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Ferro N. (2001). Cultura della reverie e cultura dell’evacuazione

Testo della relazione tenuta Sabato 24 Febbraio 2001 presso la Clinica di Neuropsichiatria Infantile di Firenze, che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autore

Lorenzo è un bambino che mangia, a 8 anni compiuti, solamente cibi liquidi o frullati. Non mangia nulla di solido. E’ estremamente inibito a scuola, non ha amici. Ha un’altra peculiare caratteristica, alla mamma chiede continuamente “perchè” su ogni cosa. La madre di Lorenzo ha avuto due lutti in rapida successione: quando il bimbo aveva 2 anni, le è morto il padre, quando Lorenzo aveva 1 anno, le è morto il marito. Da allora vive in una situazione depressiva intensa, pur avendo con fatica continuato il proprio lavoro di impiegata per necessità economiche.

Alla prima seduta Lorenzo fa un disegno che rappresenta, a suo dire, una casa isolata, tristissima, buia e desolata “forse – aggiunge – senza porte”. Rimane poi seduto, immobile, dà l’impressione di avere un freno a mano tirato, tanto è bloccato. Quando vede la scatola dei giochi sembra però animarsi, chiede se può davvero usare i personaggi e improvvisamente si scatena in un gioco in cui essi si picchiano l’un l’altro con grandissima violenza, il più terribile è un personaggio che chiama “il cane sbrana tutto”.

Dopo l’intervento “ma questo cane deve avere una terribile fame” prende due personaggi e fa loro e fa loro mimare un misto di lotta e di accoppiamento, dicendo che la donna “non deve togliere il reggiseno”. Fa poi un seguente disegno in cui compare un dinosauro, un uccello preistorico, un razzo e sotto un omino con una barchetta.

Da subito, credo sia chiaro il dramma di Lorenzo: una mamma depressa, è come una casa triste e buia, nella quale non c’è forse neppure la possibilità di entrare, di trovare la porta. Naturalmente, possiamo pensare da vari punti di vista al personaggi che si picchiano, ma tra tutti sceglierei la rappresentazione dello scontro tra i bisogni protoemozionali del bambino, (in altri termini le identificazioni proiettive di questi) che cozzano. Contro una mente chiusa, in cui la disponibilità è solo apparente, tale è la depressione, è come se le porte fossero dei trompe l’oeil disegnati. Cioè, se le “identificazioni proiettive” non trovano uno spazio di accoglienza e trasformazione e cozzano contro una Reverie negativa, tornano indietro ingigantite: rimangono allo stato di emozioni dinosauro,razzo. Basta trovare una mente che capisca e accolga, anche a un livello minimale, che la fame di rapporto venga mimata da quella lotta-accoppiamento, rapporto che deve esser “protetto” perchè l’altro potrebbe altrimenti esser sbranato.

Nel disegno compare anche rappresentato l’avvio di una funzione di contenimento trasformazione nell’omino che guida la barca. Trovare una mente aperta dà l’avvio alla possibilità di narrare la propria storia traumatica, e può trovare posto “il cane sbrana tutto” rispetto al quale, l’anoressia e l’inibizione erano difese inevitabili, non essendoci un’altra gestione possibile di tale mostro. I continui “perchè” erano naturalmente un tentativo di aprire, di render accessibile la mente della madre. La storia proseguirà attraverso combattimenti di tribù di indiani con squartamenti, ferocie di ogni genere sino all’arrivo di un “ambasciatore” che comincerà a dare le regole del gioco, che diventerà via via un campo di un violento campionato di rugby.

Vorrei adesso sviluppare qualche riflessione:
La mente umana ha bisogno della relazione con l’Altro per svilupparsi.
Bion descrive in maniera mirabile quell’accendersi iniziale della mente umana, vero big-bang del pensiero nell’incontro tra la proiezione di angosce primitive (elementi B) e una mente capace di accoglierle e trasformarle (reverie) e che “trasmette”, oltre al “prodotto lavorato” (le angosce bonificate: gli elementi B trasformati in elementi alfa) anche e, direi soprattutto, “il metodo per compiere tali trasformazioni” (la funzione alfa). In questa concettualizzazione, lo stesso Inconscio è qualche cosa che fa seguito alla relazione – con l’Altro – disponibile.

Una bambina in analisi mi ha fatto una volta un disegno che, prescindendo dal significato relazionale in quel momento, ho pensato come una straordinaria rappresentazione dei modello della formazione dell’Inconscio come oggi l’intendo. Vi è il cielo raffigurato da un insieme di fili contorti, aggrovigliati, che formano mulinelli policromi, il mare risulta costituito da linee colorate, che sembrano tessute con ordine e formano una specie di trama. Il tutto con una forte idea di movimento data da una barca posta al centro del disegno con tre persone sopra e che sembra, nel far da spola da un margine all’altro del foglio, tessere le turbolenze della parte superiore nei fili della parte inferiore… e più la barca fa la spola, più sembra espandersi il sotto, ma sempre di più c’è da tessere il sopra… e in altre parole, ciò che conta, sembra essere la capacità di tessitura degli occupanti il barchino… senza punto di arrivo… se non l’espansione del tessibile, del tessuto e della capacità di tessere, o, fuor di metafore, un’espansione del pensabile, del pensato e delle capacità di pensare proprio nella direzione della celebre affermazione di Bion secondo cui la psicoanalisi è quella sonda che espande il campo che indaga e, di conseguenza, più penetriamo nell’Inconscio, più aumenta il lavoro che ci aspetta: mi sembra di vedere rappresentato come la funzione che introiettata (frutto di relazione) consenta una continua trasformazione delle turbolenze protoemotive in pensiero e emozioni pensabili.

Il punto su cui vorrei riflettere, sono le qualità che la mente dell’Altro deve avere: capacità di accogliere, di lasciar soggiornare, di metabolizzare, di restituire il prodotto dell’elaborazione, e soprattutto di “passare il metodo”. Ciò avviene attraverso la insaturità della restituzione e il consentire di andare a bottega nella mente dell’Altro. La prima operazione è quella di formare un pittogramma visivo, opera assolutamente creativa, originale e artistica (l’elemento alfa) la seconda, il mettere in narrazione la sequenza di elementi alfa. Funzioni successive saranno la introiezione della tollerabilità della frustrazione, della capacità di lutto, del tempo, del limite. Tutto ciò passa attraverso il “mentale” che si attiva nella relazione con la madre e con il padre- la Reverie credo infatti che possa essere in eguale misura materna e patema. Il grosso problema “culturale” credo sia quale rispetto, quale spazio, quale tempo viene oggi riconosciuto a queste operazioni che hanno a che fare con lo sviluppo del mentale a partire dal “mentale disponibile dell’altro”.

