Ciak si gira 2013
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Amour, proiezione di lunedì 14 ottobre

14 ottobre 2013

“AMOUR”

MICHAEL HANEKE PALMA D’ORO CANNES 2012

INTRODUZIONE

 

E’ sempre notevole quando Michael Haneke osserva la società di oggi, si mette gli occhiali del sociologo, esercita l’arte sublime dello scultore di interni casalinghi, ahime’ infestati da disagio e disperazione; in spa-zi rigorosamente chiusi (claustrofilici), il film ha debuttato a Cannes (Festival presieduto da Nanni Moretti) mostrando stanze chiuse sobrie-eleganti divenire “tomba” di cadaveri annunciati. Mai come lo scorso Mag-gio, sulla Croisette francese, in mezzo a scroscianti applausi di pubblico, è soffiata una brezza mortifera, un’estetica quasi da obitorio da raggelare in tutti i presenti, il sangue nelle vene. Viviamo nell’era del corpo. Cosa non si farebbe per il corpo. Per mantenerlo sano, efficiente, tonico, scattante, eternamente bello e giovane; se è il caso, ricorrendo pure a qualche sortilegio, del tipo di quello immaginato da O. Wilde nel suo profetico “Ritratto di Dorian Gray”. Ma prima o poi lo dobbiamo lasciare, anche se rimuoviamo costantemente il pensiero della morte e ci confrontiamo con la tetra regina del mondo solo in occasione della perdita di qualcuno che ci è caro; così almeno in gran parte del nostro Occidente, tutti votati alla materia, al profitto e alla competizione. Purtroppo, noi non siamo fatti solo di pensiero e/o di sostanza eterea, non siamo destinati a sopravvivere in eterno: siamo fatti di carne “erotica” destinata a dissolversi. Da questo punto di vista “Amour” è un film straordinario …. meglio di un trattato sulla psicologia della perdita, del distacco e del lutto, anche se tre riferimenti bibliografici vengono subito alla mente “Attaccamento e perdita” (J.Bowlby), “L’Esperienza del distacco” (V.Kast), “Il Sentimento di estensione di sé nell’altro” (W.Bion). Protagonisti e quasi coautori, assieme a M. Haineke, data la realtà delle esperienze “traumatiche” realmente vissute nella vita dai nostri personaggi (lo accennerò nelle rispettive interviste nella postfazione finale), sono: Jean-Louis Trintignant (Georges) ed Emmanuelle Riva (Anne), entrambi ultra ottuagenari, totalmente vissuti e viventi l’uno per l’altra (il fatto che gli attori, in uno stile simil- Bergamamniano, portino gli stessi nomi dei personaggi principali delle precedenti opere del regista conferisce all’operazione una sfumatura quasi archetipica). Isabelle Huppert, la figlia (Eva), impeccabile, anche se un po’ sacrificata in un ruolo marginale, pianista e concertista sempre a giro per il mondo, accoppiata ad un marito in aria di perenne tradimento coniugale (direi personaggio quasi inesistente), di lei poche ma significative apparizioni, silenziose e statuarie; “flash-forward”, la posizione seduta a capo chino, nella grande casa ormai vuota , deserta e struggente di malinconia, dopo l’invasione dei vigili del fuoco,alla fine della pellicola. Il dolore che si prova guardando il film non è solo “empatia” per i personaggi, è qualcosa di più, l’identificazione con una situazione con cui prima o poi a tutti tocca assistere o partecipare.

“Mi sembra che le immagini mi importino piu delle storie, oppure che le storie altro non sono che pretesto per produrre immagini.”
Wim Wenders

“Passiamo la maggior parte della vita ad accumulare beni e fare progetti, come si vivesse all’infinito.”
Dalai Lama

“A gran parte di noi ripugna pensare alla morte.”
Dalai Lama

“Il nostro tempo nega la morte, cioè la base ideologica dell’esistenza. Anzichè percepire la morte, la sofferenza, come spinte forti quanto la vita, rimuoviamo tali sentimenti come uno “scandalo”.
Erich Fromm

 

CONNESSIONI: MENTE- CINEMA- PSICOANALISI

 

