selezionati di ciò che era capitato prima di una seduta; Duncan scelse di presentare alcune sedute; entrambi ci hanno raccontato una storia riguardo alla loro esperienza nelle sedute. Nel testo di Jacobs, in linea con le sue idee pubblicate sull’argomento, tale narrazione include i suoi stessi pensieri in qualche dettaglio. In quello di Duncan vengono rivelati alcuni aspetti dei suoi pensieri e sensazioni, ma di un tipo piuttosto diverso rispetto a quelli menzionati da Jacobs e facenti riferimento alle teorie che hanno orientato il suo pensiero.

In ogni caso, è interessante notare che, inevitabilmente, entrambi i testi consistono in un resoconto di ciò che i due autori ricordano che i loro pazienti hanno detto e inteso dire, che sensazioni dava, e poi una giustapposizione di questo con il loro resoconto di ciò che loro stessi hanno detto e inteso dire, ed hanno provato. In qualche modo questa è una situazione piuttosto curiosa. Tanto per cominciare, ciò che essi riportano rispetto a ciò che i loro pazienti hanno detto e le interpretazioni che essi ne hanno dato sono, in un certo senso, due versioni della stessa osservazione: i due autori hanno tentato di riportare cose come loro credono che siano accadute, ma non c’è modo di evitare il fatto che il senso che essi hanno colto di ciò che è stato detto loro deve aver influenzato sia la selezione di ciò di cui sono stati testimoni ed hanno riportato, sia la loro interpretazione. Si potrebbe dire che essi sia comprendono che costruiscono: essi partecipano nel costruire la storia, e poi ne fanno un resoconto.

Questo bisogno di costruire una narrazione, selezionando materiale da presentare, tocca la questione fondamentale, nella nostra disciplina, della relazione del narratore-osservatore col campo di studio. In psicoanalisi l’oggetto di studio può essere definito come significato soggettivo e il metodo di osservazione come osservazione partecipe. Ogni pensiero sul materiale deve cominciare con l’accettazione del fatto che noi non abbiamo un oggetto di studio esterno e definito. Comunque, giacchè anche la stessa fisica moderna ha abbandonato l’idea che l’osservatore sia indipendente da ciò che sta osservando e altre scienze umane, come l’antropologia sociale e la sociologia, hanno grandemente arricchito ciò che noi consideriamo la nostra riserva di conoscenza nonostante il loro frequente bisogno di utilizzare l’osservazione partecipe, non è il caso di disperarsi.

Un modo di guardare al campo dell’osservazione consiste nel considerare che l’analista nella presentazione di un caso sta descrivendo “un caso” nell’ambito della tradizione medica, separandosi cioè in parte in qualità di presentatore dal soggetto del suo studio, ma scoprendo che, nel momento stesso in cui formula una diagnosi psicodinamica, la risposta del paziente alle interpretazioni è un elemento cruciale della valutazione e perciò della descrizione del caso. Egli deve presentarsi come l’analista che, interpretando, fornisce interventi altamente soggettivi al processo. In tal modo, l’analista presenta un processo del quale egli è una parte vitale; vista in questo modo, la presentazione, inclusa la selezione, è parte del materiale offerto all’uditorio, cioè forma una parte del campo di osservazione coscientemente e inconsciamente costruito.

Con lo scopo di individuare un contesto per pensare ulteriormente riguardo a ciò che l’analista comunica, sembra appropriato fare qualche commento su come si pensa al materiale del processo psicoanalitico stesso. Un modo di guardare tali questioni è quello di considerare che un gran numero di interpretazioni hanno a che fare con lo stabilire connessioni nuove e significative fra aspetti differenti del materiale presentato dal paziente, che esso sia un sogno, una frase ben pensata, poche parole esitanti, sensazioni, o silenzio. Queste connessioni funzionano a differenti livelli dell’apparato psichico del paziente, o fra differenti livelli cronologici o, in modo caratteristico nella seduta analitica, nella relazione qui-ed-ora. L’analista è preparato ad usare la sua intuizione, e anche le sue stesse sensazioni, con lo scopo di costruire connessioni nel materiale e di formulare una interpretazione.

