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Britton R. (2013). Soggettività, Oggettività e Spazio Triangolare

Relazione presentata al Seminario AFPP CSMH – AMHPPIA SIPP SPI

28 Settembre 2013

Sala del Giardino d’Inverno, Istituto Montedomini, Via de’ Malcontenti 6 Firenze

Introduce A.Molli (CSMH – AMHPPIA)

Intervengono S.Nissim (SPI) e G.Biggio (SIPP)

 

ABSTRACT della relazione

Nel suo lavoro, Britton sostiene che lo Spazio Triangolare, cioè lo spazio delimitato da tre persone che costituiscono la situazione edipica analitica con le potenziali relazioni, include la possibilità 1) di partecipare alla relazione e di essere osservati da una terza persona; 2) di essere l’osservatore della relazione tra due persone.

Questo risulta possibile se il legame tra i genitori, percepito nell’amore e nell’odio, è tollerato dalla mente del bambino permettendogli di avere una relazione oggettuale di un terzo tipo dove è testimone e non protagonista. Questa situazione consente di 1) essere osservati, 2) vedere se stessi nella relazione con gli altri, 3) considerare un altro punto di vista mantenendo il proprio, 4) riflettere su se stessi mentre si è se stessi.

L’autore è arrivato a queste considerazioni attraverso esperienze con pazienti borderline, che considera una sindrome particolare di disturbo narcisistico caratterizzato come iper-soggettivo o dalla pelle sottile, dove manca la terza posizione. Questi pazienti si sentono minacciati in analisi e l’analista ha molta difficoltà nel suo lavoro, riuscendo solamente a comprendere il loro punto di vista ma non può comunicare con un terzo oggetto. L’oggettività è preclusa, mancano i movimenti laterali, sono presenti solo quelli lineari ed il senso dello spazio può essere dato dalla possibilità di aumentare la distanza. L’analista sente il bisogno di un luogo obliquo dove entrare nella mente per osservare le cose, mancando la terza posizione.

Per formulare il suo concetto, Britton si è riferito al lavoro di Melanie Klein sui primi stadi del conflitto edipico (1928) ed alla teoria di Bion del contenimento (1959-1962), il quale ha descritto come la mancanza di contenimento materno sviluppa un Super-Io invidioso e distruttivo che impedisce l’apprendimento e le relazioni oggettuali. L’incapacità della madre di accogliere le proiezioni del bambino è vissuta dal bambino come un attacco distruttivo da parte della madre verso il legame e la comunicazione con lei. Per poter recuperare un buon oggetto materno viene pertanto messa in atto una scissione che separa l’ostilità della madre contro il legame col bambino dalla madre stessa attribuendola ad una forza ostile. Questo porta a sentire la madre come precaria ed il bambino deve limitare la sua conoscenza verso di lei e la sua curiosità, perché l’andare verso di lei può essere sentito come dannoso e vissuto come una minaccia. La curiosità rivela la situazione edipica e la forza ostile è equiparata al padre edipico, pertanto il legame fra i genitori è sentito come qualcosa che distrugge la bontà della madre.

Quando non vi è una buona relazione m/b, resta l’esperienza di esserne privati e nasce la confusione della scissione primaria naturale dello sviluppo pre-depressivo. Per preservare il buon oggetto viene messa in atto una scissione arbitraria della vita mentale che separa il buono ed individua/isola il cattivo. Si ha pertanto la configurazione scissa della configurazione edipica positiva usata per separare il desiderio di amore e comprensione soggettiva dal desiderio di conoscenza oggettiva e identità intellettuale condivisa.

L’autore si sofferma sui disturbi narcisistici, sottolineando che pazienti con questa sindrome non riescono a stabilire una relazione di transfert abituale, restano freddi o aderenti e l’analista non è vissuto come significativo e separato. Britton distingue questi pazienti, in cui il terzo oggetto è alieno, come:

 

Iper-soggettivi con aderenza narcisistica, (Paziente dalla pelle sottile), dove il Sé evita l’oggettività del terzo oggetto e si attacca alla soggettività. L’analista non trova posto fuori dalla mente del paziente e l’altro è un’estensione di se stessi

I pazienti trovano difficile la vita con gli altri, l’analisi è sentita come una minaccia. Il paziente fa affidamento sull’analista come figura materna ricettiva ma l’analista lo perseguita con le sue interpretazioni su base oggettiva ed il paziente si sottrae in maniera masochistica o esplode, eliminandolo con ritiro psichico o fisico. L’oggettività sembra associata allo sguardo, vi è timore di essere visti, descritti.

Questo può evocare angosce esistenziali nell’analista perché l’identificazione empatica col paziente è inconcepibile con la visione clinica oggettiva della situazione, l’analista ha difficoltà ad usare la sua esperienza generale e le teorie.