Alcuni, finita la proiezione, (un amico, che vedeva il film una seconda volta, mi ha raccontato che diverse persone avevano abbandonato la sala già dal primo tempo), potrebbero chiedersi: “ …. perchè infliggere alla mente il dolore di visioni così strazianti?…..forse per mettersi alla prova?…ce la farei ad affrontare una situazione de genere?….”. Andare al cinema non soltanto per distrarsi, per riflettere, discutere, immedesi-marsi …. Inevitabilmente, provare anche angoscia. A volte non fanno lo stesso effetto decine di morti uccisi nei thriller o negli horror, anche nei modi più efferati; ma questo corpo cinematografico che si ammala, si degrada, umilia, viaggia verso la fine, fa effetto, eccome!!! I corpi dei morti ammazzati nei film spettacolari non ci riguardano: questo corpo invece ci riguarda, a volte non è cinema, è una finestra aperta sulla nostra vita. Sono i neuroni specchio che si attivano e ci fanno vivere tanta sofferenza: dallo schermo, al nostro, di corpo. E poi, questa “tendenza” esprime la paura per l’ignoto, per il perturbante e per quell’”altrove della mente” che rimanda a quanto di preconscio/inconscio è presente in ognuno di noi.

Come osservano P. Minerva e P. Quagliarella , “… con la forza della fascinazione narrativa il cinema apre nuovi saperi, invade territori a noi sconosciuti, sollecita nuove riflessioni, ci rende “ondivaghi” tra sogno e realtà e viceversa; tra sogno ad occhi aperti (day-dream filmico) e conoscenza, tra realtà e finzione; il cinema racconta e si fa raccontare. L’identità dello spettatore, percorre sentieri imprevedibili densi di sentimento ed emozione, spesso si riappropria di luoghi, spazi e tempi ….. dimenticati, lasciati all’oblio. An-che in campo psicoanalitico, nell’incontro tra analista e analizzando, la narrazione diventa il nucleo fondamentale attraverso cui ruota il percorso terapeutico, di frequente può emergere il racconto di un film ” … scusi lei lo ha visto dottore?……lo ricorda?…..”; l’evento si inserisce nella trama del dialogo analitico spesso con significati analoghi a quelli di un sogno, definito da Freud “ la strada maestra per l’inconscio”.