L’attenzione liberamente fluttuante (o altri modi preferiti di concettualizzare il processo) non implica che l’analista perda il suo senso dei confini fra se stesso e il paziente e “interpreti” qualsiasi cosa che gli venga in mente con l’idea che vi debba essere qualche collegamento con ciò che il paziente ha detto; piuttosto, nel fare una interpretazione, l’analista sta suggerendo una connessione. Spesso i collegamenti così suggeriti appartengono a un pattern più ampio, essendo le connessioni nel pattern fornite da riferimenti teorici, che possono essere lasciati impliciti nel comunicare con colleghi, perchè già noti all’uditorio, o altrimenti esplicitati se si usa il materiale per proporre un nuovo contributo teorico.

Non c’è bisogno di dire che i collegamenti taciti possono anche riferirsi a confusioni teoriche ingarbugliate e non messe alla prova, forse condivise con l’uditorio, a pregiudizi inconsci, o a opinioni idiosincratiche, di cui il relatore può essere consapevole oppure no. In altre parole, i collegamenti impliciti che sostengono un’interpretazione spaziano da modelli esplicativi che sono vigorosi, ma aperti ed espliciti, ad altri che sono inconsci e inflessibili.

L’analista che presenta la storia di un paziente e descrive un processo psicoanalitico propone la sua comprensione degli eventi nella vita del paziente, nell’analisi e nella seduta, basata sul riconoscimento di connessioni e modelli significativi, ma non esclusivi. Ne segue che gli eventi clinici possono essere collegati in molti modi diversi e in differenti presentazioni, che possono essere tutte significative anche se vi possono essere modi di collegare il materiale che sono confusi, deboli o non convincenti. Nella loro discussione dei due lavori, Green e Schafer hanno proposto collegamenti alternativi.

Bion si è riferito alla selezione di aspetti rilevanti della storia e delle associazioni di un paziente prima di fare una interpretazione come a qualcosa che implica “una evoluzione, e cioè il raggrupparsi, mediante un’improvvisa intuizione, di una serie di fenomeni apparentemente slegati ed incoerenti, che ricevono in tal modo una coerenza ed un significato precedentemente non posseduti” (Bion, 1967, p.127, trad.it. p.195). Se seguiamo Bion, si potrebbe vedere come Duncan e Jacobs intendano descrivere certe intuizioni (realizations) che gli erano venute in mente e che erano in grado, secondo loro, di creare dei collegamenti significativi. L’interpretare mette insieme una massa di pensieri ed esperienze dei quali l’analista ha una percezione in quel momento.

Particolarmente quando noi prendiamo parte a un processo di sviluppo in cui si fanno alcune interpretazioni e si ascoltano le risposte, come analisti possiamo avere un’esperienza che sembra avere un senso ed essere illuminante in quel momento, un insieme di esperienze del paziente e dell’analista sembrano essere collegate. Inoltre, in tale momento, la sua partecipazione all’esperienza permette potenzialmente all’analista di convalidare le sue idee attraverso l’opportunità che egli ha di fare dirette comparazioni fra una interpretazione e ciò che l’interpretazione si propone di illuminare, particolarmente se è diretta all’esperienza qui-ed-ora.

Ma come possiamo trasmettere questo tipo di processo e la sensazione che esso ci suscita successivamente, quando rimane soltanto la memoria di qualche evento in una evoluzione mutevole, e coloro ai quali noi parliamo non erano presenti? Cosa volevamo comunicare ci sarà sembrato evidente al momento, ma avremo certo tutti avuto la frustrante esperienza di tentare di raccontarlo a qualcun altro e di scoprire che ciò che diciamo suona molto meno convincente di quanto era sembrato nella seduta quando lo avevamo formulato. (Bion compie un’interessante osservazione, corrispondente anche alla mia esperienza, riguardo al fatto che anche gli appunti che prendiamo in un certo senso comunicazioni dallo psicoanalista che noi siamo in un determinato momento a quello che noi siamo in un determinato altro momento spesso ci sembrano, successivamente, sconcertanti o non convincenti).

