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Calamandrei S. (2017). La creatività emotivo-simbolica.

Testo della relazione presentata al seminario “Creatività Regole Identità – Riflessioni Psicoanalitiche”, Firenze, Educatorio del Fuligno, 20 maggio 2017.

 

Le ricerche sulla prima infanzia indicano che il Sé neonatale e la madre sono strettamente intrecciati in una reciproca inter-corporeità. Noi e gli altri condividiamo la stessa natura e i nostri sistemi motori sono organizzati in maniera simile per raggiungere gli stessi scopi intenzionali: l’inter-corporeità neonatale ci dona, per tutta la vita, un accesso privilegiato al mondo dell’altro. Secondo Schore tale diade è sintonizzata bio-psicologicamente, in un contesto di risonanza emotiva, dove la manifestazione comportamentale dello stato interno di ciascun partner è monitorata dall’altro, con un reciproco scambio di feedback affettivi e un’amplificazione dello stato positivo di entrambi. Questo sistema di comunicazione emotiva favorisce l’espressione esterna degli stati affettivi dei bambini. Il care-giver regola i propri livelli di attivazione per promuovere la sincronia dell’intero organismo del neonato, regolazione che viene integrata dai sistemi oppiacei, quindi dal principio di piacere. Il modello psicoanalitico è sempre stato basato sulla relazione, una relazione che è scambio emotivo e terapia. Freud, teorizzando ciò, ha, fin da subito, ipotizzato che la soggettività fosse prevalentemente interpersonale. Tale prospettiva si è evoluta fino alle teorie di autori come Winnicott e Kohut, che hanno esplicitato la contraddizione paradossale fra soggettività, cioè il narcisismo, e intersoggettività, cioè il rapporto con l’altro, superando la dimensione pulsionale concepita come troppo strettamente biologica. La relazionalità si costituisce attraverso lo scambio affettivo, forma il transfert emotivo e sappiamo che può svilupparsi in modalità complicate e difensive. Il legame affettivo fa parte della funzione di “holding” dell’ambiente umano e comunica informazione vitale senza che sia necessario renderne espliciti i contenuti, precedendo l’acquisizione del linguaggio. Come già aveva individuato Anna Freud, il bambino e la madre sono strettamente sintonizzati sui reciproci affetti, che sono la fonte primaria di informazione riguardo al mondo interno della madre, al suo stato affettivo, ma anche rispetto al mondo reale e ai suoi pericoli. Per tutta la vita persisterà questa primitiva comunicazione preverbale che forma il substrato biologico dell’empatia: il bambino percepisce gli affetti della madre ma anche la percezione che la madre ha degli affetti del bambino. Questo momento di scambio troverà, nell’intreccio emotivo, anche attimi di sosta su qualcosa di comune, una condivisione contemplata, che distacca un terzo elemento rispetto alla coppia diadica. Una delle emozioni del bambino viene evidenziata dalla madre, così che questo stato emotivo si distanzia dai due, diviene un “oggetto” che insieme percepiscono come a sè stante, lo contemplano: tale movimento costituirà l’elemento fondamentale che innesca la funzione simbolica. Il processo analitico è soprattutto una ripetizione di questo primissimo processo di condivisione e distanziamento: cioè far divenire “oggetti” intrapsichici i contenuti mentali.

 

Il simbolismo in psicoanalisi

La teorizzazione psicoanalitica sul simbolismo è costituita da una serie di ipotesi che insistono lungo il percorso tracciato da Freud, in una produzione relativamente poco approfondita. Nella maggior parte dei trattati di psicoanalisi non si trovano indicazioni sul meccanismo di formazione del simbolismo e del processo secondario. La ragione per cui i primi analisti, che pure hanno scritto molto sui simboli, non hanno teorizzato adeguatamente la funzione simbolica è probabilmente dovuta alla convinzione culturale dell’epoca, influenzata dalle teorie di Lamark, che questa fosse generata da meccanismi ereditari. Per Freud la maggior parte degli elementi simbolici convenzionali, come il linguaggio o il simbolo matematico, erano prodotti dalla sublimazione; infatti ipotizzava che l’energia psichica della pulsione parziale, una volta che ne veniva impedito il soddisfacimento fisico diretto, poteva essere incanalata dalle proibizioni sociali e super-egoiche alla produzione dei simboli, con un’azione non ben specificata. La carenza teorica che accompagna la nascita del pensiero simbolico potrebbe considerarsi quasi paradossale, considerando il fatto che quasi tutto quello che accade in seduta viene considerato “simbolico”, sia perché riferito al transfert o alla produzione onirica, sia perché viene stimolata la promozione del simbolo per eccellenza, la “parola”.