Il paziente identifica con un oggetto materno comprensivo, ma quando vengono inseriti pensieri propri, l’analista è identificato come un padre edipico che intrude nell’intimità del paziente oppure lo porta in un suo contesto sradicandolo dal proprio contesto psichico soggettivo. La situazione viene così dotata di un’organizzazione difensiva con un oggetto materno empatico e passivamente comprensivo ed una figura paterna aggressiva. Il terzo oggetto diventa penetrante (transfert negativo) ed annienta la comprensione dettata dall’oggetto primario. Mantenendo questa organizzazione difensiva del triangolo edipico, si garantisce che la re-integrazione tra l’oggetto comprensivo e l’oggetto che non comprende non si verificherà mai perché, se così fosse, ci sarebbe l’annientamento della comprensione.

 

Iper-oggettivi con distacco narcisistico, (Paziente dalla pelle spessa), dove il Sé si identifica con l’oggettività del terzo e attacca la soggettività. L’analista non trova posto nella mente del paziente e l’altro non ha rilevanza.

Nella situazione analitica vi è il problema dello spazio analitico condiviso; l’analista capisce il paziente ma non è in grado di entrare in contatto con lui, è un outsider, un escluso. Il problema del paziente si configura nell’assenza che lo ha condotto ad un ritiro psichico per terrore di essere conosciuto/percepito erroneamente.

In entrambi i casi non ci sono due menti collegate e indipendenti ma due persone separate che non entrano in connessione fra di loro o due persone con una sola mente. In comune vi è il terrore senza nome dell’integrazione di menti separate.

Britton si sofferma poi sul concetto di errata comprensione maligna e bisogno di accordo. Se nella primissima infanzia la mancanza di comprensione è vissuta come un attacco piuttosto che come inadeguatezza, si giunge a credere che che vi è una forza che distrugge la comprensione ed elimina il significato (terrore senza nome di Bion). Quando vi è desiderio di comprensione e terrore di travisamento, si presenta il bisogno di trovare accordo in analisi col conseguente annientamento del disaccordo. Il bisogno di accordo è inversamente proporzionale all’attesa di comprensione. Quando l’attesa di comprensione è alta la differenza di opinione è tollerabile, quando è abbastanza alta la differenza è abbastanza tollerabile, quando è assente il bisogno di accordo è assoluto.

Infine l’autore si chiede se esiste qualcosa di innato nell’individuo tale da predisporlo a questo particolare sviluppo o reazione.

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Testo della relazione di R.Britton, che pubblichiamo per gentile concessione dell’autore

Traduzione a cura di Michela Benuzzi

Scrissi per la prima volta della terza posizione nel 1987, in una presentazione per una conferenza che si tenne all’UCL (University College di Londra) su Il Complesso Edipico Oggi:

“Il riconoscimento da parte del bambino della relazione che i genitori hanno l’uno con l’altro unisce il suo mondo psichico, limitandolo a un mondo condiviso con i suoi due genitori, mondo nel quale possono esistere relazioni oggettuali diverse. La chiusura del triangolo edipico tramite il riconoscimento del legame che unisce i genitori fornisce un confine che limita il mondo interno. Crea ciò che io chiamo uno `spazio triangolare’ cioè uno spazio delimitato dalle tre persone che costituiscono la situazione edipica e tutte le loro potenziali relazioni, quindi include la possibilità di partecipare a una relazione e di essere osservati da una terza persona, oltre a essere l’osservatore di una relazione tra due persone…

Se il legame tra i genitori, percepito nell’amore e nell’odio, può essere tollerato nella mente del bambino ciò gli fornisce un prototipo per una relazione oggettuale di un terzo tipo, nella quale egli è un testimone e non un partecipante. Giunge così ad esistere una terza posizione, dalla quale si possono osservare le relazioni oggettuali. Questo permette di concepire il fatto di essere osservati e ci fornisce la capacità di vedere noi stessi nell’interazione con gli altri, di considerare un altro punto di vista mantenendo al tempo stesso anche il nostro, di riflettere su noi stessi mentre siamo noi stessi. Si tratta di una capacità che speriamo di ritrovare in noi e nei nostri pazienti in analisi” (Britton 1989).

La teorizzazione dell’articolo deriva da esperienze con pazienti borderline con i quali, per lunghi periodi di tempo, tale capacità si è rivelata mancante. André Greene (1997) vede il disturbo borderline e l’isteria come istanze differenti e inoltre sostiene un punto, che mi vede d’accordo, secondo il quale il disturbo borderline non è uno stato psicotico larvale. Come si evincerà dal presente articolo, io considero la sindrome borderline come una forma particolare di disturbo narcisistico che caratterizzo come iper-soggettivo o ‘dalla pelle sottile’. Gradualmente mi è apparso sempre più evidente come in questi casi ciò che mancava era la `terza posizione’ sopra descritta.