L’enfasi che sto ponendo qui sul modo in cui il nucleo del lavoro psicoanalitico consista nel suggerire collegamenti significativi, in contrapposizione, per esempio, a un recupero dei ricordi del passato, può essere collegata alla tensione, presente nell’opera di Freud, e nella formazione dei suoi casi clinici, fra la costruzione (che si riferisce a fantasie inconsce presenti o a strutture guida) e la ricostruzione di eventi passati, e può inoltre essere ricollegata ai recenti dibattiti riguardo alla verità storica vs. narrativa in psicoanalisi ( cfr. Malcolm, 1986; Morris, 1993; Schafer, 1980; Spence, 1982). Analisti come Schafer e Spence pensano che il concetto di verità narrativa possa fornire un’alternativa al trovare una verità storica che debba spiegare ogni cosa che possa essere psicoanaliticamente interessante nella storia del paziente. L’approccio narrativo alla psicoanalisi consente al paziente di esplorare gli eventi nella vita esterna ed interna da differenti punti di vista, ciascuno con la sua propria validità, poichè nessuno è l’unica incarnazione della verità. Spence (1992) ha in parte revisionato la sua concezione piuttosto estrema, riconoscendo in essa un aspetto polemico un contrappunto o una leale opposizione rispetto alle più semplicistiche affermazioni riguardanti teorie storiche o convergenti della verità.

A tale riguardo, anche Cooper (1987) è pragmatico. Egli propone una distinzione fra un concetto storico del transfert, come la riproduzione relativamente semplice nel presente di relazioni passate, la verità delle quali può di conseguenza essere capita, e un concetto modernista, nel quale il transfert è considerato come una nuova esperienza che fornisce un’opportunità di portare alla coscienza tutti gli aspetti dell’esperienza corrente, incluse le sue coloriture provenienti dal passato. Lo scopo dell’interpretazione nella concezione del modernista è quello di vedere, nell’immediatezza del transfert, gli scopi, il carattere e la modalità degli attuali desideri ed aspettative del paziente come qualcosa di influenzato dal passato. Nella concezione di Cooper, egli non ha abbandonato la prospettiva storica; piuttosto essa è diventata una componente di una più ampia e più complessa concezione (1987). Il modernista è attento a ciò che risulta mantenuto all’interno della narrazione del paziente e a ciò che ne viene messo fuori, ma il suo scopo non è quello di correggere il paziente per fargli ascoltare “la verità”, bensì quello di permettergli di comprendere i bisogni che influenzano la sua costruzione del passato e del presente.

Tornando indietro dalle concezioni del processo analitico al compito di comprendere cosa è in gioco quando l’analista sta narrando una storia, nella forma di un resoconto di ciò che è capitato in una seduta, la stessa tensione fra concetti di verità può essere riconosciuta nella consapevolezza del fatto, anch’esso discusso da Spence, che la narrazione ha i suoi propri rischi. In particolare, vi è la possibilità che una storia buona, ben raccontata e coerente determini il rischio della seduzione, che nel contesto della comunicazione agli altri può essere riassunto così: più una narrazione è intellettualmente, emotivamente ed esteticamente soddisfacente, meglio essa incorpora gli eventi clinici in modelli ricchi e sofisticati, e meno spazio è lasciato all’uditorio per notare modelli alternativi ed elaborare narrazioni alternative.

Il resoconto clinico che Freud fa del caso di Dora illustra alcuni di questi punti. Se seguiamo l’argomento principale della narrazione di Freud (Freud, 1905), possiamo facilmente essere trascinati a concordare con la sua affermazione che il principale problema di Dora consiste nella sua incapacità di gestire i propri desideri edipici verso suo padre e verso il di lui sostituto, Herr K, e nella sua rivalità edipica con Frau K. Comunque, nel leggere la storia in modo più critico o, si potrebbe dire, decostruendola, si possono selezionare gli eventi che Freud ha messo nelle note, ad esempio il suo commento che Dora trattava il suo analista come un servo, dandogli il preavviso di due settimane e poi licenziandolo, o notare il commento di Freud nel suo poscritto al caso, in cui egli dichiara che gli è mancata la consapevolezza di alcuni dettagli della relazione interpersonale con Dora che avrebbero potuto metterlo in allarme rispetto alla sua intenzione di interrompere. Letto in questo modo, la spinta principale nel caso di Dora, come comunicata al suo analista, non è incentrata sul complesso di Edipo, ma piuttosto sul potere del transfert, in particolare del transfert negativo, e sull’importanza della sua interpretazione tempestiva.