Mentre le “teorie della psiche” continuano ad offrire prospettive originali di interpretazione cinematografica, anche gli studiosi di cinema da tempo collaborano con quanti lavorano nel campo della salute mentale (si pensi alla introduzione della “film-therapy” in vari Servizi Istituzionali); tutto questo per conseguire una migliore comprensione di molti aspetti, sia normali che patologici, del nostro mondo interiore, della soggettività, dell’identità sessuale, dei ruoli sociali, delle relazioni interpersonali (A.Sabbadini 2006). Sono state condotte ricerche semiotiche sulle analogie fra il linguaggio cinematografi-co e quello analitico (basti pensare al concetto di proiezione), in particolare all’equivalenza morfologica fra film e sogno (l’industria cinematografica si è da sempre autodefinita come una “Traumfabrik”) con i rispettivi contenuti manifesti, desideri latenti inconsci, ed il ricorso, nel lavoro onirico, come in quello del montaggio del film, a meccanismi quali lo spostamento e la condensazione. Altro terreno fertile di ricerca, quello del rapporto “spectatorship”, fra cinema e pubblico, riguardo le componenti regressive (la stanza buia della sala cinematografica spesso equiparata ad equivalente simbolico dell’esperienza intrauterina), aspetti “voyeristici” (la curiosità dello spettatore per la scena primaria da rappresentarsi sullo schermo), aspetti “feticistici” (il fenomeno di massa dell’adulazione dei divi di celluloide). Infine gli studi riguardanti il tema dell’identificazione dello spettatore con il punto di vista della macchina da presa, il rapporto tra immagini e assenza/presenza di colonna sonora, o ancora altri aspetti specifici del lavoro cinematografico (regia, sceneggiatura, messa in scena, montaggio) analizzati nel contesto delle relative analogie con il funzionamento cosciente, preconscio, inconscio della nostra mente (E.Marchiori, M De Mari). Ciascuno di noi ha certamente provato, ripercorrendo la propria esistenza, l’inquietante certezza di essere sempre la stessa persona e, nello stesso tempo, di sentirsi cambiato. A questo vissuto si aggiunge quello che la vita ci abbia condotto a percorrere delle strade e a tralasciarne altre, pur essendo aperte innumerevoli potenzialità e possibilità. Tali sensazioni soggettive si riflettono nell’immagine di un identità personale “plurima”, la cui concettualizzazione rappresenta una delle più avvincenti sfide culturali dei nostri tempi; il cinema, quello di qualità, e quello di questa sera è uno di quelli, la accompagna dandole rappresentazione visiva e narrativa. Il cinema, allora come territorio inevitabilmente “relazionale”, un luogo capace di “ riconnettere in una storia dotata di senso, sconnessi frammenti preconsci/inconsci evocati dalle immagini, in esperienze ove far scontrare/incontrare la vita interna di ognuno di noi”(L.Pavan). In altre parole, l’identità dello spettatore, non è più considerata un soggetto metafisico auto fondato, quale poteva essere “un animale razionale” o “una fragile mente che pensa”; l’identità molteplice ed unica dello spettatore partecipe ( ognuno di noi qui, in questa sala, questa sera), impone di sdoppiare la domanda, connotandola in modo fortemente relazionale davanti al film che scorre sul nostro schermo: “Chi sono io?” e “Chi sei tu?” e “Chi è costui? (ovviamente uno dei nostri protagonisti)…..Adesso le domande implicano il riconoscimento e l’accoglimento del bisogno e del desiderio ad esse sotteso di conoscere e farsi conoscere, e ad esse si può rispondere solo attraverso la narrazione della propria storia; in tal senso il cinema funziona da “catalizzatore” della reazione chimico-mentale-emotiva del nostro cervello. Così la lingua della soggettività dello spettatore diviene quella della psicoanalisi. La relazione di “io con te”, io-analizzando con l’analista, io-spettatore con le immagini filmiche. Risulta appropriato (Metz, 1980) affermare che si assiste alla proiezione di un film, come la levatrice assiste ad un parto: lo spettatore è presente al film nella duplice modalità dell’essere testimone e dell’essere aiutante.”Guardando un film lo si aiuta a nascere, lo si aiuta a vivere: è solo grazie allo sguardo che gi rivolgiamo che esso rimane in vita”. Già Musatti (1961) spiegava come il cinema sia in grado di rivolgersi direttamente, come accennato più volte questa sera, agli aspetti inconsci dello spettatore; lo spettatore ha la capacità di risuonare emotivamente di fronte alle immagini filmiche, proprio per la loro somiglianza con le nostre fantasie inconsapevoli. Infine, la visione di un film, mette in moto sia il processo di identificazione per cui lo spettatore è di volta in volta sempre tutti i personaggi, sia il processo di proiezione, cosicchè tutti i personaggi sono sempre lo stesso spettatore. Prima di tornare alla trama della nostra splendida ed agghiacciante pellicola, un breve accenno agli aspetti “neurofisiologici” della visione cinematografica. Si ipotizza che la “potenza” del film trasformi temporaneamente il nostro stato di coscienza della veglia in uno stato di “veglia sognante”, al di fuori della realtà quotidiana che siamo costretti a vivere ogni giorno …. in scene del film particolarmente intense i canali sensoriali sono polarizzati su quanto avviene sullo schermo, ogni stimolo esterno è attenuato, la mobilità inibita, ogni attività ideativa allentata, l’articolazione della parola spesso bloccata. Si verifica durante la proiezione filmica , una terza condizione “fisiologica” di stato di coscienza, accanto a quello della veglia e del sonno sognante nella fase REM del sonno (certo non quando cadiamo “annoiati” in un sonno profondo …. ma anche lì ci sarebbe qualcosa da aggiungere … “stanchezza come difesa”: allora veramente compaiono i noti fusi del sonno della fase non-REM). Questa terza condizione può essere definita “veglia sognante”, date le evidenti analogie, anche EEGgrafiche registrate, a causa delle sconcertanti analogie con il “sonno sognante” che viviamo tutte le notti. Lo stato di coscienza della realtà quotidiana viene paragonato dall’autore (P.Pancheri 2002), ad un film prodotto dal cervello (per mezzo della elaborazione complessa della realtà esterna) di cui siamo protagonisti e spettatori , registi ed attori, tecnici di scena e comparse. C:Tart (1998) definisce questo terzo stato di coscienza come qualcosa di naturale, qualcosa che fa parte di un meccanismo, proprio dell’essere umano, con radici antichissime sul piano filogenetico e finalizzato ad alleviare lo stress della sopravvivenza. I criteri di studio riguardano: Esterocezione, Enterocezione, Elaborazione dell’input, Emozioni, Memoria, Senso del tempo, Senso di identità, Elaborazione cognitiva, Output motorio, Interazione ambientale. Per ciascun criterio sono disponibili tabelle descrittive con un minimo di 4 items ed un massimo di 10 ,(Esterocezione-Interazione ambientale).