Sono giunto a comprendere come gli sforzi da me compiuti per consultare il mio Sé analitico fossero individuati da tali pazienti e vissuti come una forma di mio rapporto sessuale interno, che corrispondeva a un rapporto sessuale dei genitori. Essi sentivano che ciò minacciava la loro esistenza. L’unico modo che ho identificato rispetto a trovare un luogo per pensare, che fosse utile e non di disturbo, è stato di permettere l’evoluzione dentro di me del mio stesso vissuto e di articolarlo a me stesso, al tempo stesso comunicando con i pazienti il mio comprendere il loro punto di vista. La possibilità di una mia comunicazione con un terzo oggetto era impensabile e quindi la terza posizione alla quale ho fatto riferimento risultava insostenibile. In questi casi, il terzo oggetto potevano essere le mie teorie, legami con colleghi o ciò che resta di una precedente esperienza analitica.

Conseguentemente pareva impossibile districarsi a sufficienza dall’avanti e indietro dell’interazione, per riuscire a capire cosa stesse accadendo. Non era possibile tollerare alcun movimento verso l’oggettività. L’analista e il paziente dovevano avanzare lungo un’unica linea e incontrarsi in un unico punto. Non potevano esserci movimenti laterali. Un senso dello spazio poteva essere ottenuto solo aumentando la distanza tra di noi, processo che tali pazienti trovano impossibile da sopportare, salvo che non siano essi stessi ad avviarlo. In tali situazioni ciò di cui sentivo avere disperatamente bisogno era un luogo nella mente, nel quale potessi entrare obliquamente e dal quale potessi osservare le cose. Se cercavo di forzare la mia presenza in tale posizione tramite una descrizione del paziente espressa con parole mie, inevitabilmente si produceva violenza a livello psichico, e a volte anche fisico.

L’importanza cruciale delle tre persone del triangolo psichico è stata sottolineata da analisti di altre scuole e in altri paesi, in particolare in Francia, poi ad opera di Joyce McDougall, Janine Chassaguet Smirgel e André Green e ora anche in America da parte di chi scrive di inter-soggettività. Che idee derivate dalla pratica psicoanalitica, con il background teorico della scuola di pensiero Kleiniana britannica, potessero condurre a tali riflessioni e illuminazioni come quelle della scuola francese e quelle provenienti dagli USA, mi spinge a pensare che forse stiamo affrontando una realtà clinica che trascende i paesi, le culture e i contesti teorici.

Personalmente sono giunto all’idea dello spazio triangolare e della terza posizione a partire da alcune esperienze cliniche particolari e la mia teorizzazione si è basata essenzialmente sul concetto di Melanie Klein dei primi stadi del conflitto edipico (1928) e sulla teoria di Bion del contenimento. Bion (1959, 1962a &1962b) ha descritto le conseguenze che colpiscono alcuni individui a causa di un mancato contenimento materno come lo sviluppo dentro di loro di un Super-Io invidioso e distruttivo che impedisce loro di apprendere o di perseguire la creazione di relazioni proficue, con qualsiasi oggetto. Chiarisce molto bene come l’incapacità della madre di accogliere le proiezioni del bambino venga vissuta dal bambino come un attacco distruttivo da parte della madre al suo legame e alla sua comunicazione con lei, come suo oggetto.

Proposi quindi l’idea che un oggetto materno buono possa essere recuperato solo scindendo l’ostilità percepita della madre contro il legame e attribuendola a una forza ostile. Una forza simile a quella rappresentata in varie religioni del mondo antico come ‘Mostri del caos’: nell’Antico Egitto si trattava di “Apophis”. Egli “era la personificazione del caos primordiale. Non possedeva organi di senso, non poteva sentire né vedere, ma solo gridare. E agiva sempre nell’oscurità” (1) (Cohn 1993). Minacciava costantemente ma’at la personificazione femminile dell’ordine nel mondo. La madre come fonte di bontà, come ma’at, è ora precaria e dipende dal fatto che il bambino limiti la propria conoscenza di lei. Un ampliamento della conoscenza della madre, come conseguenza dello sviluppo, e la sua [del bambino] curiosità sono sentiti come una minaccia verso questa relazione cruciale. La curiosità rivela l’esistenza della situazione edipica. La forza ostile che si era pensato attaccasse il legame originale con la madre viene ora equiparata al padre edipico, e il legame tra i genitori viene sentito come qualcosa che la distrugge, in quanto fonte di bontà e ordine.

La mia ipotesi quindi è che il problema trovi le sue origini in relazione all’oggetto materno primario, quando non si crea un’esperienza inequivocabilmente buona dell’interazione bambino-madre, per contrasto con la cattiva esperienza dell’esserne privati. Invece della scissione primaria naturale dello sviluppo pre-depressivo c’è confusione. Per fermarla, s’impone una scissione arbitraria nella vita mentale, in modo da racchiudere la nozione di buono e per individuare e isolare il cattivo. La struttura essenziale della situazione edipica si presta a scissioni di tal genere. Ciò può dare origine a un’apparenza fuorviante, come se si trattasse di un complesso di Edipo classico, positivo, basato sulla rivalità con la madre per l’amore del padre. Il transfert racconta una storia differente. La solita configurazione scissa della configurazione edipica positiva, che di norma viene usata per separare amore e odio, in questi casi viene usata per fornire una struttura che separi il desiderio di una comprensione soggettiva e l’amore dal desiderio di una conoscenza oggettiva e un’identità intellettuale condivisa. Sono giunto a considerarle come le caratteristiche dei disturbi narcisistici e borderline.