Un altro modo per comprendere Dora potrebbe essere costituito dal cogliere l’elemento mancante nella comunicazione: sua madre è assente in ogni senso, è una figura lasciata in ombra nella vita della ragazza, e lo è anche nella presentazione di Freud; non sappiamo nulla della relazione della figlia con lei, ma siamo dettagliatamente informati sulle idee di Freud riguardo alle esperienze sessualmente eccitanti di Dora (da lei negate) con l’amante di suo padre. Noi possiamo supporre che il legame di Dora con sua madre, e il suo disappunto per la di lei assenza, sia l’elemento cruciale della sua psicopatologia, e che in nessun luogo vediamo ciò più chiaramente che nella assenza della madre dalla storia di Dora.

Più guardiamo da vicino il caso e più tendiamo a mettere in discussione non solo Dora, ma Freud stesso. Potremmo giustificarlo e dire che all’inizio della psicoanalisi l’importanza della madre nello sviluppo del bambino non era stata ancora sufficientemente apprezzata, oppure potremmo dire che egli era così accanito nel voler ottenere una conferma delle sue teorie edipiche da accogliere un caso dove la madre era convenientemente spinta via, e la gelosia sessuale era abbondante verso un sostituto materno. Oppure, pensando alla nota sul transfert negativo, potremmo arrivare alla conclusione che, tutto considerato, Freud era un uomo coraggioso e aderente alla verità, capace di riconoscere la propria umiliazione nelle mani di una ragazza di 18 anni, che lo ha licenziato come una persona di servizio, e di ammettere il suo errore nel non avere interpretato ciò in tempo.

La nostra comprensione del caso di Dora dipende da quale modello di eventi nella presentazione noi selezioniamo, ma i modelli inevitabilmente includono l’analista che presenta: visto come l’intuitivo pioniere della psicoanalisi, o come un uomo dei suoi tempi, incapace di riconoscere l’importanza della relazione madre-bambino; come il pensatore creativo che “scoprì” il complesso di Edipo, o come il medico ambizioso che tentava di affermare la propria reputazione imponendo le sue teorie ai suoi pazienti. Talvolta le differenti narrazioni si escludono a vicenda, ma spesso esse saranno in gran parte compatibili, sempre che non ci si limiti ad un approccio che cerca una verità storica in cui tutti i dettagli conosciuti devono adattarsi.

In alcuni casi l’uditorio a una presentazione può essere messo in difficoltà dalla la scelta del materiale e riconoscere un impasse del quale l’analista che presenta non è consapevole; per esempio, questo può accadere nella presentazione del caso di un paziente perverso. Non è infrequente che un paziente perverso sia in grado di stare in trattamento solo se gli è permesso di ricreare un transfert intensamente perverso; in qualche caso l’intensità e la profondità della perversione non è riconosciuta dall’analista, che è quindi in una certa misura trascinato in una situazione collusiva. Tale fatto è facile da osservare per l’uditorio, che peraltro spesso sembra dimenticare che il processo di un temporaneo coinvolgimento e di un certo doloroso districamento può essere un aspetto praticamente essenziale del trattamento di quel paziente.

Mettendo insieme alcuni di questi punti disparati, ma non controversi in se stessi, ciò che sembra chiaro è che la scelta del materiale da parte dell’analista fornisce informazioni riguardo alla situazione analitica e riguardo alla patologia e al transfert del paziente di cui l’analista che presenta potrebbe non essere pienamente consapevole: piuttosto che essere una debolezza, come sarebbe in un approccio strettamente storico alla verità, quest’aspetto della narrazione dell’analista non potrebbe essere invece considerato la quintessenza di una presentazione clinica psicoanalitica?

Il punto centrale di un processo psicoanalitico è che esso non può appoggiarsi soltanto sulla verbalizzazione razionale e, nel suo tentativo di comunicare, l’analista dice di più di quanto egli consciamente sappia. Questa è una forza, non una debolezza come la libera associazione nel processo analitico stesso, è ciò che rende le cose possibili. In breve, l’analista come osservatore partecipe raccoglie i dati, ma in un modo tale per cui l’esperienza della presentazione e la risposta dell’uditorio, come la risposta del paziente alle interpretazioni, ha una parte essenziale nel comprendere la totalità della comunicazione e, per così dire, potenzialmente completa il processo dando accesso alla comunicazione inconscia presente nella narrazione.