Giustamente Aulagnier sostiene che “…il termine “simbolico” …definisce contemporaneamente la funzione del linguaggio, una proprietà particolare del segno che specifica un rapporto enigmatico con il significante fallico, il nome del padre come organizzatore del sistema di parentela, l’accesso ad una legge, e molte altre cose…: a seconda delle esigenze della dimostrazione vengono privilegiati l’uno o l’altro significato. Il che prova la difficoltà reale che pone l’uso di quei concetti, ma rende ancora più illecito che li si trasformi in una sorta di passe-partout che finisce o con l’aprire solo porte spalancate o, al contrario, col chiudere a doppia mandata ogni serratura che osa resistere alla chiave analitica”. In realtà, Freud comprese l’importanza del simbolismo relativamente tardi, rispetto al concepimento dell’impianto teorico psicoanalitico ed infatti introdusse le sue riflessioni a riguardo in una fase tardiva. Queste lo portarono ad aggiungere un nuovo capitolo sul simbolismo nella “Interpretazione dei sogni” solamente nel 1914 e ad affrontare il tema nella lezione 10 della “Introduzione alla psicoanalisi”, ma non lo indussero a modificare la sua impostazione concettuale. Il suo approccio all’interpretazione dei simboli viene considerato da Petocz come “misto” e non coerente, poiché sostiene molte ipotesi differenti contemporaneamente. Freud, nonostante avesse individuato la continuità tra le formazioni simboliche inconsce e consce, non ha mai ritenuto che tale successione arrivasse fino al punto di costituire il “continuum” necessario al processo del pensiero. In particolar modo non è riuscito a comprendere che i simboli non-convenzionali dovessero, anch’essi, essere appresi perciò li ha considerati ereditati e quindi già presenti nell’inconscio. Tale convinzione veniva dedotta dal fatto che il simbolo onirico non sembrava evocare associazioni nel sognatore, era spesso “muto”: così la simbolizzazione rimase separata nell’inconscio e soprattutto non integrata agli altri meccanismi del lavoro del sogno come la condensazione, lo spostamento e la raffigurabilità. Il simbolo non-convenzionale, cioè la metafora cognitivo-esperienziale, andò a costituire un quarto tipo di relazione tra contenuto latente e manifesto, di cui il lavoro onirico può servirsi trovandolo già formato e pronto per essere usato. In verità, nei suoi primi scritti, Freud, sembra concepire la simbolizzazione come una sostituzione che si avvicina molto alla metafora corporea, quando interpreta letterariamente i modi di dire “nodo alla gola” o “non riesco a mandar giù”. Poi, maturando la sua concezione, individuerà nel simbolo principalmente la componente di una funzione difensiva che maschera qualcos’altro, pur mantenendo l’idea dell’esistenza di un simbolismo “a priori” nell’inconscio, poichè aveva osservato che la censura non sempre produce simboli.

Il simbolo diviene allora l’elemento finale del percorso Conflitto-Rimozione-Sostituzione per formazione di Compromesso, così da partecipare all’oscuramento del ricordo di un’idea inaccettabile con qualcosa che la coscienza può accettare. La concezione teorica tenderà ad individuare come simboli non-convenzionali solamente una parte di questi, definendoli “simboli propriamente psicoanalitici” solo quando uno dei termini dell’equazione è rimosso nell’inconscio. La formazione dei simboli viene spiegata attraverso la loro natura affettiva: siccome i bambini si preoccupano soltanto di soddisfare i loro istinti, ne consegue che si occupano soltanto di quelle parti del corpo nelle quali ha luogo un appagamento, cioè le parti del corpo sessualmente eccitabili, le zone erogene, quindi concentrano la loro attenzione in particolare sulla bocca, sull’ano e sugli organi genitali. Si perviene così alla “sessualizzazione dell’universo”: “In questo stadio i bambini amano chiamare con l’appellativo infantile del loro pene ogni oggetto oblungo, vedono in ogni cavità un ano, in ogni liquido orina”. Questa equiparazione non è ancora una rappresentazione simbolica, lo diviene quando in seguito all’educazione uno dei due termini del paragone, decisamente il più importante, viene rimosso e l’altro, precedentemente meno importante, acquista una “accentuazione di significato” affettiva e diventa un simbolo del rimosso.