Rispetto alle altre specie che hanno una serie di comportamenti istintuali, in massima parte programmati, noi come specie abbiamo un dramma, quello di avere una mente, una mente che si sviluppa attraverso un lungo allevamento. Se “il processo di sviluppo della mente fallisce”, allora abbiamo una serie di patologie che vanno dalle allucinazioni, alle malattie psicosomatiche, ai comportamenti caratteropatici e criminali, tutte vie di evacuazione e di scarico di angosce primitive non elaborate. Il mio punto di vista è dunque quello di considerare che non è la “mente” che governa gli istinti e che la specificità dell’uomo sia quindi di una razionalità che può governare il mondo delle pulsioni: ma esattamente il contrario il problema per l’uomo è avere la mente con le sue peculiarità. t l’esistenza di una mente che non ha potuto svilupparsi che crea le condotte antisociali, violente… la violenza non è nell’istinto… è una mente sofferente che disturba il comportamento armonicamente funzionante della bestia-uomo: l’uomo se non avesse la mente sarebbe un primate funzionante.

Il problema dell’uomo è la mente e la sua rudimentalità, e soprattutto il fatto che la mente, per svilupparsi adeguatamente, ha bisogno di anni di cura. Una mente disfunzionante porta alla violenza, alla distruttività come unico modo di evacuare elementi beta. Una mente funzionante è una mente che continuamente crea immagini (elementi alfa), dalle proto- emozioni e proto-sensazioni, che metabolizza e fa fattori di creatività di tutti gli apporti che riceve: crea pensiero onirico e da questo sogni e pensiero. Quando una mente non funziona in queste modalità assuntive-trasforrnative-creative, inverte il proprio funzionamento. Il culturale credo che abbia diversi momenti di impatto, c’è una micro-cultura relazione, micro- arnbientale, che costituisce la parte della “barchetta-funzione alfa e funzione edipica della mente” dei disegno 3 e da cui dipende lo sviluppo della capacità di pensiero di ogni “piccolo dell’uomo” nel suo ambiente.

Ma c’è anche una macrocultura sociale (nella quale vivono, in una sorta di osmosi, le microculture relazionali) rispetto la quale non possiamo dirci indifferenti. E’ una questione centrale quanto la macrocultura sociale dia riconoscimento al mentale, all’emotivo, alla centralità della relazione per lo sviluppo della mente, quale spazio e quale tempo consenta rispetto il poter render disponibili funzioni di Reverie, di fantasia, di sogno. Incombe sempre il rischio di una de-affettivizzazione, spesso in nome di una supposta scientificità oggettiva. E questo, se è macroscopico nel sociale, lo vedo anche come serio rischio per la psicoanalisi che dovrebbe invece valorizzare le “specificità” dell’animale uomo.

Già in Bion, in Apprendere dall’esperienza, vi è una sottolineatura (cap. XVI) che le tecniche usate da chi ha una visione scientifica hanno dato i loro risultati migliori quando si aveva a che fare con oggetti inanimati, naturalmente i tre legami di base che pongono in relazione x che vuoi conoscere e Y che vuol esser conosciuto XLY, XHY, XKY, “cessano di esistere man mano che si introducono apparecchiatura inanimate intese a sostituire l’elemento animato”. Ma c’è ancora un punto centrale descritto da Bion (1965) che le emozioni di cui è permeata la mente dell’altro sono fondamentali nel determinare lo sviluppo della mente e costituiscono il connettivo in cui si incastonano i contenuti mentali, e di conseguenza l’evoluzione verso K oppure -K. Laddove una reverie parzialmente funzionante mi sembra ben pittografata dal quadro di William Blake, in cui una madre accoglie una bambina, mentre aspetti più primitivi non trovano accoglienza e vengono proiettati via (dando luogo a scissioni del tipo Dr. Jekyll e Mr. Hyde) Una reverie del tutto inadeguata sarei portato a rappresentarla attraverso un altro dipinto di W. Blake, che rimanda ad aspetti mostruosi della mente che non trovano una reverie sufficiente, ma solo una funzione materna fragile e inadeguata. I guasti di una Reverie insufficiente potrei narrativamente proporli attraverso una lettura di quel fenomeno letterario-sociale che sono stati i tre libri di Thomas Harris, nei quali era sempre presente una violenta storia di serial killer, che in questo modo evacuavano in agiti una sofferenza incontenibile.

Nel primo libro “Il drago rosso”, la storia infantile di Francis Dolarhyde è stata tragica, abbandonato dalla madre, ha un grave difetto fisico al volto, per cui non osa specchiarsi. Un tentativo di tornare dalla madre e dalla nuova famiglia di lei fallisce miseramente, e dopo la morte della nonna inizia le sue stragi. Ciò sinchè non incontra una ragazza “cieca” che non rimane quindi inorridita dall’aspetto del suo viso, e che ha con lui una relazione affettuosa di piena accettazione. Ciò gli causa una sorta di scissione tra un aspetto, che in modo irrinunciabile vuole la vendetta “Drago Rosso” e lui stesso, che vuole salvare la ragazza e il tenero rapporto che si è messo in moto tra loro. Anche il secondo libro è centrato su un serial killer James Gumb che uccide delle donne di taglia grossa, lui stesso ha alle spalle una storia di abbandoni e traumi. Uccide perchè vuole confezionarsi un vestito di pelle umana femminile, che gli funga da “nuova pelle e identità”.

Uccide queste giovani donne per costruirsi – proprio come un sarto – questo involucro. Nei due romanzi, una figura presente è il dottor Lecter, uno psichiatra a sua volta serial killer, tenuto prigioniero in un carcere di massima sicurezza dentro una gabbia. L’agente Starline, dal secondo romanzo, è l’eroina che si lancia alla caccia dei killer aiutata dal dottor Lecter, che stabilisce con lei un rapporto quasi protettivo, come si vedrà nel terzo romanzo “Hannibal”, che è anche il nome del dottor Lecter, il quale diventa il protagonista principale del libro. In esso sono descritti i tentativi dell’agente Starling di “arrestare” Hannibal una volta che questi era fuggito dal carcere.

Ma soprattutto, al di là della vicenda del genere horror-poliziesco, viene narrata la vicenda infantile dei dottor Lecter: ha perduto una sorellina molto amata in tenera età, questa sorellina è stata vittima di atti di cannibalismo, è stata mangiata da un gruppo di banditi che affamati avevano fatto irruzione nella fattoria in cui vivevano e, non essendoci nulla da mangiare avevano divorato, oltre a uno striminzito daino, proprio la bambina, ciò in assenza di genitori capaci di difendere i bambini. Sembra che il trauma subito debba essere ripetuto in modo “attivo”: divenuto adulto, il dottor Lecter a sua volta diventa cannibale; vorrebbe invertire il corso del tempo e far rivivere la sorellina, vorrebbe un tempo non lineare; l’agente Starling sembra poter essere in parte un sostituto, in parte un possibile “deposito” della sorellina, se mai il tempo si invertisse e la sorellina tornasse a vivere… la scena cannibalica si ripete sino a una terribile situazione in cui un uomo ai suoi occhi colpevole – lui stesso che non aveva potuto salvare la sorellina – viene operato al cervello e partecipa, da sveglio al pasto del proprio cervello che viene tagliato a fettine, nei lobi frontali, cucinato e mangiato: come lui stesso si rode il cervello per la colpa. Mi domando se non si possa vedere cosa accade in assenza di “cibo per la mente”, in assenza di Reverie: le parti tenere, affettuose (la sorellina, la capacità di femminilità) vengono distrutte da parti violente che finiscono per cannibalizzare la mente stessa, ciò che viene poi fatto espiare agli altri e sono gli altri a diventare le vittime. Se ci fosse stato dei cibo, della Reverie la sorellina avrebbe potuto vivere, gli affetti e le emozioni, avere il loro posto e il dottor Lecter non essere vittima e carnefice divorato dalla colpa e angelo vendicatore al tempo stesso. I criminali della parte iniziale della storia, li possiamo pensare come gli elementi beta che non trovando Reverie e trasformazione (da parte di una funzione alfa) cannibalizzano la mente.