IL RELATORE COME OSSERVATORE PARTECIPE
Il terzo ed ultimo problema che desidero sollevare è anche una conseguenza di quelli che considero essere certi aspetti inerenti del lavoro psicoanalitico e il loro impatto sulla costruzione di un resoconto clinico. Già al tempo del resoconto fatto da Freud del caso di Dora (1905), che ho già menzionato, fu riconosciuto che l’indagine psicoanalitica ha luogo all’interno di un’interazione interpersonale, che crea ogni genere di difficoltà sia per il lavoro sia per la sua comunicazione, in quanto l’analista è un osservatore partecipe preso in un processo in cui la sua prospettiva sarà talvolta necessariamente distorta. Svilupperò ora alcune delle conseguenze di ciò.

Noi sappiamo da molto tempo quanto sono importanti gli affetti nella situazione psicoanalitica. Le parole comunicate dal paziente e dall’analista non hanno soltanto un significato simbolico, ma anche intrinsecamente evocano e provocano potenti affetti nell’altro (cfr. Rycroft, 1956; 1958), attraverso il tono della voce, l’inflessione, la gestualità, il movimento e così via. Le associazioni, le interpretazioni e anche i silenzi hanno significati che possono essere vissuti come permissivi, offensivi, seduttivi, fastidiosi, o influenzare il paziente o l’analista in molti altri modi. Analisti come Heimann (1950), Racker (1968) e Searles (1979) hanno descritto come il fatto di essere l’oggetto del modo di relazionarsi del paziente nella relazione di transfert evochi una risposta affettiva nell’analista e come, per dare un senso ad aspetti dell’esperienza del paziente profondamente inconsci e frammentati, sia importante metterci in condizione di provare tali esperienze e di rifletterci sopra.

Altri autori, come Sandler (1976) e King (1978), hanno mostrato come talvolta non sia possibile riflettere sull’esperienza dell’analista fino a quando qualcosa non sia stato fatto: per esempio, essi riportano l’esperienza dell’essersi trovati a parlare troppo, dell’essersi trovati sonnolenti, o di aver interpretato in maniera più energica di quanto avrebbero desiderato, e così via. Una volta che tale comportamento inconsciamente motivato può essere riconosciuto dall’analista, esso conduce a una opportunità di ulteriore riflessione riguardo all’esperienza del paziente. In altre parole, attraverso il riconoscimento del transfert e controtransfert e la riflessione su di essi, l’analista può dare un nuovo senso al significato inconscio delle narrazioni del paziente e parlarne con lui, con particolare riferimento ai bisogni inconsci che influenzano il modo in cui il paziente vede le cose, in un modo che è vissuto piuttosto che meramente intellettuale.

Alcuni autori (cfr. Joseph, 1992; O’Shaugnessey, 1992) hanno sviluppato il loro pensiero riguardo al ruolo del transfert e del controtransfert nel senso di concettualizzare molto di ciò che accade in analisi come il risultato di una sottile pressione da parte del paziente sull’analista affinchè quest’ultimo metta in atto (enact) le attuali fantasie inconsce del paziente riguardo all’essere in relazione. In questo modello un parziale movimento involontario verso la messa in atto (enacting) e il poter poi riflettere su di essa è un importante modo in cui l’analista diventa consapevole di ciò che sta avvenendo nella mente del paziente. Vorrei sottolineare che sto parlando di un comportamento involontario da parte dell’analista e della sua riflessione su di esso, e non di deliberate infrazioni della funzione e del ruolo analitici.

Vi saranno differenti periodi di analisi con pazienti differenti, ma da questo punto di vista la disponibilità dell’analista a lasciare che il paziente influenzi la sua esperienza, e ad essere quindi tirato dentro l’esperienza del transfert-controtransfert, significa anche che in qualsiasi momento l’analista si potrebbe trovare, inconsciamente e non intenzionalmente, a mettere in atto anzichè ad analizzare. Se crediamo che vi sia una corrente potenzialmente continua di controtransfert nel lavoro analitico, vi è poi, per l’analista, un corrispondente bisogno di monitorare i suoi pensieri e il suo comportamento e anche di riflettere con continuità sulle risposte del paziente alle interpretazioni alla ricerca di segni soprattutto impliciti che possano indicare se sta avendo luogo un enactment piuttosto che un’analisi.