Se in origine pene, albero o campanile venivano consapevolmente equiparati ”…è solo con la rimozione dell’interesse per il pene che l’albero e il campanile sono divenuti, apparentemente senza ragione, tanto più interessanti: sono diventati simboli fallici”. Quindi l’analogia fornisce soltanto l’occasione per l’individuazione di alcuni aspetti, ma la nascita degli autentici simboli, in senso psicoanalitico, è dovuta alla rimozione delle emozioni. Come Laplanche e Pontalis riassumono, Freud nello spiegare il simbolismo mette l’accento sul rapporto che unisce il simbolo a ciò che è da esso rappresentato “…e trae dalla particolarità delle immagini e dei sintomi una specie di <<lingua fondamentale>> universale, anche se concentra la sua attenzione più su ciò che essa dice che non sulla sua struttura”: il “vero simbolo psicoanalitico” si manifesta quando la sublimazione fallisce ed è un prodotto della sola rimozione. Tale concezione consegue all’interesse psicoanalitico per il simbolo che aveva valore patologico, quello della nevrosi, del lapsus o del sogno, quello che emergeva nella stanza d’analisi, dando per scontata, in quanto considerata innata, per eredità filogenetica, la naturale evoluzione e lo sviluppo di tutti gli altri.

Anche Jung, con il concetto di “archetipo”, e così pure Lacan, che teorizzava come il complesso edipico precedesse la nascita del soggetto, in fondo, concordano teoricamente con l’idea che l’ordine simbolico pre-esista all’uomo.

La teoria di Melanie Klein amplierà notevolmente lo studio del simbolismo, nel momento in cui integrerà la tecnica analitica, che era esclusivamente verbale, con la psicoanalisi dei bambini, attribuendo un significato simbolico al gioco infantile. L’azione fisica che avveniva nel gioco, non era solamente una scarica di energia psichica istintuale, ma aveva anche un contenuto, analogo a quello dei sogni. La fantasia acquisiva un senso e si avvicinò maggiormente al concetto di metafora, di pensiero simbolico elaborativo, piuttosto che di simbolo psicoanalitico in senso stretto e si estenderà ai simboli capaci di rappresentare gli stati emozionali, quelli che emergono dai conflitti tra amore e odio, tra distruttività e riparazione, tra istinto di vita e istinto di morte fino a comprendere le forme universali che gli artisti riescono a porre nei personaggi che creano. Questo nonostante che la Klein concepisse il simbolo come Freud, ovvero che si formava lungo una “…serie complementare a un cui capo vi è la formazione dei sintomi e la rimozione e all’altro la sublimazione riuscita“. Però, l’interpretazione del gioco infantile e della fantasia inconscia verranno utilizzate, nell’uso clinico, come interpretazioni metaforico-corporee, in modo analogo a quello dei primi scritti freudiani. L’uso di queste interpretazioni diverrà sempre più diffuso, come ad esempio, nel testo di J. Riviere “La fantasia inconscia di un mondo interno riflessa in esempi della letteratura”, che riprende le modalità usate da Freud nell’analizzare la “Gradiva” o il “caso Schreber”. Nella teoria kleiniana il bambino inizia a cercare simboli fin dai primissimi stadi di sviluppo, allo scopo di trovare sollievo alle sue esperienze dolorose e tale meccanismo è fondamentale per la costruzione sana dell’Io. Le angosce persecutorie vissute in fantasia nella relazione con gli oggetti primari, il corpo della madre, promuovono la ricerca di nuove relazioni, libere da conflitti, con oggetti sostitutivi: i simboli. La natura del processo di simbolizzazione però non viene pienamente affrontata e il simbolo rimane, sempre, il frutto di una strategia difensiva correlata all’attività della fantasia inconscia.