Così possiamo pensare al serial-killer del primo libro come alla necessità di evacuare le emozioni connesse al trauma in agiti a contenuti violenti in cerca di contenitore che risulta essere inadeguato, i cattivi oggetti persecutori gli impongono la vendetta, sinchè non trova la tenera ragazza, lì c’è la scissione tra parte psicotica e parte “capace di relazione”: Ciò che non è accolto e trasformato, genera follia e persecuzione, così come nel secondo libro c’è il tentativo di trovare e una pelle psichica, un contenitore capace di “prender dentro” (un femminile capace di dar posto a maschile e da ultimo viene fuori il personaggio più inquietante, vero “regista” di tutte queste storie, lo psichiatra pazzo, vero super io arcaico, che tutto divora con i sensi di colpa intollerabili sino a spingere aviazione disperata, lesiva, autolesiva. La sequenza dei tre libri mi sembra un mirabile mito moderno sull’assenza delle cure primarie e delle sue conseguenze: il killer, il tentativo di autocura (la pelle), la colpa persecutoria. Naturalmente, non siamo dei sociologi e l’ottica che ci interessa è riflettere su quel fenomeni di mini-killeraggio rappresentati dall’inversione del flusso normale dell’identificazione proiettiva (da bambino ad adulto, da paziente ad analista) e dalle Reverie negative, che sono proprio una uccisione delle possibilità di sviluppo della mente e della specie e che possono esser fatte anche da genitori non colpevoli, ma sofferenti o da analisti a loro volta non colpevoli ma “fanatici”.

BIBLIOGRAFIA
Bion W. (1 962), Apprendere dalla esperienza, Armando, Roma.
Bion W. (1965), Trasformazioni, Armando, Roma.
Ferro A. (1 992), La tecnica nella Psicoanalisi Infantile, Cortina, Milano.
Ferro A. (1996), Nella Stanza d’analisi, Cortina, Milano.
Ferro A. (1999), La Psicoawlisi come letteratura e terapia Cortina Milano.
Ferro A. (2000), Prima Altrove Chi, Borla, Roma.
Harris T. (1994), Drago Rosso, Arnoldo Mondadori, Milano.
Harris T. (1995), Il silenzio degli Innocenti, Arnoldo Mondadori, Milano.
Harris T, (1999), Hannibal, Arnoldo Mondadori, Milano.

Fred Busch

PARLARE CON GLI ESTRANEI(1)

Testo della relazione presentata al Centro Psicoanalitico di Firenze il 21 novembre 2001, che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autore. Traduzione a cura di Francesco Carnaroli e Sandra Filippini

(1) Alcune parti di questo scritto sono state presentate in Panels negli incontri dell’International Psychoanalytic Association, a Nizza, nel luglio 2001: “Scopi contrastanti nel transfert” (J. Gotfrind-Haber, Chair), e “Che cos’è il metodo psicoanalitico” (E.Laufer, Chair) e nell’incontro annuale dell’American Psychoanalytic Association a New York (A. Erreich, Chair): “La fantasia inconscia: il suo status scientifico e la sua utilità clinica”.

La storia di due estranei che si incontrano su un treno serve da introduzione per una componente del metodo psicoanalitico con cui e contro cui siamo alle prese da molti anni. Il punto focale di questo metodo consiste nel come aiutare il paziente a sentirsi libero di conoscere l’estraneo dentro di sè. Vengono elaborati, con l’uso di due esempi clinici, alcuni principi di questo metodo. Da un punto di vista teorico, il metodo è basato più sul modello strutturale che su quello topografico.

Siete su un treno da Vienna a Zurigo quando qualcuno prende posto nel vostro scompartimento. Questa persona vi sembra interessante, e vi fate un breve cenno del capo mentre egli si siede. Siete interessati a parlare con il vostro compagno di scompartimento, ma, rispettosi dello spazio individuale altrui, dite qualcosa che non obbliga nessuno dei due a proseguire la conversazioneper esempio sul tempo o sull’affollamento alla stazione. Poi valutate la risposta per capire se rappresenta l’inizio o la fine di una conversazione. Il vostro compagno ha fatto un rapido cenno di assenso e si è rapidamente girato a cercare il giornale? Oppure ha sorriso e ha fatto un’altra osservazione? Il suo sorriso era genuino oppure era il sorriso a fior di labbra proprio di una persona educata? Come si può vedere, quando interagiamo con uno estraneo valutiamo continuamente fino a che livello egli stia proteggendo il suo spazio personale.

Un modo di pensare la psicoanalisi è che ci siano, in ogni momento, molti estranei nella stanza. Il paziente è un estraneo per molte parti di lui. In un’analisi che procede bene il paziente continua a portare nuove parti di sè che sono sconosciute all’analista. Anche l’analista si trova a scoprire aspetti di sè stesso rispetto ai quali egli era in precedenza uno estraneo. Ho l’impressione che le tecniche che molti di noi usano presuppongano una eccessiva familiarità con gli estranei che non sono entrati nella stanza e che potrebbero non farlo mai completamente. Altrimenti detto: non credo che prestiamo abbastanza attenzione ai bisogni dei pazienti di proteggersi dagli estranei presenti dentro di loro. Nel corso dell’analisi la consapevolezza di questi estranei si associa a pericoli psichici estremi quali annichilazione, abbandono, perdita dell’oggetto d’amore, castrazione, etc. Quindi, diversamente da ciò che pensava Freud all’inizio, la consapevolezza di questi estranei è irta di pericoli piuttosto che liberatoria. Fu proprio questo insight che condusse Freud a sostituire la sua prima teoria dell’angoscia (per la quale l’angoscia è causata dalla libido il cui flusso è sbarrato) con la seconda teoria dell’angoscia (per cui l’angoscia è causata da una minaccia all’Io “Freud, 1925) e che costituì uno dei motivi principali per rivolgersi al modello strutturale.