Alcuni analisti (in particolare Hoffman, 1992) si sono domandati fino a che punto sia possibile monitorare con continuità il controtransfert. Egli afferma che l’analista non può sapere il significato personale della sua azione momento-per-momento. Nella sua prospettiva costruttivista sociale è centrale l’idea che vi sia “un senso di incertezza riguardo al significato [che un’interpretazione ha] per se stessi e per il paziente in ogni dato momento, insieme al riconoscimento del fatto che altri tipi di interazione possono essere utili e possibili” (1992, p.291; trad.it. 183). Questo è un punto di vista che sottolinea il valore dell’incertezza, ma non vorrei che lo si confondesse con una credenza relativista per cui una interpretazione è valida come qualsiasi altra: la riflessione e lo scrutinio hanno il loro peso.

Con queste prospettive in mente, quando capita di presentare materiale clinico, come hanno fatto Duncan e Jacobs, ci si aspetta che l’analista abbia una visione di ciò che sta capitando e, in accordo con essa, abbia formulato interpretazioni e costruito un resoconto della seduta. Ma, precisamente poichè la visione dell’analista è sviluppata come un osservatore partecipe all’interno della relazione, essa non può che essere una parte di ciò che è in gioco nella relazione e perciò è aperta allo scrutinio. Infatti, se un’analisi è un’analisi che meriti questo nome, è assai probabile che almeno una parte della comprensione che l’analista ha in un determinato momento possa successivamente cambiare.

In effetti, se stiamo parlando di un analista sensibile e competente, potremmo anche aspettarci che aspetti dell’indagine col suo paziente che stanno per diventare conosciuti così da permettere la formulazione dell’interpretazione, possano essere preconsciamente messi su un piatto perchè l’uditorio li veda: per così dire, l’analista li conosce ma non ne è ancora consapevole. Questo fatto, ovviamente aiutato dall’abilità dell’altro, può aiutare a spiegare come accada che, quando un analista in difficoltà cerca aiuto da un collega, e inevitabilmente espone solo pochi dettagli, quel collega possa spesso costruire nuovi modelli che liberano la situazione in modo sorprendentemente facile.

Abbiamo in tal modo una situazione piuttosto curiosa. L’analista, per quanto abile e distinto egli possa essere e con molte ore di dedizione e di pensiero alle spalle nel suo lavoro col paziente, trova che colleghi che non hanno nè lo stesso investimento o esperienza, nè forse la sua stessa abilità, probabilmente sono in grado di osservare nuovi e importanti significati nel materiale, che egli non ha visto. Poca meraviglia, forse, che le presentazioni cliniche in particolare da parte di colleghi anziani a quelli più giovani siano rare e spesso tese, e che vi siano reazioni molto divergenti alla discussione clinica, come ho menzionato all’inizio di questo lavoro. Mi piacerebbe concludere riflettendo ancora un poco sui ruoli del relatore e dell’uditorio.

IL RELATORE E L’UDITORIO
Un quadro di riferimento per considerare cosa accade fra relatore e uditorio potrebbe cominciare col riconoscimento di un fatto strutturale, cioè che ciascuna delle parti in un incontro clinico relatore e uditorio ha una competenza diversa. Il relatore ha il vantaggio di un accesso privilegiato alla conoscenza per via della sua lunga immersione nei molti dettagli della sua esperienza col paziente. Al tempo stesso egli ha lo svantaggio della sua posizione immediata nella relazione analitica, col suo inevitabile potenziale di distorcere o disturbare il suo pensiero.

I membri dell’uditorio non solo hanno il vantaggio di una diversa prospettiva, a causa dei differenti modelli esplicativi che essi applicano al materiale, ma inoltre hanno accesso a informazioni in più rispetto al relatore, e perciò a una differente competenza potenziale. Essi hanno udito o letto la presentazione e osservato aspetti della sua costruzione; essi possono notare questioni che non sono state messe in luce o altre che sono ripetute. Come ho tentato di riassumere, l’analista deve selezionare nel corso di tutta la sua presentazione, e questa selezione, insieme con le sue zone di limitata cecità dovute al suo coinvolgimento nella relazione col paziente, forniscono informazioni che sono accessibili soltanto all’uditorio.