TRAMA DEL FILM

“ CHE FATICA MORIRE”

“Come per l’uomo primitivo , l’inconscio rifiuta la rappresentazione della propria morte, è desideroso della morte dell’estraneo, è ambivalente rispetto alla morte delle persone amate. Così, molte persone non sono in grado di sopportare la morte. Non dovrebbe essere preferibile qualificare la morte come viene considerata nella realtà e nei nostri pensieri e accettare il concetto inconscio di morte che abbiamo così attentamente rimosso? Porre in altri termini il detto latino: si vis vitam, para mortem-se vuoi sopportare la vita, preparati alla morte (S.Freud, 1925)”.

 

L’amore non ha età: una frase vera che sentiamo fin da piccoli, molto prima di provare l’amore sulla nostra pelle e di sentirne i graffi e le carezze. Le vediamo, ne leggiamo, le sogniamo, le viviamo, ma raramente le associamo alle persone anziane. Chissà perché. Eppure non hanno età. L’amore fino alla morte, superando l’insulto della malattia che trasforma l’essere umano in un grumo inerte di dolore. All’interno di “Amour” sono trattate tematiche forti; un sentimento che dura una vita e l’eutanasia: accanto al romanticismo della coppia, viene un’amarissima riflessione su cosa è giusto fare quando la persona amata perde totalmente la ragione e l’altro che l’accompagna, tristemente, la mantiene e si pone l’interrogativo esistenziale più straziante: vivere e/o morire … L’intensità del film è a volte disarmante: l’andamento lento del racconto che può annoiare i più, ma deliziare chi riesce a calarsi nella storia, si adatta perfettamente alla vicenda narrata; è un film “duro da digerire”, ma, proprio per questo merita una visione e una riflessione, un atto di fiducia e soprattutto di amore per una pellicola di alta qualità e travolgente ricchezza emotiva. Il momento più difficile della vita, che è naturalmente la fine, in un film che tiene fede per due ore filate al suo titolo, appunto, “Amour”. E senza effetti di stile ma con un linguaggio sorvegliatissimo che esalta la prova magnifica dei protagonisti e senza ricorrere a medici, indulgere in letti d’ospedale, flebo, cateteri e altri elementi ricattatori, immancabili nella pornografia del dolore oggi dilagante (F.Ferzetti). Tredicesima opera del settantenne regista austriaco, può sembrare un controsenso e a volte un gioco sadico ( “se sospettate che in Haneke, per quanto bravissimo, circoli una vena di sadismo, avete ragione!…. “), così S. Argentieri nella propria recensione; a mio avviso, non è né l’uno né l’altro, è l’opera di un regista, approdato al cinema ultra quarantenne, studioso di filosofia, di psicoanalisi, che rappresenta con meticolosità, spiazzante crudeltà, e insinuante taglio analitico, tutti i mali della vita contemporanea, i problemi sociali attuali, l’isolamento esistenziale, i vizi e le crudeltà insiti in ogni essere umano. Il tema è la fragilità della vita umana, tanto maggiore quanto più avanti negli anni sono i soggetti che il destino viene a colpire, rivoluzionando la quotidianità e le abitudini che l’avevano rafforzata. Il film in fondo non riserva sorprese, inizia così un calvario che lo spettatore sa già come finirà ( ce lo mostra la prima scena): un gruppo di pompieri irrompe in una casa, c’è un cattivo odore, una porta chiusa e bloccata con del nastro adesivo: i vigili del fuoco la buttano giù, e dentro trovano il cadavere di una signora anziana sdraiata sul letto, circondata da fiori. Successivamente, in un lungo antefatto, si snoda la storia del film, la storia di Anne e Georges. Se non nel prologo, di ritorno da una uscita al teatro per applaudire un brano di Schubert eseguito forse da uno degli allievi della coppia di anziani artisti, prima concertisti e poi insegnanti di musica, il film si consuma in spazi rigorosamente chiusi: una casa grande, (Parigi si intravede solo poche volte al di là delle bianche tende del salotto), elegante , ricca di oggetti di pregio, quadri, libri, fotografie che i protagonisti non vogliono strappare al calore e al decoro che la vita trascorsa assieme gli ha consentito di conservare, assieme all’amore che li unisce inesorabilmente; aldilà poi, delle buone maniere e delle affettuosità per quanto è progressivamente consentito. L’esterno è anche frammentariamente rappresentato dalle rare visite della figlia Eva (Isabelle Hupert) e la visita di un ex allievo, sconvolto alla vista delle condizioni fisiche di Anne ormai costretta a riceverlo in carrozzina. Terminato il concerto, nella casa, un po’ invecchiata, alcuni muri sono sporchi (ci sarebbero dei lavoretti da fare), ma ancora bella, accogliente, ricca di fascino, soprattutto “vissuta”, con il “bel pianoforte a coda,” terzo protagonista della storia”, marito e moglie si mettono le pantofole e lui le dice una frase ricca di premura e tenerezza: ”… a proposito, mi sono ricordato di dirti che stasera eri proprio carina?