Paniagua (2001) riassume concisamente due decadi di ricerca clinica e di sviluppo della tecnica analitica, soprattutto negli Stati Uniti, basati sul modello strutturale di Freud. Egli esprime l’opinione che le scoperte più tarde di Freud sul funzionamento mentale non siano mai state completamente integrate nelle nostre tecniche cliniche concernenti il trattamento degli estranei, sebbene quegli stessi metodi siano stati periodicamente descritti a partire dagli anni ’30. Nell’introdurre l’articolo di Paniagua l’editor suggerisce che questo nuovo approccio solleva interrogativi sui metodi usati dalla maggior parte degli analisti europei e sudamericani.

La domanda è: su quale base possiamo sostenere che il nostro lavoro psicoanalitico quotidiano riesca a cogliere dimostrabili fantasie inconsce che appartengono al paziente piuttosto che all’analista? Facciamo sufficienti verifiche nella nostra mente? Mostriamo al paziente l’evidenza, oppure lo persuadiamo con il nostro carisma, etc? (Tuckett, 2001)

La mia opinione è che noi affrontiamo meglio gli estranei sconosciuti e minacciosi del paziente se prendiamo in considerazione due aspetti dell’apparato mentale che vengono riconosciuti troppo raramente nella tecnica clinica. Essi sono l’Io cosciente(2) e inconscio, ed il ruolo che essi svolgono nel mantenere i pazienti estranei a se stessi. Usando la struttura dell’Io prenderò in considerazione alcuni concetti di base della tecnica psicoanalitica che mi hanno condotto a formarmi un’opinione del metodo psicoanalitico come basato sul parlare con estranei.

Uno estraneo chiamato cambiamento (cosa facciamo mentre aspettiamo di interpretare le fantasie inconsce)
Le fantasie inconsce hanno una posizione anomala se consideriamo la teoria e la tecnica del trattamento psicoanalitico. Dal momento che hanno una notevole influenza sulla vita delle persone, le fantasie inconsce sono “argomento della ricerca psicoanalitica” (Arlow, 1985, p.533) come dicono in molti. Tuttavia tale posizione può essere fuorviante in quanto le fantasie inconsce principali, che è utile per il paziente conoscere, rappresentano il risultato di un considerevole lavoro psicoanalitico al di là della diretta interpretazione di tali fantasie. E’ come costruire una strada, si chiami pure “via regia”, e confondere il prodotto finale con il processo di costruzione. Rispetto a ciò che i pazienti hanno bisogno di conoscere, il come noi li aiutiamo a conoscere è altrettanto importante del cosa. E’ questo punto che è al centro di una tecnica basata sul “parlare a estranei”.

ANN
Ann è una donna d’affari nubile di 34 anni in analisi a 5 sedute la settimana. Venne in trattamento depressa e arrabbiata dopo che aveva scoperto che il suo ultimo fidanzato aveva un’altra relazione mentre stava ancora insieme a lei. Tutti i suoi rapporti davano l’impressione di una guerriglia. All’inizio non era chiaro perchè Ann fosse venuta in trattamento, dal momento che presentava i suoi problemi come dovuti principalmente a motivi esterni. Ann aveva avuto un certo numero di rapporti di lunga durata, ciascuno finito con reciproci sospetti e trame distruttive. Ciò che destava l’interesse di Ann, e mi convinse a suggerire un’analisi, era la sua esplorazione (seppure soltanto abbozzata) di quei suoi sentimenti di inadeguatezza, deprivazione e rabbia che duravano da sempre.

Durante l’analisi apprendemmo che Ann non aveva mai avuto un orgasmo se non attraverso masturbazione. Si era masturbata a partire da un’età molto precoce, e credeva che un uomo non avrebbe potuto soddisfarla meglio di come poteva fare da sola. Aveva un forte convincimento che la distanza tra il clitoride e l’apertura vaginale fosse così ampia che non avrebbe potuto avvertire la stimolazione clitoridea nella penetrazione da parte di un uomo. Tuttavia Ann non aveva mai cercato di verificare se ciò fosse vero e aveva evitato controlli ginecologici. Quando Ann finalmente osò farsi esaminare da un ginecologo le sue impressioni risultarono erronee.

L’analisi era piena di accuse e di sentimenti di deprivazione. Questi erano stati compresi in parte come ripetizione di fantasie inconsce riguardanti il Sè, oggetti-Sè, e relazioni oggettuali, specialmente una sensazione molto antica della freddezza materna e una relazione stimolante in senso sadomasochistico con il padre. Nel terzo anno di analisi incontrò un uomo (Gary) con cui sembrava avere una relazione interessante e piacevole e una vita sessuale in cui ella era più selvaggia e attiva di quanto fosse mai stata. Era ancora incapace di avere un orgasmo in un rapporto sessuale. In analisi rimaneva, per la maggior parte, pungente, sebbene ci fossero sempre di più momenti in cui potevo sentirne il calore, lo humor, l’intelligenza e un’attrazione erotica nei miei confronti.

Nei giorni precedenti la seduta che presenterò, Ann era in uno stato di panico inusuale in questo periodo del trattamento. Aveva dei problemi con un computer acquistato da poco. Le era stato detto dall’azienda produttrice che si trattava di un problema del modem, e che lo riportasse indietro per avere una riparazione gratuita o un nuovo computer. Ann interpretava il suo panico nel modo seguente. Gary aveva installato nuovi programmi nel computer, e ciò sarebbe risultato evidente quando ella lo avesse riportato al negozio. Era convinta che questo fatto avrebbe reso nulla la garanzia. Ann era arrabbiata con Gary in quanto sentiva che lui aveva introdotto qualcosa che lei non voleva e di cui non sapeva cosa fare. E Ann immaginava che all’azienda produttrice si sarebbero altrettanto arrabbiati contro chiunque avesse osato mettere programmi non autorizzati nei suoi computer. Per un certo numero di sedute tutto ciò venne presentato come se si trattasse non di pensieri e di immaginazione, ma piuttosto della realtà.

Come uno estraneo sul treno, Ann ansiosamente mi parla di questo seccante estraneo (il nuovo programma che le ha dato il panico), vedendone la causa come esterna. Non chiede aiuto e ha raccontato nello stesso modo le sue storie molte volte in passato. Considerare il panico come realisticamente basato sembra importante per lei per tener duro. Cominciamo a sospettare che lo scopo del raccontare questa storia sia il racconto stesso. Mentre evidentemente la storia riguarda il programma non voluto del nostro compagno di treno, il fatto stesso di raccontare sembra alleviare altri sentimenti. Sedendo di fronte a una persona di questo tipo durante un viaggio in treno sentiamo che ci viene chiesto di assumere un ruolo empatico, con un’insita richiesta di accettare il panico come realistico.

Come analisti siamo messi a confronto con il problema di come lavorare con qualcuno che è nel panico, che non sembra volere il nostro aiuto eccetto che in modi attentamente delineati. La comprensione stessa sembra portare ad un aumento del panico. Il lavoro analitico con una paziente come Ann, in una tale situazione, comincia con l’aiutarla a vedere quanto ella si senta minacciata dal conoscere più profondamente la propria storia.