La teoria del simbolismo viene ulteriormente elaborata da Hanna Segal che individua nella capacità di spostamento degli affetti la radice del meccanismo di formazione del simbolo e supera la concezione freudiana, riconoscendo il continuo sviluppo del simbolismo durante la crescita, con un percorso che dagli elementi primitivi giunge fino ai simboli usati nel linguaggio. Per questa Autrice il tentativo di ridurre o inibire gli impulsi aggressivi e libidici, per il bambino, è il più forte stimolo alla creazione di simboli, necessari per poter spostare il proprio senso di aggressione verso l’oggetto originario e in tal modo ridurre il senso di colpa e la paura della perdita. Solo il raggiungimento della posizione depressiva, però, quando la madre e il suo corpo verranno vissuti come separati dall’Io, permetterà al simbolo, creato nel mondo interno come modalità di “…riparazione, ri-creazione, recupero e riconquista dell’oggetto originario”, di giungere alla definitiva maturazione. Per Freud la desessualizzazione dell’impulso istintuale era la pre-condizione di base della sublimazione, invece per la teoria kleiniana la formazione dei simboli nella posizione depressiva è dovuta prevalentemente all’inibizione degli impulsi istintuali diretti, prevalentemente aggressivi, nei confronti dell’oggetto, di modo che siano disponibili per la sublimazione. Solamente nei lavori più maturi la Klein riconoscerà che le parti scisse del sé e degli oggetti, proiettate all’esterno poiché fonte di angoscia e di dolore, posseggono “…elementi preziosi della personalità e della vita di fantasia e sono anche fonte di ispirazione nell’attività artistica e di numerose altre attività intellettuali”, ammettendo così l’esistenza di un legame tra i processi più precoci della mente e la produzione simbolica dell’adulto e pertanto che questa non era dovuta esclusivamente alla riparazione. Bion svilupperà questi concetti, mantenendone l’impostazione di fondo, considerando il simbolizzare espressione della trasformazione degli elementi beta in elementi alfa, grazie alla presenza di una capacità della mente definita funzione-alfa. Questa opererebbe sulle sensazioni e sulle emozioni dell’esperienza immediata, per produrre elementi alfa o ricordi che possono essere usati per nuovi processi di trasformazione o immagazzinati, sia come pensieri del sogno che come pensieri della veglia. Se la funzione alfa è disturbata, non può operare la trasformazione e questi fatti, gli elementi beta, rimangono “cose in sé”, inelaborate, che possono pertanto solo essere evacuate attraverso l’identificazione proiettiva o l’acting-out. Bion però non spiega come operi il meccanismo simbolico perché “…la funzione alfa è un’astrazione utilizzata dall’analista per descrivere una funzione, di cui non conosce la natura”.

La maggior parte delle teorizzazioni psicoanalitiche si fermano alla fine degli anni ’70 e non affrontano più il problema del simbolismo così che, in sintesi, rimane non teorizzato, generando alcuni problemi: ovvero quale importanza dare, nella dinamica psichica, all’inconscio non-rimosso e come spiegare la formazione dei simboli sia convenzionali che non-convenzionali. Temi che sono stati affrontati, ma solo parzialmente, dalla psicologia dell’Io e indirettamente dalle teorie kleiniane con il concetto di fantasia inconscia e l’interpretazione analitica del gioco. Forse, oggi, dobbiamo cominciare a modificare il nostro punto di vista se, come diceva Stefania Manfredi, ”…Il concetto di riparazione è strettamente collegato alla concezione kleiniana del sadismo infantile precoce e pare essere un po’ limitativo se non crediamo che il bambino così piccolo abbia una vita mentale così sofisticata, se non crediamo sia così sadico perché non crediamo nella pulsione di morte, se non crediamo nella teoria degli istinti, ma ci muoviamo in una teoria delle relazioni oggettuali piuttosto alla Fairbarn o alla Winnicott (1994, p. 146)”.