Utilizzo questi termini per indicare il punto di vista della prima persona come soggettivo e il punto di vista della terza persona come oggettivo. Il filosofo John R. Searle (1995) compie una distinzione tra oggettività usata come descrizione in terza persona, che lui chiama oggettività ontologica, dall’uso della parola per indicare un giudizio spassionato, che chiama oggettività epistemica. In questo senso si tratta dell’integrazione della soggettività ontologica con l’oggettività ontologica che per alcuni pazienti provoca un’angoscia catastrofica.

 

Disturbi narcisistici

Henri Rey ha descritto questi disturbi come “il disturbo di un certo tipo di personalità che sfugge alla classificazione nelle due grandi divisioni di nevrosi e psicosi. Ora le conosciamo come organizzazioni di personalità borderline, narcisistiche o schizoidi” (Rey J.H. 1988) (2).

Ciò che hanno in comune coloro che soffrono di questi vari disturbi è che non riescono, almeno all’inizio, a funzionare in analisi in modo usuale perché non riescono a stabilire una relazione di transfert di tipo abituale. Alcuni restano freddi, distanti e distaccati, mentre altri sono aderenti, vocianti e concreti nel loro attaccamento di transfert. Ma in nessuna di queste versioni l’analista viene vissuto come al tempo stesso significativo e separato.

Fu Abraham (1919) a scoprire come alcuni soggetti, non psicotici o apertamente non-collaboranti, fossero estremamente difficili da analizzare perché non usavano, o non riuscivano a usare, il metodo delle libere associazioni e neppure a esporre la loro esperienza soggettiva. Rosenfeld ha descritto tali pazienti come pazienti narcisisti dalla pelle spessa per contrasto con i ‘pazienti narcisisti dalla pelle sottile’. In ‘Comunicazione e Interpretazione’, pubblicato nel 1987 poco dopo la sua morte, ha scritto che ci sono quelli

la cui struttura narcisistica fornisce loro una ‘pelle talmente spessa’ che sono diventati insensibili ai sentimenti più profondi… Per evitare l’impasse, questi pazienti devono essere trattati con molta fermezza in analisi… quando alla fine le interpretazioni riescono a raggiungerli, sono sollevati, sebbene sia doloroso per loro… Per contrasto… i pazienti dalla pelle sottile sono ipersensibili ed è facilissimo ferirli nella vita di tutti i giorni e in analisi. Per di più, quando il paziente narcisista sensibile viene trattato in analisi come se fosse il paziente dalla pelle spessa, ne resterà gravemente traumatizzato (Rosenfeld 1987) (3).

Ciò che ho ipotizzato è che questi due stati clinici siano il risultato di due diverse relazioni del Sé soggettivo con il terzo oggetto del triangolo edipico interno. In entrambi gli stati il terzo oggetto è alieno al Sé soggettivo e sensibile. Nell’iper-soggettivo il Sé cerca di evitare l’oggettività del terzo oggetto e si attacca alla soggettività. Il paziente iper-oggettivo si identifica con il terzo oggetto e adotta una modalità di oggettività rinunciando alla soggettività (Britton 1998).

Ciò che rapidamente viene rivelato in entrambi i casi è che l’analisi è un grosso problema per questi pazienti o per i loro analisti. Essere in analisi è un problema, così come essere nella stessa stanza, nello stesso spazio mentale. Invece di esserci due menti collegate e indipendenti, ci possono essere due persone separate incapaci di entrare in connessione oppure due persone con una sola mente. Queste due situazioni non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra in analisi. Ciò che hanno in comune è la loro incapacità di funzionare in maniera abituale e il loro terrore dell’integrazione di menti separate.

Nel primo gruppo l’altro viene trattato come se non avesse rilevanza, nel secondo gruppo i pazienti non riescono a comunicare senza rendere l’altro significativo un’estensione di se stessi. Nella prima situazione, l’analista non riesce a trovare un posto all’interno della realtà psichica del paziente, nella seconda non trova un posto fuori di essa. La prima è iper-oggettiva con distacco narcisistico e la seconda è iper-soggettiva con aderenza narcisistica: di entrambe fornirò una breve descrizione clinica.

 

Iper-oggettività e Distacco Narcisistico (Paziente dalla pelle spessa)

Per cominciare, un esempio nel quale essere un outsider, un esterno, al di fuori dell’interazione soggettiva con l’oggetto del desiderio e identificato con un osservatore oggettivo, si è rivelato essere la chiave di volta.