Vignetta clinica(3)
Ann: Finalmente sono riuscita ad andare al negozio di computer, e mi hanno dato un computer nuovo. Non hanno fatto domande. Il commesso mi ha detto che l’azienda produttrice sta avendo problemi con questo modello, ma solo qualche esemplare risulta difettoso. Ero così sollevata. Mi rendo conto di quanto mi spavento quando immagino qualcosa. E’ davvero terribile. Questo dimostra fino a che punto io non voglia essere irritata da un uomo. Infatti ho fatto molta fatica a ricordare quello che lei ha detto ieri. Mi ha permesso di andare nel negozio, ma ho perduto il resto. Mi sento irritata. Perchè non posso semplicemente usare gli uomini, invece di trovarli così irritanti?

(Poi Ann prosegue con una lunga spiegazione su ciò che intende con il verbo “usare” nel suo senso migliore).

FB: Sembra che lei noti che la parola “usare” potrebbe essere intesa non nel senso migliore, e allora si mette a rettificarla, come se avesse paura di riconoscere il pensiero di volere “semplicemente usare gli uomini”.

“Poichè noi abbiamo la migliore opportunità di aiutare i pazienti ad osservare i conflitti quando questi ultimi accadono nell’attimo analitico (per es. “Perchè non posso usare gli uomini?” —- Disagio —- “Usare nel suo senso migliore”), questo è il momento ideale per esplorare questo conflitto in azione. Esso è concreto e osservabile per entrambi noi. C’è stata la tendenza a trascurare il fatto che il pensiero dei pazienti nel mezzo del conflitto è spesso di tipo preoperatorio (Piaget, 1927), e perciò concreto e limitato all’osservabile.

Il mio scopo iniziale è quello di vedere se Ann può riconoscere il conflitto, di vedere se lei è in grado di osservare se stessa con questo estraneo, senza tornare immediatamente a farsi irretire dal conflitto (per es., trovando il mio commento irritante). In questo momento il significato del contenuto sta sullo sfondo rispetto al significato del processo. C’è poco spazio per il significato se il paziente ha fortemente bisogno di credere che quello che sta facendo non ha significato, e perciò sperimenta che il problema è costituito non dal sintomo, ma dall’interpretazione del significato da parte dell’analista.

L’affetto del paziente diviene comprensibile soltanto nel contesto del desiderio da cui egli si difende. Così il punto da cui cominciare è costituito dalla difficoltà di possedere il desiderio. Una volta che noi mettiamo in evidenza il conflitto, seguiamo le indicazioni che ci vengono dal paziente nel determinare quale aspetto, se ve n’è uno, è più vicino alla sua consapevolezza. Queste indicazioni ci sono offerte dalle successive associazioni, un risultato dei processi inconsci che transitano attraverso l’Io inconscio. Dobbiamo agire come un contenitore dei molti sentimenti del paziente per valutare di quali egli è pronto ad assumersi la responsabilità.

Che dire delle possibili implicazioni di transfert? Giacchè Ann si difende dalla consapevolezza della propria irritazione per non essere in grado di usare gli uomini, c’è poco margine per legare la sua irritazione a me. Prima di interpretare ed esplorare la sua irritazione nel transfert, bisogna lavorare con la sua resistenza ad accettare la propria irritazione e con le cause di tale resistenza. In generale, non è una buona idea bypassare le resistenze.

Ritornando brevemente alla situazione sul treno, è la differenza fra dire “Riguardo a quello che mi sta dicendo, lasci che le dica un significato completamente differente rispetto a quello che gli attribuisce lei, un significato che le sarà completamente estraneo”, e dire “Mi pare che lei fosse sul punto di farsi delle domande su ciò che mi sta raccontando, ma che esse siano poi state fagocitate dal suo impulso a raccontare la storia come se lei sapesse tutto riguardo ad essa, e non vi fossero estranei”.

Ann: Sì, questo è vero. Mi son trovata a pensare ad Arnie e Jessica (un vecchio fidanzato e la sua prima moglie). Ricordo che Jessica diceva che Arnie ed io usiamo gli altri. Io non pensavo che avesse ragione. (Ann poi prosegue parlando di tutti i sensi ènormalì in cui si potrebbe aver bisogno di usare un uomo, siccome gli uomini sono più grandi, più forti, ecc, per esempio tagliare alberi, aprire coperchi di barattolo, oppure, anticamente, andare a caccia per procacciarsi il cibo, e molti altri).

FB: Sembra che lei torni alla parola èusarè, nel senso migliore.

Dopo aver fatto un’associazione di conferma a Jessica, che accusava lei e Arnie di essere degli utilizzatori, Ann torna alla sua precedente posizione, la sua difficoltà a esplorare i suoi pensieri da èutilizzatricè (riluttanza ad affrontare questo estraneo). Insomma, si ritira rapidamente dal breve lampo di interesse che ha avuto nei confronti di questo estraneo (l’essere una utilizzatrice). Il mio intervento è focalizzato su quel momento in cui Ann assume un atteggiamento di resistenza nei confronti dei suoi sentimenti da utilizzatrice. Metto in evidenza qualcosa che è accaduto in quel momento, e implicitamente le chiedo: “C’è qualcosa a cui lei può pensare, riguardo a questo?”, lasciando che sia Ann a selezionare quale aspetto – se ve n’è uno – lei è in grado di esplorare.

Ann: Jessica aveva completamente frainteso. Lei pensava che io stessi usando Arnie per raggiungere un privilegio sociale, essendo lui un professore rispettato in una prestigiosa scuola di specializzazione post-laurea. Quello che lei non sapeva è che io sono cresciuta in posizioni privilegiate durante tutta la mia vita (si riferisce al fatto che suo padre è un importante avvocato), per cui non avevo affatto bisogno del privilegio che mi poteva venire da Arnie.
FB: Così l’idea che lei usi gli uomini doveva essere rettificata, perchè essa implicava che lei avrebbe potuto per una qualche ragione aver bisogno di un uomo, mentre invece lei sentiva di avere già tutto ciò di cui aveva bisogno.

Ann: Capisco ciò che intende dire.
FB: Come quei produttori di computers, che secondo lei si sarebbero potuti arrabbiare se qualcuno avesse pensato che le loro macchine hanno bisogno di qualcosa.

Ann: Hmm! Mi piacerebbe potermi rilassare, prima o poi. E non sentirmi come se dovessi fare tutto da sola. (Breve pausa). Non so cosa sta succedendo. Qualche volta quando lei mi parla io mi sento molto bene. Sto sentendo e vedendo qualcosa di cui non avevo idea. E’ incredibile quanto posso essere fuori di testa.

“Emerge la fantasia inconscia di possedere tutto, e di non avere per nulla bisogno di un uomo. Tale fantasia era un estraneo mantenuto come una realtà di fondo, con rabbia contro chiunque osasse mettere in discussione questa “realtà”. La rabbia, poi, era stata proiettata sui produttori del computer. Temi come questo erano emersi, ma la fantasia io non l’avrei potuta comprendere nel modo dettagliato in cui Ann è stata in grado di articolarla attraverso le sue associazioni. Ciò che ha reso possibile la sua elaborazione della fantasia inconscia è stato il mio tentativo di lavorare col suo tirarsi indietro dal significato, invece di fare ipotesi sul significato. Ciò che ha permesso ad Ann di affrontare questa fantasia inconscia (che aveva dovuto essere mantenuta estranea per proteggere la sua autostima) non è stato il lavoro di una singola seduta, ma anni di lavoro in questo modo. Ho espresso altrove l’importanza di questo modo di lavorare affinchè si sviluppi un processo autoanalitico (Busch, 1999, 2000).