Più recentemente, Modell ha provato a coniugare le ipotesi teoriche psicoanalitiche con le acquisizioni neuro-scientifiche – che vedono la mente neonatale come una “tabula rasa” dove tutto deve essere appreso- e ipotizza che l’inconscio non-rimosso sia sede della metafora emotivo-esperienziale. Il pensiero metaforico assumerebbe la funzione fondamentale di interpretare la memoria inconscia delle sensazioni somatiche, proprio perché le memorie emotive formano categorie basate sulla similitudine metaforica. L’inconscio non-rimosso è, quindi, costituito da simboli non-convenzionali formati dall’immaginazione corporea, che genera innumerevoli proto-metafore che tendono, poi, a confluire ed a strutturarsi in metafore primarie che plasmano gli strumenti cognitivi fondamentali. Ad esempio, la metafora primaria costituita dal senso di verticalità scaturisce dalla sensazione del mantenere la postura eretta, una conquista ed un obiettivo piacevole della prima infanzia. Questa sensazione pervasiva diviene una metafora di base, uno strumento cognitivo che genera significato, da cui deriveranno una serie di acquisizioni di senso che, come i miti più antichi, possiamo definire universali. Le metafore si formano nell’interazione tra sensazione e motricità, grazie alla simulazione incarnata che forma una struttura cognitiva universale che dona coerenza alla nostra esperienza ed ai nostri vissuti. La metafora cognitiva espande, poi, le proprie capacità al di là dei limiti corporei per rendere più comprensibile il mondo esterno. La sensazione corporea dello stare in piedi sulle proprie gambe acquista un significato di senso, lo stare “su” diviene una metafora simbolica a cui la parola “su” rimanda continuamente, sia emotivamente che soprattutto cognitivamente. Stare “su” significa, nel linguaggio comune, in tutte le lingue, un aumento della quantità, delle qualità positive, delle cose buone, un aumento del tono dell’umore, improntato alla positività e così via. Per quanto riguarda il senso opposto, rimanere o stare “giù”, è facilmente intuibile come da questa sensazione corporea si possa sviluppare la metafora simbolica da cui derivano tutti i significati inversi. Il significato metaforico-cognitivo è una ripercussione di ciò che avviene nel nostro corpo che viene proiettato sul mondo esterno e costituisce le radici di tutte le metafore successive che sono sviluppate nella nostra cultura. Il significato delle metafore primarie è strutturale per il pensiero, ne forma le radici inconsce, i simboli non-convenzionali, da cui si sviluppano tutte le possibili associazioni e il pensiero cosciente non può ritrovarne le origini, il percorso di formazione, ripercorrendo a ritroso il cammino verso la loro fonte inconscia. Il problema è spiegare come tale sensazione metaforico-corporea, simbolo cognitivo non-convenzionale, si correla al simbolo verbale “su”.

 

I processi di pensiero e il linguaggio

La psicoanalisi freudiana si basa sulla definizione dei due processi di pensiero, il Processo Primario, inconscio, primitivo e infantile, e il Processo Secondario, preconscio, più adulto, civilizzato e caratterizzato dal linguaggio. Nel sistema inconscio esiste la memoria di una “cosa”, cioè la sua esperienza, denominata “rappresentazione di cosa” che: “…consiste nell’investimento, se non delle dirette immagini mnestiche della cosa, almeno delle tracce mnestiche più lontane che derivano da quelle immagini.” Laplanche e Pontalis osservano come in questa definizione la rappresentazione sia, già, distinta nettamente dalla traccia mnestica, il frutto di un’elaborazione, che in sè stessa non è altro che la trascrizione dell’evento e che la “cosa” è presente in diversi sistemi o complessi associativi a seconda dei suoi aspetti. La “rappresentazione di cosa” è la memoria di una “cosa”, esterna o interna al corpo, accaduta alla sensorialità percettiva, necessariamente inconscia, di cui quella mente si è appropriata, memorizzando l’intera esperienza in una percezione globale. Successivamente, secondo Freud, quando alla “rappresentazione di cosa” si aggiunge una denominazione, ovvero la “rappresentazione di parola”, abbiamo il passaggio al sistema preconscio-conscio: “Il sistema Preconscio nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con le relative rappresentazioni verbali. Abbiamo il diritto di supporre che siano tali sovrainvestimenti a determinare una più alta organizzazione psichica, e a rendere possibile la sostituzione del processo primario con il processo secondario che domina nel Preconscio”. La verbalizzazione, ha un ruolo decisivo nel determinare un cambiamento qualitativo nel processo di pensiero che, però, risulta essere molto più complesso del solo uso del linguaggio. Freud non chiarisce l’origine di questo processo di sovrainvestimento, nè quale sia la natura del legame che si stabilisce tra “cosa” e “parola” poichè non è sufficiente che la “rappresentazione di cosa” affianchi la “rappresentazione di parola”, perché il processo secondario evolva. Bisogna considerare che il linguaggio non è un patrimonio filogenetico e anche le parole derivano da tracce mnestiche, sono “rappresentazioni di cosa” uditive che divengono simbolo verbale. Quindi non si può sostenere che le rappresentazioni verbali costituiscano, di per sé, stati organizzativi di livello più elevato rispetto alla rappresentazione di cosa: non esiste un centro del linguaggio e si eredita solamente la predisposizione ad utilizzarlo. Il legame di “sovrainvestimento” è un processo che intensifica e modifica gli investimenti stabiliti inconsciamente per la sola “rappresentazione di cosa”. Tale atto produce un processo nuovo dove la rappresentazione che si crea, quella tra cosa e parola, differisce da entrambe perchè è un atto psichico organizzato in un modo più complesso, diviene “un’organizzazione mentale superiore”.