….”. Durante il film poca musica, usata con ammirevole parsimonia, “ a sprazzi”; sono i dialoghi, i racconti tra i due, le parole dalle più semplici alle più dolorose, intercalati a “mute e scarne inquadrature chirurgiche”, a fare da colonna sonora alla pellicola. Primo inquietante avvenimento, al ritorno nella propria abitazione, Anne e Georges scoprono che la serratura di casa è stata forzata: qualcuno o qualcosa, ha cercato di introdurvisi; un’intrusione dalla forte portata simbolica che ben si attaglia alla minaccia della sorte, la malattia per lei, il calvario per lui. Haneke svela adesso il proprio talento di analista spietato, la propria vocazione di umanista sconfitto che sa come rovesciare il segno; per tutto il resto dell’opera non usciremo mai dall’appartamento borghese, signorile, arredato di belle cose e con pareti intrise di angoscia e di sofferenza morale. Appunto, angoscia, claustrofilia, soffocamento, queste le sensazioni derivanti dalla narrazione e dalla rigorosa e calcolata regia dell’autore. Angoli di ripresa strettissimi, montaggio dal ritmo senile, nessuna concessione alla divagazione; anche i sogni di Georges sono incubi che lo legano alla tragedia che sta vivendo e poi per tornare alla musica, protagonista nella vita sperimentata tra i due innamorati ottuagenari, un uso musicale puramente diegetico ( brevi intermezzi di pianoforte) che costituiscono non un sollievo, ma quasi una nuova ferita nel cuore di Anne, una volta insegnante e concertista. L’intrusione si materializza un giorno, nella piccola cucina, modesta, ma arricchita da un mazzo di fiori in un angolo del tavolo quotidiano: Anne si incanta, non parla e non si muove più. Quando si riprende non ricorda nulla. Ostruzione delle carotide, ictus cerebrale , dicono i medici. E’ l’inizio di una lunga e terribile malattia, ed Anne chiede sin da subito a Georges con voce ferma e quieta, di farle una promessa: “promettimi che non mi porterai mai più in ospedale”. Georges resta in silenzio …. ma poi dichiara che manterrà la promessa … vi terrà fede, in tutti i penosi impegni quotidiani, la assisterà personalmente, anche successivamente, quando le condizioni di lei andranno sempre peggiorando. Così si assiste al dramma della vecchiaia e della malattia: la solitudine e la dipendenza; Anne andrà incontro alla non autosufficienza e solo Georges “eroicamente” diverrà il suo medico, il suo infermiere, il suo assistente sociale, il suo paziente e gentile badante …. il suo “tutto”; senza il suo impegno e la sua totale dedizione, la prosecuzione della vita di Anne, all’insegna del minimo della dignita’ umana, risulterebbe impossibile. Non sono troppo gradite neppure le visite della figlia, i nipoti ormai adulti che studiano anch’essi all’estero, e tutto ciò fa incontrare sullo schermo una famiglia dove tutti sono sempre altrove, inadeguati a fornire aiuto. Ormai Georges ed Anne, chiusi nel loro bozzolo difensivo e restii e “difficili” da aiutare, quasi con orgoglio, ma con determinazione dicono, per bocca di lui: “ a me e a tua madre ne sono successe di tutti i colori”, e ancora, “ non so che farmene della vostra preoccupazione”, con tono brusco ma sincero. Ormai Anne non ascolta più la musica, si rifiuta infine di mangiare, e quando sputa il contenuto del cucchiaio di minestra amorevolmente imboccata dal marito costui le dà uno schiaffo e lei flebilmente risponde, …”qualche volta sei un mostro ….. ma gentile ….. “. Anche l’ascensore inagibile, sbarrato, diviene metafora del disfarsi delle relazioni sociali con l’esterno; restano le premure dei servizievoli portieri del palazzo, ed uno di loro dice a Georges: “ siamo molto orgogliosi di come lei sta gestendo questa difficile situazione … lei ha tutta la nostra stima …. qualunque cosa … noi siamo qui a disposizione..”. Infine si renderà necessario l’aiuto di una prima infermiera, successivamente di una seconda … sbrigativa, poco accudente, frettolosa e poco rispettosa che Georges allontana apostrofandola così, dopo aver provveduto al pagamento della maldestre prestazioni professionali : “ …..le auguro che domani lei si trovi nelle condizioni di mia moglie e trovi qualcuno che la tratti così come lei la ha accudita …. adesso se ne vada..”.