Naturalmente, sono emersi altri “estranei”: il “voler semplicemente usare gli uomini”, il disagio nei confronti di questo pensiero, il fatto che Ann rimanesse un’estranea rispetto a parti di se stessa. Tutto questo giocava un ruolo nell’incapacità di Ann ad avere un orgasmo, perchè lei rimaneva un’estranea rispetto al suo sè sessuale femminile.

Un importante sviluppo avviene quando Ann diviene consapevole di quanto la sua fantasia inconscia costituisca un fardello per lei (“Un giorno vorrei non dover più fare tutto da sola”). Nella sua mente, lo sforzo impiegato nel vivere nella realtà la sua fantasia diviene, almeno temporaneamente, maggiore del dolore di esaminare la propria fantasia.

Verso la fine della seduta Ann esprime i suoi sentimenti con una apertura e con una mancanza di posa inusuali per lei, il che esprime mirabilmente la sua confusione. Che cosa succede quando un uomo le offre qualcosa che sembra così buono, ed è offerto gentilmente e dolcemente? E’ una sua conquista psicoanalitica il fatto che lei sia in grado di sperimentare i sentimenti, e di porre la domanda.

In contrasto, intendo presentare un esempio di lavoro clinico basato su quella che Paniagua (2001) ha chiamato “tecnica ispirata topograficamente” (p. 672). L’ho scelto perchè se da un lato suscita ammirazione l’acume clinico dell’analista, dall’altro il suo metodo di interpretazione dimostra il grado in cui vi sono differenze significative nel èparlare con gli estranei.

Mostrandosi di buon umore nel mezzo di una seduta che avviene nella settimana prima delle vacanze dell’analista (Bott-Spillius, 1994), la paziente accenna al fatto che è contenta di aver trovato una brava donna delle pulizie. “Io le dissi che la buona donna delle pulizie era forse un sostituto per la cattiva analista, che non l’avrebbe pulita durante la vacanza” (p.1123). La paziente poi descrisse come stesse riarredando il suo gabinetto (bagno) e descrisse dettagliattamente come avesse l’intenzione di comprare un sedile di mogano per il gabinetto.

Le dissi: “Il gabinetto qui non ha un sedile di mogano. Ma qui c’è una stanza in cui c’è molto mogano”.
“Oh” – lei disse – “Lei intende dire qui in questa stanza”, e si guardò attentamente attorno. “Sì” – disse – “Questa stanza è piena di mogano”.
Le dissi: “Quando lei sottolinea che il suo gabinetto deve essere fatto di mogano, è come se lei stesse spostando il mogano dalla stanza di consultazione nel gabinetto”.

“Oh” – disse. (Io mi sentii come se stessi spiegando punto per punto a una bambina interessata ma piuttosto perplessa. Lei era così inconsapevole di ciò che stava dicendo – mi domandai – o l’avevo affrontata troppo bruscamente? Fu una delle poche occasioni, fino a quel momento, in cui io fui consapevole di quella sua èsmemoratezzà di cui altre persone si erano lamentate.).
“E così” – proseguii – “lei sta mettendo la stanza di consultazione nel gabinetto, facendo scorrere via me e la sua analisi. Io sono la donna delle pulizie molto valutata, ma quando è l’ultima settimana delle nostre sedute, io vengo fatta scorrere via. Non sono io che sto per lasciarla: è lei che mi fa scorrere via” (pp.1123-1124).

In questo esempio, ogni affermazione della paziente è letta con riferimento alle sue implicazioni transferali simboliche, inconsce. Il problema maggiore è che l’analista fa queste interpretazioni come se questi potenziali simboli del transfert fossero equivalenti a riferimenti coscienti all’analista. Sembra esserci poca attenzione alla preparazione della paziente ad ascoltare e a capire l’interpretazione che l’analista dà del possibile significato simbolico di ciò che lei (la paziente) potrebbe stare dicendo del trattamento. L’abilità dell’analista a leggere i simboli viene confusa con l’abilità della paziente a comprenderli. E questo fatto crea i presupposti perchè la paziente sembri poi una bambina perplessa.

In breve, l’Io della paziente è stato bypassato nel processo interpretativo, in quanto:
1) viene trascurato il ruolo dell’Io della paziente nell’espressione attraverso atti simbolici, costituito in particolare dalla funzione di proteggere la paziente dal conoscere il significato dell’atto;
2) viene ignorato il ruolo dell’Io della paziente nell’integrare l’interpretazione dell’analista in un modo che non sia troppo minaccioso (cioè, senza far esplodere l’angoscia segnale).

Anche se l’analista è corretta riguardo al significato simbolico della “donna delle pulizie” e del “mogano”, la traduzione del significato di questi simboli in qualcosa che coinvolge profondamente il paziente costituisce tutta un’altra questione. Infine, l’analista interrompe il flusso delle associazioni della paziente, in tal modo negando la possibilità di vedere quali collegamenti l’Io della paziente potrebbe permettere con la donna delle pulizie e col mogano. Se si fosse permesso alle associazioni della paziente di continuare, esse forse avrebbero stabilito un collegamento che avrebbe permesso un accesso ai riferimenti simbolici.

Sfortunatamente, ci troviamo di fronte a un esempio dell’Io al lavoro dell’analista, piuttosto che dell’Io al lavoro del paziente. Non sto mettendo in discussione la lettura che la Bott-Spillius fa del transfert inconscio, ma piuttosto quale sia il modo migliore per portare questi significati alla paziente in un modo che sia significativo per lei. Colpisce il fatto che anche quando la Bott-Spillius percepisce che la paziente non sta capendo, continua a interpretare profondamente. L’analista non soltanto spinge questi estranei nella stanza della paziente, ma inoltre depriva la paziente della possibilità di ospitarli. Mentre l’analista interpreta il desiderio della paziente di farla scorrere via, lei stessa di fatto sembra scartare quella parte della mente della paziente responsabile nell’integrare e sintetizzare le interpretazioni.

Parlare con gli estranei e il ruolo dell’Io
Kernberg (2001) ha recentemente messo in evidenza il significativo risveglio dell’interesse per l’importanza dell’Io nella tecnica psicoanalitica fra gli psicoanalisti di lingua inglese, e cioè in particolare i Freudiani Contemporanei negli Stati Uniti(4) e i Kleiniani Contemporanei di Londra(5). Negli esempi clinici appena presentati, ho esposto alcuni principi coi quali un Freudiano Contemporaneo affronta il materiale clinico, e come il suo punto di vista possa essere ancora molto differente da quello kleiniano. Ho l’impressione che la tecnica clinica dei klieiniani sia rimasta indietro rispetto al loro apprezzamento dell’importanza di includere l’Io nel processo. In un Panel (Panel, 2001) con Betty Joseph (Joseph, 2001) ho avuto l’impressione che mentre il suo modo di parlare della tecnica clinica era simile al mio, il suo metodo di lavoro fosse ancora piuttosto differente. A questo punto vorrei mettere in evidenza alcuni puntelli teorici dell’approccio che sto sostenendo(6).