Loewald chiarisce che: “…se l’analista informa il paziente a parole dell’esistenza di una rappresentazione inconscia …il paziente avrà la rappresentazione psichica corrispondente alla rappresentazione di cosa. Ma il paziente non sarà in grado di fare un uso adeguato di queste informazioni a meno che le due rappresentazioni non vengano collegate tra loro nella sua mente dalla sua mente, attraverso un atto di sovrainvestimento che crea una nuova forma di rappresentazione mentale… potremmo dire che nel collegare le parole all’esperienza corrispondente, la vita psichica del paziente viene intensificata, arricchita, assurge ad una nuova dimensione”. Il processo secondario si edifica attraverso la costituzione di una nuova esperienza, la formazione di un nuovo atto psichico, poiché le due rappresentazioni, di cosa e verbale, nella loro interazione vengono sollevate dallo stato di atti riproduttivi separati e si fondono in un unico atto percettivo, con la caratteristica di freschezza e intensità di quest’ultimo: una percezione intra-psichica che accade fuori della consapevolezza. Quando questo passaggio non si realizza, secondo Freud, è la rimozione che ricusa alla rappresentazione respinta “…la traduzione in parole …La rappresentazione non espressa con parole, un lato psichico non sovrainvestito, restano allora nell’inconscio, rimosso”. Per Freud, però, le parole erano già presenti, simbolicamente mature, in quanto ereditate, quindi si immaginava un semplice congiungimento e non poteva concepire la necessità di un atto di apprendimento affettivo-cognitivo. Anche se, sicuramente, intuiva che il sovrainvestimento determinava un nuovo tipo di pensiero quando sosteneva che: “…il pensiero si sviluppa in sistemi che sono così lontani dai residui percettivi originari …da aver bisogno, per diventare coscienti di essere rafforzati da qualità nuove”. Freud rimanda la spiegazione allo scritto andato perduto sulla Coscienza, dove avrebbe affrontato il tema della genesi di questo nuovo pensiero, che non è semplicemente la comparsa del linguaggio e della verbalizzazione: poiché il preconscio e il processo secondario vengono formati dall’accompagnamento materno nel mondo simbolico e sociale.

 