Il paziente era uno scrittore di successo che decise di avviare un’analisi dopo un periodo di terapia di coppia, su suggerimento del terapeuta e con l’incoraggiamento della moglie. Fu lui a raccontarmi tutto ciò e aggiunse, con disarmante franchezza, che il suo problema era l’intimità. “Mia moglie dice che non sono portato per le relazioni intime e sono certo che abbia ragione”. Durante la consultazione mi rivelò anche di avere sofferto di una forma di depressione per la quale si svegliava male, sopraffatto da un senso di terrore e disperazione rispetto alla vita in generale e alla propria inutilità. Da giovane, quando era stato un uomo di fede, credeva di essere dannato, oltre ogni possibile redenzione, e che i normali rimedi religiosi, come la confessione, il pentimento ecc., non avrebbero funzionato per lui. Quando proposi che forse provava lo stesso per l’analisi, lui subito si mostrò concorde nel non riuscire a immaginare che potesse essergli d’aiuto o che potesse cambiarlo, anche solo minimamente “devo tentare però, se lei è disposto” disse.

Il problema dello spazio analitico condiviso emerse chiaramente e immediatamente quando arrivò per la prima seduta. Ci accordammo su un orario e accettò le convenzioni analitiche, così come le vedeva lui, dello stare steso sul lettino per cinquanta minuti. Mi fece intendere però che avrebbe potuto farlo volentieri anche se gli avessi proposto di stare in equilibrio sulla testa per cinquanta minuti. “Sopportare le cose” ipotizzai “è una cosa che lei sa di poter fare senza che queste abbiano un effetto su di lei”. Fu d’accordo con le mie parole e mi fornì anche vari esempi convincenti, risalenti all’infanzia, della propria fortezza d’animo, che lo proteggeva contro la possibilità che i regimi che gli venivano imposti lo trasformassero.

Una volta avviata la terapia, il problema si rivelò essere il mio. Sebbene riuscissi a capirlo senza troppe difficoltà, non riuscivo a trovare il mezzo per condividere il suo spazio mentale, a entrare in contatto con lui. Ero ‘l’esterno, l’outsider’ in questa analisi. Il paziente sosteneva di non essere realmente coinvolto nell’analisi e solidarizzava con me per il fatto di dovere sopportare un paziente così poco grato, quando probabilmente avrei preferito essere considerato importante e che le mie idee venissero apprezzate. Insomma, le mie esigenze erano all’altezza della sua considerazione ma non poteva fare nulla al riguardo. La pietà, ecco cosa mi offriva, in quanto vecchio decrepito, che una volta descrisse come il verme di West Hampstead (4).

Al di fuori dell’ambito della sua attenzione però la mia mente non era vuota. Aveva il dono di sapermi comunicare le difficoltà che doveva affrontare e le angosce che lo affliggevano, per cui disponevo di una vivida consapevolezza circa la sua sofferenza e ciò che lo tormentava. Se attiravo l’attenzione su queste difficoltà mi derideva gentilmente per averle prese sul serio. Poi se ne andava, conclusa la seduta, sulle note allegre di “begone dull care” (5) e accompagnato da un cenno della mano diceva “a domani”. In altre parole, io me ne restavo lì ‘a tenere il bambino’. Questo valeva anche per i suoi ricordi; anche di esperienze crudeli, delle sue rivelazioni di dolorose umiliazioni e di una notevole deprivazione. Riteneva eccentrica la mia opinione secondo la quale aveva vissuto un’infanzia infelice. Se poi gli rimandavo i ricordi che mi aveva rivelato nella seduta precedente, subito sosteneva di avere una memoria terribile e di dimenticarsi tutto, da un giorno all’altro. Quindi ora ero l’unico a essere a conoscenza dell’esistenza del bambino sofferente. Il mio paziente era scomparso. Quando ipotizzai che aveva svuotato il suo sé esperienziale dentro di me e che poi ci aveva lasciati entrambi indietro, reagì descrivendomi una storia sulla quale aveva lavorato. Un titolo ce l’aveva ma, disse “si sarebbe potuta intitolare la storia di una persona scomparsa”. Raccontava di una persona che esplorava un’abitazione e non riusciva a capire se ci vivesse qualcuno oppure no. Si potevano individuare i contorni della vita della persona scomparsa e i dettagli delle giornate, grazie alle tracce rimaste, ma non vi era presenza. L’essenza della storia si concentrava sul vuoto al quale l’assenza aveva dato forma, la forma di una persona scomparsa.

Nell’analisi, così come nel matrimonio, l’assenza appare risolvere il problema della presenza. Vi è la necessità però di un luogo dal quale essere assenti. Ci vuole una moglie per poter essere un marito assente, o un analista per poter essere un paziente assente, o ancora ci vuole una casa dalla quale allontanarsi per essere un fuggitivo. Per saltare una seduta occorre averla prima prenotata.

