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Dreher A.U. (2004). Che cosa è la ricerca concettuale psicoanalitica?

Anna Ursula Dreher

Cos’è la ricerca concettuale psicoanalitica?

Traduzione del testo della relazione presentata presso il Centro Psicoanalitico di Firenze il 23 Aprile 2004, che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autrice.

 

Considerazioni introduttive

La ricerca concettuale è senza dubbio in voga. Ma se osservo tutto ciò che attualmente passa sotto tale termine, penso che ci siano alcuni fondamentali equivoci. Ed oggi, per questa ragione, vorrei prendere in considerazione il concetto di ‘ricerca concettuale’ e dire qualche cosa rispetto alla sua origine ed al suo sviluppo – ed inoltre parlare di come questo approccio di ricerca possa operare in cooperazione con altre attività di ricerca in ambito psicoanalitico.

Per fare ciò è indispensabile innanzitutto dare uno sguardo più da vicino all’argomento di ricerca, e cioè ai nostri concetti analitici, e discutere sul perché essi non siano così facili da cogliere – e sul perché, a mio parere, noi abbiamo in effetti bisogno di una ricerca che chiarifichi i concetti.

Nella psicoanalisi, ciò che noi cerchiamo di afferrare a livello teorico sono prevalentemente i fenomeni clinici. Parliamo con i nostri pazienti e riflettiamo su di loro. Peraltro, noi non parliamo semplicemente con, ma anche dei nostri pazienti – e delle nostre interazioni con loro – e pubblichiamo degli studi sui nostri casi. Il linguaggio ha dunque una doppia funzione: linguaggio normale nella cura a livello orale, ma anche linguaggio scientifico quando discutiamo dei nostri casi, o quando proponiamo le nostre idee ad un convegno, o quando presentiamo le scoperte fatte nelle nostre ricerche. In tutto ciò, noi ci serviamo normalmente di concetti come transfert e contro-transfert, trauma e processi inconsci, difese e resistenze, e molti altri ancora. E a volte oggigiorno saremmo già contenti di ciò, se tali concetti, di cui ci serviamo per comunicare i fenomeni che ci interessano, non provocassero fin troppi equivoci.

Le lamentele rispetto alla vaghezza semantica dei nostri concetti, a volte rispetto al loro uso incoerente ed occasionalmente relative al loro uso ‘tutto fa brodo’ (‘anything goes’), sono ormai leggenda. Eppure, l’uso arbitrario si estende oltre i concetti e riduce la loro precisione. Tali concetti hanno davvero lo stesso significato per tutti noi? E noi intendiamo dire la stessa cosa quando diciamo una cosa uguale? Nasce quindi la domanda se ci possa essere una maniera sistematica per poter cogliere, strutturare, discutere e valutare gli usi diversi e mutevoli dei nostri concetti.

 

Definizione di lavoro

Permettetemi di proporre, per iniziare, la seguente definizione di lavoro: la ricerca concettuale psicoanalitica è un modo per poter chiarire tali concetti. Come definizione di lavoro suggerirei la seguente: la ricerca concettuale si occupa dell’indagine sistematica e metodica dei significati impliciti ed espliciti dei concetti analitici e dei campi concettuali – nel loro uso clinico ed extra-clinico. Per esempio, noi siamo abituati a vedere certi fenomeni clinici, come i ‘patterns’ del transfert, come argomento di indagine scientifica. Ma la ricerca non si limita ad indagare simili fenomeni; essa può anche comprendere il linguaggio analitico di cui ci serviamo per cogliere tali fenomeni, e può indagare l’uso mutevole di un concetto – per esempio quello di transfert. La ricerca concettuale è, per così dire, solamente indirettamente concentrata sui fenomeni stessi, dato che si focalizza sul nostro linguaggio teorico, sui nostri concetti; e ha lo scopo di chiarire le regole di un uso corretto del concetto che risponda a requisiti clinici e scientifici.