Il sovrainvestimento come atto di percezione interna

“Cosa” e “parola” sono unite nella sensorialità ricordata, quando la rappresentazione verbale è solamente una percezione uditiva, un’esperienza, una “cosa”. Le parole udite dalla madre fanno parte delle esperienze percettive del neonato, che non può cogliere le singole parole nell’esperienza globale in cui si trova immerso. In questa prima fase le “parole” sono come tutte le altre “cose”, non sono entità percettivamente differenziate, fanno parte del processo primario, di tutto ciò che è percepito e registrato nelle tracce mnestiche. Il flusso delle parole della madre non serve, dal punto di vista del neonato, a simbolizzare cose poiché il suono, il tono della voce, il ritmo del discorso sono fusi all’interno di un evento globale di percezione e apprendimento, di scambio emotivo. La distinzione tra i suoni, come aspetti di un’esperienza totale e il loro significato, tra significante sonoro e significato concettuale, è il frutto di un’acquisizione che si realizza attraverso un lento sviluppo psichico. Il processo di sovrainvestimento comincia a determinarsi dai nessi che si instaurano durante la fase iniziale dello sviluppo narcisistico, nel lavoro di “cross-modal matching” e metaforizzazione corporea, ed è un processo di progressiva differenziazione degli elementi rispetto all’originaria unità sensoriale. La madre ha l’onere di effettuare un lavoro di discriminazione, differenziazione e al tempo stesso di significazione, così sovrainveste le rappresentazioni inducendo un atto psichico di percezione interiore. La madre promuove l’organizzazione preconscia, mentre effettua gli spostamenti da una modalità sensoriale all’altra, preservandone le caratteristiche vitali e mantenendo una corrispondenza (Matching) tra le diverse forme affettive. Essa condivide le sensazioni corporee e conferma la tipologia di forma emotivo-dinamica che viene vissuta dal neonato, ma non attraverso la stessa modalità sensoriale. Così se da un lato questi si sente indotto verso uno spostamento ed una correlazione, dall’altro comprende che la madre non si limita a imitarlo, ma che lo sostiene mentre egli sta auto-creando la propria forma interiore e la condivide.

La corrispondenza e l’induzione di legami riguardano, quindi, gli stati affettivi interni, le modalità del “vissuto”, non si limitano agli aspetti percettivi esteriori ed ai comportamenti manifesti. La sintonia corrisposta tende a stabilire, attraverso la corrispondenza affettiva, la compartecipazione delle forme dinamiche vitali ma esperite con differenti modalità psichiche. Questo particolare movimento emotivo che induce la differenziazione, l’auto-creazione della propria sensorialità e della significazione personale, avviene attraverso la creazione di una “terzietà” che anticipa la formazione del simbolismo. La terzietà è la base della cognizione sociale, perché non è rispecchiamento speculare, è sintonia, è far capire di aver capito e comunicarlo su un altro piano emotivo: è condividere qualcosa in comune, distanziandola dal proprio Sé e contemplandola insieme. Il linguaggio si sviluppa grazie alla crescente differenziazione tra Sé e mondo oggettuale quando una parte della “rappresentazione di cosa” uditiva, immersa nella situazione mnestica globale, viene staccata ed individuata per divenire lentamente qualcosa di astratto come un concetto, un simbolo verbale, pur mantenendo un legame, appunto simbolico, con la rappresentazione di cosa da cui era emersa. La condivisione materna insistita su quel particolare suono “terzo”, rispetto ai due della coppia, la capacità di condividerlo e contemplarlo insieme, distanziando qualcosa di sonoro ed evidenziandolo, crea il simbolo-parola, processo che si completa solo con l’adolescenza. Loewald nota come il sovrainvestimento materno sia, in realtà, un concetto organizzatore dell’attività mentale del bambino che non è così semplice da realizzarsi. Ogni “investimento” che viene effettuato dalla giovane mente non è solamente uno spostamento di energia, ma è un atto di organizzazione mentale che struttura la “rappresentazione di cosa” come un oggetto, crea un’entità differenziata e relativamente distante dall’agente organizzatore. L’investimento narcisistico che il soggetto effettua in un atto di percezione interna non è solo un investimento dell’Io, ma è un atto mentale in cui una “cosa” viene distaccata per via intra-psichica dallo stesso agente. La funzione simbolica si sviluppa fin dalla prima relazione madre-bambino, prima ancora che la madre possa essere sperimentata come un oggetto separato e quindi tutto ciò avviene prima che distruzione e riparazione possano avere significato. Lo scambio emotivo-identificativo porta all’incontro inter-corporeo tra identità, allo scambio di identificazioni incrociate e spontaneità che apportano una diversità arricchente che trasforma. Ogni bambino deve esperire processi che convertono un ordinario passaggio in qualcosa di più del vuoto di prima e che, poi, contengono una parte soggettiva del bambino e una parte di non-me che si integra e diviene significato: si auto-crea una porzione di identità nuova. L’interpretazione analitica opera in maniera analoga quando ristabilisce la necessaria differenziazione, in modo che sia possibile sviluppare un nuovo legame “oggettivante”.