Essenzialmente, utilizzando il contro-transfert come fonte d’informazioni sul mio paziente scomparso, siamo stati in grado di farci un’idea dei problemi che hanno condotto al suo ‘ritiro psichico’ verso la periferia della sua stessa esistenza. Ho scoperto che mantenendo l’usuale posizione analitica, caratterizzata dall’essere ricettivo e indagatore, non riuscivo a raggiungere il mio consueto senso del significato . Mi ritrovavo a provare la tentazione di inserirmi nel campo della visione psichica del mio paziente assumendo un ruolo già spesso assegnatomi di coach o critico amichevole. Il prezzo da pagare nel contro-transfert, per il fatto di restare nella mia personalissima sfera psichica, era un senso di insignificanza e solitudine. Quella, e non fu difficile discernerlo, era l’esperienza del mio paziente nel passato e nel suo presente lavorativo, dove si sentiva sul bordo del mondo.

Lì, sul limitare, si poteva definire come l’outsider, l’esterno, come l’uomo non adatto. Il costo di questa identità era l’esclusione. Il passaporto per l’inclusione doveva essere definito dalle congetture e dai preconcetti dell’altro; il prezzo per il fatto di entrare nella mente dell’altro era di essere percepiti erroneamente. Il sacrificio da compiere per assicurarsi un posto al coperto consisteva nel restare ingabbiati nella cornice limitante della comprensione del mondo dell’altro.

Da bambino aveva trovato un nascondiglio dove poteva restare nascosto dalla sua famiglia. I suoi sogni chiarirono la rilevanza di quello spazio segreto e di come si rivelò essere il predecessore di altri spazi privati, culminati nella creazione dello studio dove lavorava. Lì creava con la propria scrittura le sue personalissime versioni di sé stesso e poneva queste repliche all’interno di una varietà di contesti di sua scelta che rispecchiavano accuratamente il suo mondo interno. Queste creazioni di solito rappresentavano un luogo solitario e cupo. Avrei avuto modo di sviluppare una conoscenza profonda di questo luogo cupo perché fu lì che mi piazzò, nell’analisi. Alla fine fu lì che ci incontrammo, in un paesaggio mentale condiviso, simile a una brughiera, che mi fece tornare alla mente quella in cui il poeta Wordsworth incontrò il raccoglitore di sanguisughe, quando l’opera di Coleridge “Depressione: un’ode” lo faceva disperare. La mia impressione fu che abbia tratto dei benefici dall’analisi, di certo il successo non gli è mancato, mi piace pensare che il nostro incontro possa avere avuto su di lui un effetto terapeutico simile a quello che Wordsworth attribuisce al raccoglitore di sanguisughe. “…trovare / In quell’Uomo decrepito una mente così ferma” (Wordsworth 1807). (6)

Ciò che credo abbiamo appreso nell’analisi sia la ragione dell’auto-esclusione. Lo proteggeva dall’essere percepito erroneamente, o per usare le parole di Bion, dall’essere il contenuto che sarebbe stato forgiato nella definizione di un sé del contenitore. [Lì, sul limitare, si poteva definire come l’outsider, l’esterno, come l’uomo non adatto. Il costo di questa identità era l’esclusione. Il passaporto per l’inclusione doveva essere definito dalle congetture e dai preconcetti dell’altro; il prezzo per il fatto di entrare nella mente dell’altro era di essere percepiti erroneamente. Il sacrificio da compiere per assicurarsi un posto al coperto consisteva nel restare ingabbiati nella cornice limitante della comprensione del mondo dell’altro] (7).

 

Iper-soggettività e aderenza narcisistica

Ciò che a livello clinico caratterizza questo gruppo di casi è la loro difficoltà. Trovano difficile la vita con gli altri; trovano difficile tollerare sé stessi; trovano difficile essere in analisi, e tipicamente, i loro analisti trovano difficile lavorare con loro. Quando gli analisti portano questi casi in supervisione, quasi sempre iniziano dicendo “Voglio parlarle di un paziente difficile” oppure “Credo di avere una difficoltà particolare con questo caso”. Spesso tutto ciò si accompagna a un senso di vergogna, nell’analista, che sente di avere deluso il paziente oppure di essersi lasciato coinvolgere in un’analisi collusiva, con una modalità che lo vede riluttante dal rivelare ai colleghi.

Naturalmente sono molti i pazienti che pongono problemi notevoli dal punto di vista tecnico e contro-transferale, ma il problema tipico che spinge l’analista a usare la parola difficile con tale enfasi è di un tipo particolare. È la maniera in cui il metodo analitico stesso viene sentito dal paziente, cioè come una minaccia; la sua struttura; il suo metodo; i suoi confini. Nell’analista, il corollario a tutto ciò è di non riuscire mai completamente a stabilire un setting analitico. Questa impasse è stata utilizzata da alcuni analisti per promuovere come metodo analitico superiore una strategia alternativa che in realtà è stata dettata dal paziente come condizione necessaria. Ritengo che ciò corrisponda a una credenza del paziente, segreta oppure no, per la quale il proprio modo atipico di crescere è stato più autentico e che i bambini normali che diventano pazienti analitici più trattabili, sono vittime dell’oppressione oppure sono dei collaboratori.