Realismo portato all’estremo (chiunque abbia accudito un anziano avrà i brividi) . Haneke si schiera dalla parte dei malati, senza retorica, senza proclami, ma con discrezione e insieme ad un empatia che dovrebbero proibire per sempre di etichettare il bellisimo “Amour”, dominato dall’insofferenza dei protagonisti per quel male che non solo li aggredisce ma invade la vita che resta, come un semplice film “su” la malattia.

Haneke coglie bellezza e tenerezza e sentimenti indicibili nei momenti più imprevisti (quel goffo abbraccio per alzare la moglie, quasi un abbraccio sessualizzato, per alzarla e farla adagiare dolcemente e con sforzo sulla poltrona … pare diventare un paradossale “pas de deux”; decenni di routine di felicità coniugale in poche frasi … come dicevamo la vera colonna sonora del film … in campo lungo, un lampo di civetteria e di ironia, al ritorno da un rito funebre ….( “ Tu che diresti se al tuo funerale non venisse nessuno?- Oh … niente probabilmente!”). Alla fine resta un vuoto indicibile, e in quel vuoto lo sguardo perduto della figlia, sola, al centro dello schermo al termine del film, nel bel salotto avvolto ormai solo da vuoto e silenzio. Terzo elemento metaforico-simbolico, che come al solito Haneke lascia all’immaginario e all’interpretazione dello spettatore: l’irruzione di un piccione dalla finestra …. cosa sta a significare?….l’arrivo della morte?, (simbolo dell’inscindibile legame con un aldilà sempre presente nella nostra comune quotidianità) oppure l’ingresso a tutti i costi di qualcosa di vitale che riesce sempre a penetrare, entrando dalla finestra nel corridoio dove più volte Georges, mai rassegnato ed instancabile, stringendo a sè la sua sposa, cerca, a mo’ di fisioterapista di stimolarla dolcemente nello sforzo della deambulazione.. Del film restano impresse immagini struggenti, di pietas raggelata, come quella che mostra la protagonista paralizzata, distesa nel letto, mentre la figlia cerca di stimolare in lei parole che non potranno più avere suono. In questo Kammerspiel su un cul de sac della passione, i gesti e gli sguardi sono eloquenti più di ogni dialogo: Haneke si fa testimone della devozione amorosa che non conosce, che non puo’ conoscere né umiliazioni né rimpianti, fino alle estreme decisioni e conseguenze. Uno spettatore attento allora potrebbe chiedersi il perché del titolo, ma dov’è quell’ Amore che campeggia a caratteri cubitali sulla locandina fuori del nostro cinema? E’ amore il comportamento solerte del marito? E’ amore la silenziosa e tenace testimonianza del disfacimento della compagna di sempre? E’ amore la tragica decisione di porre fine al martirio e alla inutile e indegna sofferenza quotidiana? Il regista mostra, narra, non risponde ai nostri quesiti; la sua capacità è quella del coinvolgimento diretto del pubblico, è il pubblico che viene chiamato a riempire buchi narrativi, dubbi morali, interrogazioni ermeneutiche; in questo la grandezza del film e del suo autore: “Amour” non lancia messaggi riguardo a misteri irrisolvibili, “Amour” lascia che sia l’occhio di chi guarda a riconoscere nei gesti pazienti, nella testardaggine di Georges, negli sguardi riconoscenti di Anne quello che comunemente viene chiamato amore. Interpretato in modo sublime da due attori che si sono formati con la Nuovelle Vague, Jean-Louis-Trintignant ed Emmaneelle Riva, entrambi da premio, “Amour” è tenero e spietato; Haneke su un argomento come questo non poteva essere che così: colpisce, commuove, respinge, a tratti fa paura … ma soprattutto, lo ripeto, narra una storia che ha davvero come tema principale quello del suo titolo sulla locandina: l’amore. Parlare di certe cose, è a mio avviso, difficilissimo, mostrarle è quasi impossibile. Haneke trova nella sua poetica e nella sua etica, lucide fino alla ferocia, la chiave per non cadere nel patetismo e allo stesso tempo, immergerci nel dolore. Certi interrogativi che si vorrebbero risolvere per legge qui si esplicano nella loro immensità. Ogni contraddizione, qui , viene al pettine, e nulla sembra scontato o ideologico, ma naturale come la vita e la morte.