Riguardando le due presentazioni da me fatte, e che per prime mi condussero a considerare le questioni sollevate in questo lavoro, mi è ora chiaro che la mia posizione come partecipante col paziente necessariamente distorceva il mio interesse e il mio resoconto in certe direzioni che non mi erano immediatamente ovvie. Nella discussione che seguì ad ogni presentazione vi fu chiaramente ogni tipo di confusione proveniente dalle difficoltà di condividere modelli esplicativi, ma una certa quantità di idee riguardo alle situazioni cliniche che stavo descrivendo colpirono la mia attenzione in modo molto più vivido di prima: in un caso io fui in grado di pensare molto di più riguardo all’intero problema della lotta del paziente con la compiacenza, e nell’altro riguardo all’enactment di una relazione omosessuale nelle sedute. In nessuno dei due casi io ero stato del tutto all’oscuro rispetto a questi problemi, ma in entrambi i casi il prendere parte alla discussione mi fece apprezzare tali punti in maniera molto più approfondita e sottile. In entrambi i casi fui in grado realmente di mettere a fuoco, insieme ai pazienti, i loro conflitti riguardo al loro uso dell’analisi, meglio di quanto non fosse stato fino a quel momento possibile.

Suggerisco che una più grande chiarezza riguardo alla posizione dalla quale parlano il relatore e i membri dell’uditorio può aiutarci a fare un uso più disciplinato delle presentazioni cliniche e a sviluppare una più creativa cultura dell’indagine psicoanalitica. L’uditorio ed il relatore aiuteranno l’altro se essi sono più espliciti nel loro pensiero riguardo alla loro posizione e alle forze e debolezze di essa per le costruzioni che essi fanno. Suggerisco inoltre che si potrebbero avere molti vantaggi se nel proporre le proprie idee o nell’ascoltare quelle dell’altro, l’uditorio ed il relatore accettassero la possibilità che la conoscenza riguardo al processo analitico si sviluppi in una maniera dialettica con un accesso sempre maggiore dell’informazione, probabilmente per salti leggermente discontinui. Nuovi punti di vista che sintetizzano la prospettiva dell’uditorio e del relatore, con il dovuto riguardo rispetto al loro differente accesso all’informazione, e che perciò includono piuttosto che ignorare gli elementi centrali delle esperienze di entrambe le parti, mi sembrano, avere più probabilmente valore rispetto a nuove idee che cercano semplicemente di rimpiazzare un punto di vista con un altro.

Alcune considerazioni finali possono essere indirizzate a coloro che hanno mostrato la tendenza ad essere scettici rispetto alla possibilità che la comunicazione psicoanalitica, e in particolare la presentazione di un caso, sia in grado di risolvere una qualsiasi delle nostre differenze. Certamente, sarebbe difficile esagerare i problemi. Condividere modelli esplicativi e sviluppare una cultura dell’indagine che rispetti le differenti posizioni è comunque probabilmente difficile. Rimangono anche formidabili difficoltà nella misura in cui regge l’argomentazione che le osservazioni dipendono dalla teoria e che non possono, perciò, fare molto di più che riflettere la teoria dell’osservatore. Vi è, comunque, il pericolo di essere troppo intelligenti, a questo proposito. Intelligenti e plausibili obiezioni a una tesi possono, con arguzia, essere talvolta esplorate in modi sorprendenti(4).

Inoltre, il fatto che la teoria influenzi l’osservazione, cosa che deve fare, non significa che la teoria e l’osservazione siano la stessa cosa; questa è una simmetrizzazione (Matte Blanco, 1988). La capacità che noi abbiamo di pensare e di riflettere ci permette sia di considerare le obiezioni e le difficoltà sia di operare un giudizio migliore in quel momento.

SINTESI
Questo lavoro intende stimolare la considerazione dei problemi che noi psicoanalisti fronteggiamo nel tentativo di discutere i nostri dati basilari: il materiale del setting clinico. Vengono fatti alcuni brevi commenti riguardo all’importanza di questo problema per il progresso del nostro campo, nel contesto di alcuni tentativi, da parte dell’autore, di presentare e discutere materiale proveniente da un trattamento psicoanalitico, e anche alla luce della discussione nel corso di conferenze e di congressi psicoanalitici, come le riunioni tenute ad Amsterdam dedicate ai lavori clinici di Jacobs e Duncan.