Mentre l’analista lavora in maniera empatica con il paziente e corrobora la propria esperienza soggettiva in modo che ritiene essere utile, si ritrova a essere come una madre che in realtà non esiste di per sé. Il paziente sente di fare molto assegnamento su questa funzione e sull’analista stesso come figura ricettiva, mentre l’analista teme di avere perduto la propria identità analitica. Se però l’analista si impone e produce interpretazioni su base oggettiva, [il paziente] si sentirà perseguitato e quindi si sottometterà in maniera masochistica, oppure esploderà. In un modo o nell’altro, il paziente eliminerà ciò che l’analista dice o sradicherà dalle sue parole gli elementi di differenza. Il paziente potrebbe sentire il bisogno di allontanare la propria mente dalla sua presenza tramite il ritiro psichico e per alcuni pazienti è necessario anche allontanare i propri corpi per potere allontanare le loro menti, e così interrompono l’analisi. Questi pazienti tendono a lasciare alcuni analisti o a restare in una situazione di impasse con altri. I rischi sono di un aborto analitico o di un’analisi interminabile. Le realtà soggettive e oggettive sono ritenute essere più che semplicemente incompatibili, vengono ritenute essere addirittura reciprocamente distruttive.

L’oggettività sembra essere associata allo sguardo. Vi è il timore di essere visti, così come di essere descritti. Una bambina con problemi di questo genere, in terapia psicoanalitica, è utile come esempio a causa della natura molto diretta dello scambio con lo psicoterapeuta. In un caso che ho supervisionato, una bambina di sette anni era chiaramente molto perseguitata semplicemente dal fatto di trovarsi nella stanza di terapia e gridava ogni volta che il terapeuta cercava di parlare. Alla fine, con il suo aiuto, la piccola paziente riuscì a chiarirgli che se lei lo avesse bendato e imbavagliato, così che non potesse vedere o parlare ma solo ascoltare, allora lei gli avrebbe parlato. Quando il terapeuta riuscì a dirle che lei pensava che le sue parole le avrebbero scombussolato e rovinato i pensieri, la piccola esclamò “E’ così, è così! Quindi stai zitto!”

Situazioni del genere, in versione adulta, possono richiamare angosce esistenziali nell’analista, perché l’identificazione empatica con il paziente sembra incompatibile con la sua visione clinica oggettiva della situazione e con ciò che ritiene essere necessario. Quindi si sente distante dalle teorie che lo uniscono ai suoi colleghi e che gli attribuiscono la sua identità professionale. Si manifesta anche come una difficoltà per l’analista nell’utilizzare la sua esperienza generale o le sue idee generali, poiché ciò sembra intrudere nella singolarità dell’incontro con il paziente e la particolarità della psicologia dello stesso. La particolarità sembra fare a pugni con la generalità, proprio come la soggettività con l’oggettività. Nei termini delle figure del triangolo edipico, mentre l’analista è in grado di seguire e valorizzare i pensieri emergenti del paziente, egli è identificato con un oggetto materno comprensivo. Quando vengono inseriti pensieri propri, derivati dalla propria esperienza generale e dalle teorie analitiche, viene identificato con un padre che intrude nel sé più intimo del paziente oppure che tira fuori il paziente dal suo contesto psichico soggettivo per portarlo dentro un contesto proprio.

Così abbiamo una situazione edipica dotata di organizzazione difensiva, con la fantasia di un oggetto materno totalmente empatico e passivamente comprensivo e una figura paterna aggressiva, l’oggettività personificata che cerca di imporre il senso. Mentre questa organizzazione difensiva del triangolo edipico viene mantenuta, essa garantisce che la re-integrazione tra l’oggetto comprensivo e l’oggetto che non comprende non si verificherà mai, poiché si concluderebbe, o così si ritiene, nell’annientamento della comprensione.

In questa modalità iper-soggettiva, il transfert positivo esprime la propria energia non per penetrazione ma per estrapolazione, la sua intensità si esprime per estensione. Include l’oggetto e investe tutto ciò che copre, con un valore accresciuto. La persona fisica dell’analista e, per estensione, i dettagli contestuali dell’analisi rivestono una grande importanza, come ad esempio le inezie delle sedute, la stanza e ciò che contiene e così via. Alle volte i pazienti recuperano e tengono ciò che rimane dell’analisi, come le fatture, i fazzolettini di carta, ecc. che svolgono una funzione simile a quella delle reliquie religiose. Il transfert negativo viene equiparato a un terzo oggetto penetrante, mentre il sentirsi compresi viene attribuito all’oggetto primario. In gioco ci sono sia il transfert positivo sia negativo: uno ricercato e ardentemente desiderato, l’altro temuto ed evitato. Il transfert desiderato è superficiale e avvolgente. La modalità epistemologica che lo caratterizza è l’empatia, l’espressione fisica il tatto e le qualità emotive sono erotiche o estetiche. Ciò che è maggiormente temuto è la congiunzione del transfert inclusivo con il transfert penetrante, ciò vale a dire, della soggettività con l’oggettività.