 

ALCUNE COSE DA SAPERE SU “AMOUR”
LE INTERVISTE AGLI ATTORI E AL REGISTA

Jean-Louis-Trintignant

-“Alla produttrice che gli aveva dato il copione di”AMOUR” in un momento di sconforto disse: “Ho più voglia di suicidarmi che di girare questo film”. Risposta: “Accetti di lavorare nel film, per suicidarsi avrà tempo dopo”.

“Dopo aver letto la sceneggiatura ed aver incontrato Haneke l’attore gli ha detto: “Ecco un film che non andrei mai a vedere …..” dopo lunghe conversazioni … di nuovo: “ Faticosissimo …. ma meraviglioso … sono sicuro che andrò a vederlo”.

-“L’11 Dicembre 2012 ho compiuto 83 anni, dieci anni orsono la tragedia più grande della mia vita: la morte di mia figlia Marie in seguito alle percosse subite dal proprio compagno.”Lui è l’uomo che detesto di più al mondo”, “la sua mancata discrezione, una volta scontata la pena, mi ha letteralmente distrutto”.Per questo mi sono dedicato al teatro per dieci anni, ma non ho resistito ad Haneke e al suo cinema”.

-“La sensualità è raccontata con i “corpi giovani”, “non si racconta mai l’amore dei vecchi, nonostante i vecchi amino molto. Non amiamo spesso noi stessi, ma siamo amati”

-“La vita è fatta così. Le persone più vulnerabili sono i deboli, i poveri, gli ammalati, non i forti. Guardiamoci attorno: nella vita di tutti i giorni, che si tratti di politica o di economia, sono sempre i deboli a incassare, la vigliaccheria degli uomini è identica dappertutto”.

Emmanuelle Riva

-“Ho recitato la prima volta con Jean-Louis nel lontano 1965, ed ho accettato alla tenera età di 85 anni per essere implicata emotivamente, sotto la guida esperta di Haneke”.

-“Questa storia di amore riguarda tutti noi, uno per uno, non c’è via di fuga. Gli esseri umani hanno un gran bisogno di amare”.

-“Con l’estremo candore di chi sa le cose perché le ha vissute concretamente tutte nella propria vita personale e non sullo schermo, Emmanuelle Riva sottolinea sorridendo che chi non ama soffre, chi ama soffre comunque, c’è sofferenza ovunque e allora è meglio soffrire amando”.

-“L’amore è il grande soggetto di poeti e scrittori, così come la morte aggiunge. Ed è curioso come nella lingua francese il suono di amore e morte, “l’amour” e “ la mort” cambi di una sola vocale. Dopo aver letto la sceneggiatura ho fortemente desiderato fare il film assieme all’amico Trintignant”.

Isabelle Hupert

-“Non ho avuto una vita reale semplice, ma dolorosa e complicata, attraversata da molte disgrazie e disavventure”.

-“Poco tempo fa, ho girato un film con Marco Bellocchio sul tema dell’eutanasia. Storie diverse sullo sfondo degli ultimi giorni di vita di Eluana Englaro.Nella mia vita concreta, mi sono ritirata dalle scene, per seguire mia figlia caduta in coma in seguito ad un grave e terribile incidente”.