A questo scopo è utile ripercorrere gli importanti punti di svolta nella storia di questi campi concettuali che stiamo considerando. Ma è ugualmente indispensabile investigare l’uso corrente. Qui si deve tenere presente la pressione per il cambiamento, dovuta sviluppi empirici – incluse le scoperte analitiche – e teoriche, tanto all’interno quanto all’esterno della psicoanalisi. Lo scopo di questi studi concettuali non è quello di scrivere una storia, ma descrivere e valutare un concetto in tutti i suoi aspetti aventi un significato rilevate. Questo potrebbe non solo aiutarci ad imparare dai vecchi errori, evitando così di ripeterli, ma anche a mantenere gli elementi validi che sono in un concetto.

Anche se non dovesse essere possibile standardizzare il nostro uso del concetto, è comunque importante trovare una comunicazione che chiarifichi quali siano i punti in comune e quali le differenze, precondizione per un dialogo costruttivo all’interno delle nostre diverse culture analitiche, cosí come con altre scienze. Un punto ancora: Non esiste niente che corrisponda alla ‘ricerca empirica’ o ad una ‘procedura unificata e standardizzata’, cosí come non esistono ‘la ricerca empirica’ o ‘l’esperimento’. La ricerca concettuale deve piuttosto essere intesa come un programma di ricerca: se c’è un interesse a ricercare, allora partiranno progetti per chiarire un concetto. Essi saranno strutturati individualmente, e l’applicazione dei metodi appropriati sarà il risultato di una discussione metodologica. La ricerca concettuale, perciò, si definisce non tanto dai suoi metodi, ma dai suoi soggetti, l’uso dei concetti, ed il suo scopo, chiarire i concetti (per una discussione dettagliata vedi Dreher 2000; 2002).

In qualche modo anche Freud delineò il quadro di questa riflessione sistematica concettuale, quando definí la psicoanalisi come la scienza basata sull’interpretazione empirica [Deutung der Empirie]. Egli affermò che questa scienza non avrebbe ‘invidiato alla congettura il suo privilegio di avere una base chiara, logicamente inattaccabile, ma si sarebbe invece accontentata di concetti basilari, nebulosi e scarsamente immaginabili, sperando di conoscerli piú chiaramente nel corso del suo sviluppo, o che è persino pronta a rimpiazzare con altri. Perché queste idee non sono le fondamenta della scienza, su cui si basa tutto il resto: le fondamenta sono costituite dalla sola osservazione. Esse non sono il fondo, ma la cima di tutta la struttura, e possono essere rimpiazzate ed eliminate senza danneggiarla’ (Freud, 1914, p. 77).

I nostri concetti analitici cambiano eccome; essi vivono esattamente come vivono in generale i giochi del linguaggio scientifico.

 

L’integrazione del ‘nuovo’ e lo ‘spazio di significato’ [meaning space] di un concetto.

Ogni scienza vivente ha il problema di integrare continuamente il ‘nuovo’ che sopraggiunge, dove il ‘nuovo’ si scontra sempre con i concetti esistenti. Il ‘nuovo’, nella psicoanalisi, s’incontra ogni giorno in varie forme- nel lavoro clinico, nella diagnostica classificata, o anche nella ricerca:

  • L’utilizzo di nuovo materiale, che il paziente porta al trattamento, è un momento determinante nell’attività clinica d’ogni giorno, e può portare a domande quali: come si possono integrare le nuove percezioni ed esperienze con le idee precedenti circa il modo e la modalità del transfert in questo specifico caso?
  • Un secondo esempio: cosa succede alle nostre categorie diagnostiche prestabilite, quando, com’è successo varie volte in passato, nuove forme specifiche di comportamento auto-aggressivo, auto-mutilatorio, o disturbi nell’alimentazione, entrano a far parte dell’interesse specifico. Dobbiamo utilizzare i concetti a noi familiari come l’isteria, o sviluppare nuovi concetti diagnostici per questi sintomi. E se lo facciamo, qual è la relazione tra i concetti nuovi e quelli vecchi?
  • Un terzo aspetto deve essere considerato: la ‘nuova’ conoscenza introdotta dalla nostra ricerca. Anche questa può avere delle conseguenze per il significato dei concetti: lo abbiamo visto ormai da un po’ di tempo nella ricerca sull’infanzia, dove alcuni dei nostri concetti di sviluppo – specialmente la teoria della fase, basata sullo sviluppo delle pulsioni – sono messi criticamente in discussione dalla ricerca sull’attaccamento. Questo lo vediamo anche laddove nuove scoperte nate da procedure di immaginazione [imaging procedures] possono cambiare le nostre idee analitiche su come la memoria funzioni.