Io cosciente
Molti analisti concordano ancora con la massima di Freud secondo cui uno degli scopi principali del metodo psicoanalitico è che “dove era l’Es, deve subentrare l’Io” (1932, OSF, vol.11, p.190). Io credo che sia nell’applicazione di questo principio che l’accordo fra analisti viene a mancare. Credo, con Paniagua (2001), che questo disaccordo sia dovuto al fatto che noi non abbiamo mai pienamente integrato nella nostra tecnica il Modello Strutturale di Freud (1922) e la sua seconda teoria dell’angoscia (1925) (vedi anche Busch, 1992, 1993, 1995c).

Sostengo che quando Freud afferma che “dove era l’Es, deve subentrare l’Io”, egli si riferisca all’Io cosciente. Come potrebbe essere altrimenti dal momento che l’Io inconscio è caratterizzato dal pensiero del processo primario, come lo è l’Es? Se quindi Freud si fosse riferito all’Io inconscio, avremmo soltanto uno scambio fra un processo inconscio e un altro. Avrebbe avuto più senso, nel modello di Freud, affermare che dove c’era un processo inconscio, là vi sarà l’Io cosciente. Comunque, fino agli scritti recenti che hanno integrato il Modello Strutturale con la Tecnica, l’Io cosciente è stato un concetto sgradito nella psicoanalisi, specialmente per quanto riguarda la tecnica clinica.

Alcuni analisti non si sono allontanati dall’affermazione fatta da Anna Freud (1966) 35 anni fa: che “vi erano molti che temevano che l’esplicita introduzione nella psicoanalisi di una psicologia dell’Io mettesse in pericolo la sua caratterizzazione come psicologia del profondo, e cioè una disciplina che si occupa esclusivamente dell’attività delle pulsioni istintuali e del funzionamento della mente inconscia”(7).

E’ mia opinione che il concetto di Io cosciente sia centrale per capire il metodo psicoanalitico. Come ho indicato nel materiale clinico, si deve sempre cercare di essere consapevoli di ciò che è accessibile all’Io cosciente. La sua inclusione può potenzialmente assicurare che i nostri pazienti abbiano in analisi un’esperienza emotiva profondamente sentita, e un apprezzamento per il ruolo della loro stessa mente (fantasie, sentimenti, credenze) nella modalità delle loro sofferenze. Se si ignora l’Io cosciente, ciò può condurre a un approccio intellettualizzato alla psicoanalisi, e a un’analisi basata sul trasferimento di autorità. Una interpretazione profonda a un Io cosciente impreparato, se accettata dal paziente, lo è spesso passivamente e/o intellettualmente.

Nella mia ricerca sulla letteratura riguardante l’analisi delle resistenze inconsce (Busch,1992), risulta chiaro che questo elemento centrale del metodo psicoanalitico è raramente esplicito nella letteratura clinica o nelle discussioni cliniche. Sorprendentemente, molti di coloro che hanno sostenuto il Modello Strutturale trascurano le resistenze inconsce dell’Io, e l’esigenza che esse giungano ad essere rappresentate nell’Io cosciente (Busch, 1999; Gray, 1994). Come possono i pazienti essere coinvolti a un profondo livello emozionale, se vengono bypassati i sentimenti di minaccia e pericolo, che servono come barriere alle fantasie e ai sentimenti centrali? E’ principalmente attraverso l’analisi delle resistenze inconsce dell’Io attraverso la partecipazione dell’Io cosciente, che possono essere analizzate le minacce a un vero coinvolgimento con la vita interna. Sarò così audace da dire che ogni intervento ha bisogno di prendere in considerazione lo stato dell’Io cosciente. Molti eccellenti analisti fanno questo senza dichiararlo esplicitamente, sebbene per far avanzare la nostra tecnica io credo che ci sia bisogno di una tale esplicitazione. Sono d’accordo con la concisa affermazione di Gray (1982) che “i risultati terapeutici del trattamento analitico risulteranno duraturi nella misura in cui, durante l’analisi, le funzioni dell’Io del paziente, non bypassate, saranno state coinvolte in una co-partnership cosciente e progressivamente volontaria con l’analista” (p.624).

Io inconscio
Come evidenziato da Paniagua (2001), alcuni elementi chiave dell’evoluzione del pensiero di Freud verso una elaborazione del Modello Strutturale non sono mai stati pienamente integrati nella sua stessa visione della tecnica, e noi non abbiamo mai abbracciato questi concetti che secondo me hanno un profondo effetto sulla tecnica (Busch, 1992, 1993, 1995c). Mi riferisco in modo specifico alle resistenze inconsce dell’Io e alla seconda teoria freudiana dell’angoscia.
Freud ha riconosciuto l’esistenza delle resistenze cliniche fin dal 1895, e una delle sue affermazioni più incisive sulla loro importanza per la tecnica si trova nel suo scritto del 1910 sulla “Psicoanalisi èselvaggià”: “Se la conoscenza dell’inconscio fosse tanto importante per il paziente quanto ritiene chi è inesperto di psicoanalisi, basterebbe per la guarigione che l’ammalato ascoltasse delle lezioni o leggesse dei libri. Ma tali misure hanno sui sintomi della malattia nervosa la stessa influenza che la distribuzione di liste di vivande in tempo di carestia può avere sulla fame” (Freud, OSF, vol.6., p.329).

Comunque, fu a partire dal 1922 che Freud si rese conto che le più importanti resistenze sono resistenze inconsce messe in azione dall’Io inconscio, e questo fu un elemento chiave nel suo sviluppo della Teoria Strutturale. Questo audace spostamento nella teoria, che pose lo schema di riferimento per una revisione della tecnica (nel senso dell’elaborazione delle resistenze inconsce come parte necessaria del processo di cambiamento), non fu mai pienamente integrato nella visione della tecnica di Freud, ed è stato afferrato solo episodicamente nello sviluppo storico del pensiero psicoanalitico. Per qualche analista, sembra tuttora valido ciò che Anna Freud affermò nel 1936: “Durante l’evoluzione della psicoanalisi come scienza, vi è stato un periodo in cui lo studio teorico dell’Io individuale era del tutto impopolare. Per un insieme di ragioni molti analisti si erano fatti l’idea che il valore scientifico e terapeutico del trattamento analitico fosse direttamente proporzionale alla profondità degli strati psichici presi in esame. Ogni qualvolta l’interesse si trasferiva “dall’Es all’Io, si correva il rischio di essere accusati di apostasia nei confronti della psicoanalisi” (A. Freud, 1936, trad.it. p.13).