Viene affrontata la questione di cosa avviene quando degli psicoanalisti presentano materiale clinico gli uni agli altri e lo discutono: in primo luogo, ponendo attenzione ad alcuni aspetti del contesto in cui la discussione di quel resoconto ha luogo; in secondo luogo, prendendo in considerazione cosa stiamo facendo quando selezioniamo ciò che riportiamo di una seduta psicoanalitica; e, in terzo luogo, esplorando certi aspetti inerenti della situazione psicoanalitica stessa e il loro impatto sulla costruzione di un resoconto e sulla risposta ad esso da parte di un uditorio. Si afferma che, presi insieme, questi tre elementi hanno implicazioni di grossa portata riguardo a come il relatore e l’uditorio potrebbero utilmente giocare le loro parti nella discussione clinica, e sulla natura della cultura dell’indagine che noi dobbiamo sviluppare se vogliamo avere speranze di costruire la teoria e la tecnica psicoanalitiche basate sulle osservazioni della pratica.

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NOTE
(1) Una versione più breve di questo lavoro fu presentata, insieme a un esempio clinico illustrativo, come uno dei lavori scientifici individuali al trentottesimo Congresso dell’International Psychoanalytical Association, Amsterdam, luglio 1993.
Ringraziamenti.
Le principali idee presentate in questo lavoro furono l’argomento della discussione e della collaborazione prolungate con la Dott.ssa Paola
Mariotti e furono originariamente sviluppate per una presentazione clinica ed un lavoro che presentammo insieme a Roma (Tuckett & Mariotti, 1993). Desidero riconoscere il suo considerevole contributo.
Vorrei anche ringraziare il Dott. Arnold Cooper e la Dott.ssa Elisabeth Bott Spillius per aver esaminato il manoscritto ed avermi fornito dei consigli. Di ogni errore od omissione che rimangono sono ovviamente il solo responsabile. (Manoscritto ricevuto nel novembre 1993) Copyright Institute of Psycho-Analysis, Londra, 1993
(2) Gli stessi problemi possono capitare anche quando sono usate brevi vignette cliniche, ma questa situazione tende ad essere piuttosto differente. Le vignette sono altamente selezionate e ritagliate per sottolineare un certo punto. Poichè vi è raramente la presentazione di un processo dettagliato, il lettore potrebbe prendere o lasciare ciò che è detto, ma non ha molta opportunità di mettersi nei panni dell’analista e decidere su una base informata cosa egli avrebbe fatto dei materiali clinici grezzi (vedi, per es., Arlow, 1991).
(3) Duncan ha scelto di non rispondere alla discussione
(4) In sociologia, ad esempio, era di moda alla fine degli anni Sessanta mettere in questione i dati della statistica ufficiale e, riconoscendo che essi vengono raccolti in un contesto sociale e culturale, immaginare modi sottili in cui il contesto potrebbe creare una distorsione sistematica. Col senno di poi, fu inevitabile in questo contesto che qualcuno rivolgesse la propria attenzione a un classico della sociologia, “Il Suicidio” di Durkheim, e dimostrasse che tutte le relazioni statistiche in esso, tratte da registri ufficiali, erano suscettibili di una differente interpretazione i livelli di suicidio non erano più bassi nelle aree cattoliche (una componente essenziale della tesi di Durkheim), ma piuttosto erano meno denunciati (Douglas, 1967). Toccò a un epidemiologo psichiatrico (non un sociologo) esplorare i documenti ufficiali di morte, in cui i livelli furono esaminati sia riguardo alla morte accidentale che riguardo al suicidio, e mostrare che questa intelligente obiezione a Durkheim non reggeva, almeno in quella occasione. Le aree cattoliche non hanno più alti livelli di morte per cause alternative e perciò non era avvenuta una carenza di denuncia rispetto al suicidio (Barraclough,1970). Credo che un’attenta formulazione di interpretazioni alternative in psicoanalisi possa aprire la strada alla considerazione della loro validità cfr., per esempio, Hanly (1992).

Traduzione di Francesco Carnaroli

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