A volte è possibile integrare questo ‘nuovo’ nel sistema concettuale a noi familiare; a volte invece avrebbe senso modificare l’uso stabilito; a volte potrebbe essere necessario abbandonare i vecchi concetti e introdurne di nuovi. Questo cambiamento è tanto maggiormente visibile quanto più grande è la distanza storica. Perciò oggi, per esempio – alla luce delle recenti scoperte nella ricerca della psicologica dello sviluppo circa le varie capacità del neonato – non parleremmo più di ‘fase di autismo infantile’, un concetto che Mahler suggerì negli anni ‘70 (Mahler, Pine, Bergman 1975).

Anche nella psicoanalisi si applicano meccanismi simili a quelli che sono noti guardando alla storia della scienza. Joseph Sandler ha descritto pensieri strutturalmente simili circa il mutamento dei nostri concetti, in modo simile a ciò che Thomas Kuhn fece riguardo al cambiamento dinamico delle teorie in generale. Sandler (1983) presumeva che i cambiamenti non emergessero nello stesso modo in tutte le aree del nostro edificio teorico, ma che ci fossero sempre concetti che sono soggetti a particolari tensioni e critiche, e che perciò sono di particolare interesse per la ricerca concettuale. Basandosi sulla propria esperienza al London Hampestead-Index Project (Bolland e Sandler 1965; Sandler 1987), Sandler suggerí di prestare particolare attenzione a due fenomeni:

  • l’elasticità del ‘meaning space’ del concetto, e
  • le concettualizzazioni implicite dell’analista al lavoro.

Un concetto analitico può essere presentato meglio in un meaning space elastico e multi-dimensionale, dove il peso degli aspetti del significato può mutare nel tempo. ‘Elasticità’ significa che i concetti possono ‘reagire’ ai cambiamenti, assorbirli, resistere ad essi ed integrarli. Questi concetti ammortizzano lo strappo del cambiamento teoretico, lo assorbono, mentre si possono sviluppare altre più nuove ed organizzate teorie, o teorie parziali. Questo è chiaramente diverso dalla convinzione che i nostri concetti abbiano un significato che non può cambiare, che può essere presentato in un modo formalizzato. Il modo in cui gli analisti ‘giocano’ con i concetti in un meaning space elastico, in un modo dipendente dal contesto – meglio: in un modo che dipende dal caso – è anch’esso un aspetto centrale del lavoro creativo dei clinici.

Ma elasticità non vuol dire elasticità ad ogni costo. Raggiungere un adeguato livello di elasticità significa camminare lungo una linea sottile tra una definizione fissa e persino dogmatica, e un utilizzo quasi privato del concetto. Nessun concetto dovrebbe divenire così arbitrario nel suo significato com’è successo ultimamente, per esempio, al concetto analitico di trauma. Blum descrive acutamente la situazione, quando vede il concetto di trauma come situato tra due poli ugualmente insoddisfacenti:

‘Il concetto di trauma psichico è stato erroneamente compresso ed esteso, in maniera ugualmente erronea, oltre i confini della definizione consensuale. Il trauma può essere definito in maniera così circoscritta che l’ego viene considerato come totalmente sopraffatto, con nessuna possibilità di registrare o rispondere adeguatamente al trauma.

All’altro estremo, il trauma può essere identificato, in maniera estesa, con qualunque esperienza nociva o interferenza dello sviluppo’ (2003, p. 416).

Con le ‘concettualizzazioni implicite’, Sandler cercò di definire un processo particolare: l’utilità di un concetto come per esempio il transfert deve mostrare la sua validità nella pratica clinica, dove ciascun analista classifica continuamente i fenomeni rilevanti in concetti. Il loro significato esplicito e codificato spesso si rivela insoddisfacente per il lavoro su un caso specifico. Come esperto clinico, uno potrebbe perciò essere tentato di adattare un concetto ai propri bisogni, sviluppando gradualmente un tipo di ‘meaning space’ soggettivo caso per caso. Questo ‘meaning space’ soggettivo si sovrappone con quello stabilito – quello socialmente condiviso con il gruppo di riferimento, ma che può, comunque, mostrare divergenze interessanti.