Un secondo sviluppo nel pensiero di Freud mai completamente integrato nella tecnica psicoanalitica fu l’evoluzione del suo pensiero sull’angoscia (Busch, 1992, 1993, 1995c). Nella sua prima teoria dell’angoscia, essa veniva considerata come il risultato di libido il cui flusso viene sbarrato. L’implicazione tecnica più immediata di questa teoria era che se la libido sbarrata causa l’angoscia, compito dell’analista è quello di abbattere la barriera cosicchè ciò che è dietro di essa possa venire fuori. In tale impostazione, la parte importante della tecnica consiste nel tirare fuori ciò che sta dietro la barriera, mentre viene considerata di secondaria importanza la questione di come il blocco venga eliminato. Inoltre, se si pensa alle fantasie inconsce rimosse come all’equivalente psichico della libido sbarrata, la tecnica viene primariamente adattata allo scopo di tirare fuori quelle fantasie. Freud non ha mai pienamente rinunciato a questo precetto, e i metodi moderni della tecnica hanno cominciato soltanto recentemente a deviare da questo modello tecnico.

La seconda teoria dell’angoscia di Freud (1925), pienamente elaborata in Inibizione, sintomo e angoscia, era che l’angoscia si determini a causa di una qualche minaccia all’Io, e che queste minacce siano sperimentate inconsciamente. Questo conduce a una visione molto differente di ciò che ha bisogno di essere analizzato. Prima di interpretare le fantasie inconsce l’analista deve dar conto delle resistenze inconsce dell’Io. La comprensione da parte dell’analista della fantasia inconscia del paziente, e l’aiutare il paziente a comprenderla, diventano due processi differenti. Si deve analizzare il senso di pericolo che viene avvertito dall’Io inconscio, prima di scoprire le fantasie inconsce che sottostanno al pericolo. La ragione di ciò è che prima che il paziente abbia compreso che vi è una minaccia (si ricordi che la maggior parte delle minacce sono inconsce) e qualcosa della natura della minaccia, la piena comprensione delle fantasie inconsce è facilmente compromessa.

Gli sforzi del paziente per comprendere ciò che è inconscio sono resi difficili se vengono lasciati intatti quei meccanismi che hanno avuto luogo per tenere pensieri e sentimenti fuori dalla consapevolezza. Che senso ha interpretare a un paziente la sua rabbia, a meno che non venga analizzata la paura di esserne a conoscenza e di possederla? Se noi pensiamo che i pazienti stanno respingendo qualcosa dalla loro coscienza, il nostro compito è semplicemente quello di portare alla loro consapevolezza ciò che è stato respinto? Da parte dell’Io, vi sono ottime ragioni per cui quel qualcosa è stato respinto, e il primo passo verso l’accettazione cosciente e la comprensione del senso di minaccia che porta a celare sentimenti o idee alla coscienza è costituito dalla comprensione di queste ragioni.

Alla fine della corsa
Consideriamo i cambiamenti che possono avere luogo in una psicoanalisi. Il paziente che si fa prendere da rabbie diventa consapevole degli intensi sentimenti di bisogno per i quali egli si sente inconsciamente colpevole. Perciò, ogni volta che egli comincia a sentirsi bisognoso, egli si infuria con la persona che lo ha fatto sentire in tal modo. L’analisi conduce a una maggiore accettazione nella coscienza della parte bisognosa di se stesso, portando dunque il paziente a sentirsi meno arrabbiato. Il paziente depresso, che si odia, diventa consapevole di come ha interiorizzato la sua rabbia contro gli altri, e con una maggiore accettazione nella coscienza della sua rabbia egli si sente meno depresso. Questi sono esempi tipici di ciò che è sempre stato il sine qua non del metodo psicoanalitico, e cioè l’aumentata tolleranza dei sentimenti e delle fantasie contro cui sono state erette le difese. Molto di ciò avviene attraverso l’analisi delle resistenze inconsce dell’Io, le quali di conseguenza si trasformano in rappresentazioni nell’Io cosciente. Perciò io credo che il nostro metodo psicoanalitico abbia bisogno di acquisire la piena cognizione dell’Io cosciente e dell’Io inconscio come strutture della mente. Inoltre, dobbiamo ricordare che durante lunghe fasi dell’analisi ciò contro cui agiscono le difese è costituito dai legami coscienti, e non dall’espressione del contenuto in associazioni inconsciamente determinate. Dobbiamo essere consapevoli del processo intrapsichico, oltre ad essere consapevoli dei significati che esso viene ad assumere nel trasfert.

Un modo di pensare al metodo psicoanalitico è che esso riguardi la libertà della mente, cioè la libertà di pensare e sentire. Per come io la penso, il conflitto non è mai cancellato, ma la sua intensità decresce in maniera significativa, ed i pazienti sono aiutati dal crescente accesso alle loro associazioni. Alla fine della corsa del nostro treno analitico il nostro compagno dovrebbe non avere più paura degli estranei nella sua mente. Quando le esigenze della vita portano all’inevitabile attivazione del conflitto, noi dovremmo avere aiutato il nostro compagno a non aver paura di incontrare vecchi e nuovi estranei. Noi facciamo questo al meglio se, fin dall’inizio del trattamento, riconosciamo e apprezziamo la complessità del non solo giungere a conoscere questi estranei, ma anche imparare come parlare con loro.

NOTE
Il termine “strangers” può essere tradotto sia con “sconosciuti” sia con “estranei”: si è scelto questo secondo termine per sottolineare una connotazione emotiva nel senso di “qualcosa di minaccioso”: qualcosa che non solo è sconosciuto, ma si tende ad evitare di conoscere, perchè provoca un senso di minaccia.
Includo l’Io preconscio come parte di quello cosciente. (V: Schmidt-Hellerau, 2001, per un’integrazione teorica del modello topografico e di quello strutturale).
I miei pensieri sulla seduta sono tra parentesi quadre. I riassunti di parti della seduta sono tra parentesi tonde.
In netto contrasto con la radicale affermazione di Blum (1998) secondo cui la “ego psychology” è ormai “sfumata in storia” (p.35) Schafer (1994) ha messo in evidenza questo riguardo ai kleiniani.

Nel mio precedente lavoro su questo argomento ho esplorato altri principi del metodo clinico oltre ai puntelli teorici di questi principi tecnici (Busch, 1992, 1993, 1994, 1995a,b,c, 1996,1997,1999,2000,2001). Di particolare importanza è stata l’esplorazione pioneristica di Gray dell’applicazione del Modello Strutturale alla tecnica clinica (Gray 1982, 1986, 1987, 1990, 1994, 2000). Per i molti altri contributi basati sul Modello Strutturale vedi Paniagua (2001). Dovrebbe essere anche incluso il lavoro di Adler e Bachant (1998).
L’Io inconscio è uno dei molti estranei nella stanza. E’ l’Io cosciente che deve riconoscere e accogliere, o almeno accettare, gli estranei nella stanza.

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