 

L’errata comprensione maligna (8) e il bisogno di accordo

Nel capitolo 4 di Credenza e immaginazione ho cercato di esplorare la catastrofe mentale che si prevede deriverà dall’integrazione di due diversi punti di vista. Dal transfert sembra che la paura di base riguardi un’errata comprensione maligna. Intendo l’esperienza di essere travisati in maniera così fondamentale e potente che la propria esperienza di sé ne sarebbe eliminata e con questa ne risulterebbe annientata la possibilità che il sé stabilisca il significato. Ritengo si tratti del timore di un ritorno al caos primordiale che corrisponde alla nozione di Bion del terrore senza nome che egli ipotizza derivi da una mancanza di contenimento. Bion fornisce due resoconti della produzione del terrore senza nome a partire da una mancanza di contenimento materno nella primissima infanzia (1959, 1962b). In entrambi i resoconti l’incompreso diventa l’incomprensibile. Si potrebbe dire che vi è il terrore del senza nome di tutto. Se nella primissima infanzia questa mancanza di comprensione viene vissuta come un attacco, piuttosto che un’inadeguatezza, si giunge a credere che esista una forza che distrugge la comprensione ed elimina il significato. Si vede tutto ciò ripetuto nel transfert quando la non-capacità dell’analista di comprendere il paziente viene vissuta dal paziente non semplicemente come una mancanza da parte dell’analista ma come un attacco all’integrità psichica del paziente.

Quando vi è il desiderio di comprensione sommato al terrore del travisamento, si presenta un bisogno insistente e disperato di trovare l’accordo nell’analisi e l’annientamento del disaccordo. Sono giunto a credere che vi sia una regola generale derivante dall’angoscia della comprensione errata che si applica a tutte le analisi: il bisogno di accordo è inversamente proporzionale all’attesa di comprensione. Quando l’attesa di comprensione è alta la differenza d’opinione è tollerabile, quando l’attesa della comprensione è abbastanza alta la differenza è abbastanza tollerabile, quando non vi è attesa di comprensione il bisogno di accordo è assoluto.

Ho posto la seguente questione: “esiste qualcosa nel temperamento di alcuni individui che li predispone a questo particolare sviluppo o reazione al trauma? Esiste qualcosa nel bagaglio dell’individuo che potrebbe spingerlo a credere che un oggetto, vivo di esistenza indipendente, lo traviserà in maniera distruttiva? Esiste un fattore innato nel bambino piccolo che aumenta il rischio di un fallimento del contenimento materno e se così è, di cosa potrebbe trattarsi?”. La mia risposta consiste nell’ipotesi che ci sia stata un’allergia ai prodotti di altre menti, analoga al sistema immunitario del corpo, una sorta di atopia psichica. Il sistema immunitario è centrale per il nostro funzionamento fisiologico, c’è in gioco la nostra stessa integrità fisiologica; non possiamo sopravvivere senza e tuttavia spesso è l’origine di patologie. Vale lo stesso concetto per il nostro funzionamento psichico? Di certo pare esserlo nel nostro funzionamento sociale, dove l’annientamento dell’estraneo percepito è un luogo comune. Il riconoscimento e la reazione del non me o non come me potrebbe svolgere una funzione psichica simile così come accade nel somatico. E proprio come il sistema immunitario alle volte si avvicina a un disturbo fisiologico tra madre e bambino, come nel problema di incompatibilità del fattore RH (Rhesus), forse potrebbero esserci delle reazioni immunitarie psichiche disturbanti. Si tratta di allergie psichiche e alle volte si presenta un’auto-immunità psichica?

Nell’ambito delle idee e della comprensione sembriamo comportarci come se avessimo un sistema immunitario psichico. Temiamo per l’integrità dei nostri sistemi di credenze esistenti e ogni qual volta ci imbattiamo in materiale psichico estraneo viene stimolato un impulso xenocida. L’analisi, producendo uno spazio mentale condiviso, rende palesi questi difficoltà e di conseguenza fornisce l’opportunità di esplorarle.

 

Note

(1) Traduzione mia (N.d.T.)

(2) Traduzione mia (N.d.T.)

(3) Traduzione mia (N.d.T.)

(4) Zona a nord-ovest di Londra sede di numerosi studi e centri di psicoanalisi e psicoterapia.

(5) “Andate via, tediose preoccupazioni”, tradizionale ballata inglese.

(6) Traduzione mia (N.d.T)

(7) Brano tra parentesi quadre ripetuto due volte nel testo originale (N.d.T.)

(8) “Malignant misunderstanding” nel testo in inglese (N.d.T.)

 

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Wordsworth W. (   )

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