Le parole dell’analista evocano la “rappresentazione di cosa” contenuta nella stessa parola, viene evidenziata un’emozione, viene contemplata insieme, condivisa, differenziata, distanziando le due rappresentazioni dall’unità indifferenziata fusionale in cui sono immerse. Così viene reso possibile un nuovo nesso tra i due elementi distinti e solo alla fine viene dato un nome, completando l’atto psichico di significazione che forma il processo secondario: in tale maniera la terapia psicoanalitica promuove, elettivamente, lo sviluppo della funzione simbolica del paziente. L’inizio del comprendere simbolico del neonato è il momento in cui evidenzia e contempla uno stato emotivo in comune con qualcun altro, ciò consente al bambino di effettuare una connessione, un “matching” evidenziante, attraverso il quale può cominciare ad accedere alla propria esperienza e a tenerla in mente. Tenere in mente è la funzione che apprende e ciò che la madre promuove, creare un “oggetto intrapsichico”, evidenziando un terzo contemplato con un atto percettivo interno, un meccanismo processuale che, come il lavoro del sogno, diviene una potenza creatrice e unificante dell’energia narcisistica, della sua tendenza a riunire le diverse forze in gioco. L’identificazione, allora, acquisisce il senso dell’appropriarsi soggettivo e del comprendere, della formazione del processo secondario, della via elaborativa che costituisce il preconscio, del meccanismo che forma i simboli. La condivisione e la conferma di ciò che il bambino esperisce, favorita dal care-giver, induce l’atto percettivo interiore di correlazione che produce significato, ma quello che viene appreso è anche lo strumento, la funzione elaborativa che porterà a costruire una propria modalità interiore di effettuare le corrispondenze significanti. L’identificazione consiste nell’apprendere il come fare, l’atto stesso, è impadronirsi del procedimento ovvero divenire creativi: cioè sapere che correlando due stimoli sensoriali “grezzi” questi diventano qualcosa di più, accedono ad un livello superiore di significato. Se, poi, questo “nuovo” significato viene anche partecipato da qualcuno all’esterno di noi diviene simbolico così ogni volta che siamo in presenza di qualcosa di condiviso, lo sentiamo bello e ci sentiamo vivi, pervasi da un senso di armonia tra la nostra natura e la nostra esperienza. Ogni forma di contatto interpersonale, ogni modalità di scambio di identificazioni ci dona piacere, evoca emozioni in noi, costruisce un ponte verso gli altri che ci ravviva, in quanto esperienza comune che ci impedisce l’isolamento e il cadere nelle esperienze soggettive private.

Il ritrovamento simbolico attiva l’identificazione che determina il senso di non sentirsi “soli”, poiché è ritrovare il terzo contemplato insieme, così recuperiamo l’intersoggettività e l’inter-corporeità, ritroviamo qualcosa di profondo che dona la sensazione di comunanza, che ci connette ad altri, torniamo a esperire l’emozione a comune, la sintonia identificativa, un tempo e uno spazio di vita condivisi. Tale prezioso momento per essere “vitale”, però, ci deve anche modificare, perché veniamo pervasi dalla spontaneità dell’altro e questo può portarci ad un “livello più alto”, dove integriamo una “diversità” che ci arricchisce e ci trasforma, senza che ce ne rendiamo conto, in qualcosa di meglio. L’identità creativa è il confronto in cui il nostro Sé si integra nello scambio delle identificazioni, si eleva nel livello di comprensione, grazie all’indistinzione dei limiti tra noi e gli altri, quando lasciamo che nell’incontro venga concessa un’occasione per l’attività creativa inconscia. Tale predisposizione promuove l’imprevisto che viene dall’inconscio, che potremmo riconoscere a posteriori come l’oggetto ricercato di cui si era in attesa, sebbene non l’avessimo nemmeno immaginato, che favorisce una trasformazione senza che ce ne accorgiamo, poichè per tollerarne l’alterità ne rimuoviamo le tracce. Questa integrazione identitaria sarà possibile se avremo una ingenua, ma certa, fiducia nella vita, non solo nei confronti dell’ambiente e degli altri, ma anche nella presenza di qualcosa di intelligente che agisce in noi, malgrado noi ed i nostri “gradini”, e che ha la capacità creativa ed arricchente di dare forma e senso a ciò che continuamente incontriamo negli scambi con l’esterno o l’interno di noi stessi.

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