Michael Haneke

-“Sono figlio di un’attrice e di un regista, ho studiato filosofia e psicologia all’Università di Vienna; dopo la laurea, con fatica, sono divenuto prima critico cinematografico, successivamente regista televisivo(1973) e infine di cinema(1997).

-“I protagonisti dei miei film sono persone comuni, si muovono spesso in ambienti svantaggiati, sono personaggi deboli; gli avvenimenti si sviluppano sempre all’interno del gruppo familiare e questo perché la famiglia rappresenta e rispecchia la società in cui viviamo”.

-“Haneke si definisce, “regista di donne”, in quanto nei suoi film sono proprio le donne ad assumere un ruolo principale, facendo evolvere l’azione. Questo è riconducibile alla biografia del regista, la cui infanzia è stata fortemente influenzata dal legame con tre donne, la madre,la nonna, la zia, mentre scarsi erano i rapporti col padre, rimasto a lavorare in Germania”.

-“Ho girato il film quasi per intero all’interno di un appartamento che è quasi la copia fedele di quello dei miei genitori, un ambiente medio-borghese così vissuto e vero da sembrare un luogo autentico carico di memorie di una vita. Il film è nato dall’adattamento di una vicenda di famiglia; cioè il suicidio di una mia zia 93enne che, stufa di dover continuare a sopravvivere in uno stato quasi vegetativo, si è tolta la vita dopo che una prima volta l’avevo salvata a seguito di un primo tentativo di suicidio per avvelenamento da farmaci, da me scoperto per tempo”.

-“Il film, all’inizio, doveva intitolarsi “ La musica interrotta”, in una sintesi metaforica che voleva racchiudere in sé sia l’dea che la morte di uno dei due componenti della coppia di musicisti fosse come la fine della musica suonata e vissuta insieme per una vita, ma anche l’interruzione biologica della fine di una delle due esistenze, con la tipica brutalità che ogni cessazione repentina impone ad ogni processo vitale. L’idea di passare al semplice “Amour”, nudo e crudo, senza nemmeno l’articolo determinativo la si deve a Jean-Louis-.Trintignant …. non è stato facile averlo nel cast … non merito tanto … pare abbia dichiarato in un intervista rilasciata in un albergo romano: “E’ vero non volevo fare più cinema, ma Michael è uno dei più grandi registi al mondo, mi ha convinto con questo film doloroso e carico di amore..Avevo deciso di dedicarmi solo al teatro, però la mia parte in “Amour” è eccezionale. In questo film ho visto me stesso ….”.

 

 

RACCORDO MITOLOGICO

FINCHE MORTE NON VI/CI SEPARI

 

Nelle “Metamorfosi” di Ovidio (primo sec. A. C.) si narra la leggenda mitologica di Filemone e Bauci .

Zeus ed Ermes vagano travestiti da pellegrini per la Frigia con sembianze umane; scendono sulla terra dall’Olimpo per capire quale sia il comportamento sociale tra gli umani. Desiderosi di trovare un rifugio dove riposarsi, iniziano a picchiare di porta in porta chiedendo ospitalità. Bussano a innumerevoli palazzi,ma vengono scacciati ovunque e non trovano accoglienza. Una sola casa offre asilo: è una capanna,costruita con canne e fango. Qui Filemone e la pia Bauci, uniti in matrimonio, vedono passare i loro giorni belli, invecchiare insieme sopportando la povertà, resa più dolce e pia leggera dal loro amoroso e tenero legame. Ospitati nella loro casa consumano assieme un umile pasto, dove gli ospiti mettono a disposizione degli estranei pellegrini quanto posseggono di più prezioso nella loro dispensa; finita la cena gli dei manifestano la loro reale identità ed invitano la coppia ad uscire di casa. Ad un tratto tutti i palazzi in lontananza ed attorno vengono sommersi da una palude, solo la povera capanna si salva. Filemone e Bauci compiangono la sorte dei vicini, la vecchia capanna si converte in un tempio: i pali a forcella si trasformano in colonne, le stoppie divengono d’oro, il pavimento si copre di marmo, le porte appaiono magnificamente scolpite. Quando i due vecchi furono prossimi alla morte, Zeus li trasformò in una quercia e in un tiglio uniti per il tronco. Questo albero meraviglioso, che si ergeva di fronte al tempio, fu venerato per anni dagli abitanti di tutta la Frigia.

Folco di Volo-CPF-Ottobre 2013

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