Questi processi sono impliciti poiché, spesso per un tempo molto lungo, non sono codificati precisamente con parole. Ma è necessario e non inusuale per gli scienziati riflettere su questi processi di adattamento dei concetti e di tentare sistematicamente di rendere il confine tra ‘esplicito’ ed ‘implicito’ più permeabile – così integrando questo specifico ‘nuovo’nella riflessione teorica generale.

 

Un esempio: circa il ‘meaning space’ di ‘transfert’

Lasciatemi brevemente illustrare come si debba intendere, attraverso questo meaning-space, il concetto di transfert, sicuramente uno dei nostri più importanti concetti clinici con una storia lunga e complessa (vedi per esempio Sandler, Dare, Holder 1992). Il concetto si presta bene a dimostrare il problema che si presenta in maniera simile con altri nostri concetti, cioè il problema del riferimento: a cosa ci riferiamo al mondo, quando parliamo di transfert?

Secondo Freud ci riferiamo ad un logoro cliché, ad un inconscio, ontogeneticamente acquisito pattern relazionale, che viene attualizzato nel hic et nunc dello scontro analitico. Per la psicoanalisi, il transfert è soprattutto un comportamento non osservabile e non semplicemente una narrativa manifesta. Piuttosto, il transfert è un concetto sotto il quale un analista classifica un numero di percezioni cliniche ed esperienze. Non c’è, quindi, nessun comportamento che in sé sia transfert. Ci sono solo fenomeni molto diversi, che nella situazione clinica possono essere visti come indicatori di transfert. E questi sono essenzialmente pattern inconsci.

Se si dovesse assoggettare il concetto di transfert ad un’analisi sistematica del significato, risulterebbero le seguenti dimensioni o aspetti del suo ‘meaning space’, basate su fenomeni clinici (vedi anche Dreher 1999):

  • l’aspetto della ripetizione, considerato da Freud nella sua idea di nuove edizioni di impressioni indelebili di un modello stereotipato che si sia originato presto, nella vita del paziente;
  • il cambiamento nel tempo, riguardo la domanda circa se e come i patterns cambino nel corso della vita, e come nuove edizioni vengano elaborate attraverso ‘l’azione differita’ (Nachträglichkeit);
  • La forma d’apparenza, che affronta le questioni che considerano se i fenomeni del transfert siano espressi in forma narrativa o agita [enacted], e da quali pattern di affetti essi siano accompagnati;
  • il significato degli elementi inconsci nelle narrazioni così come nelle recitazioni;
  • l’importanza dei processi interattivi, che guardano all’interazione del transfert, contro-transfert e la situazione analitica;
  • la funzionalità psichica, che chiede come lo ‘hic et nunc’ sia collegato con il ‘là ed allora’.

Questa lista di caratteristiche certamente non è esaustiva, anche se nomina gli aspetti più importanti del ‘meaning space’ di ‘transfert’. Solo la considerazione di tutti gli aspetti, cioè uno sguardo olistico del concetto, lo rende utile per il nostro lavoro nella situazione clinica. Ed è questa stessa complessità e ricchezza del concetto che lo ha reso così potente ed efficace nella nostra storia – una complessità che viene a volte persa, quando il concetto è applicato nei contesti della ricerca. Perciò, per esempio, non infrequentemente appaiono errori di tipo pars-pro-toto, quando i concetti analitici sono utilizzati nelle tecnologie di ricerca empirica: si riesce a comprendere un, certamente importante aspetto di molti; comunque, si fallisce nel rendere giustizia alla complessità del concetto. C’è spesso il rischio di ‘iper-semplificazione’ (Green in Sandler et al. 2000), il rischio di un appiattimento empirico dei concetti analitici nel processo di ricerca.

 

Caratteristiche specifiche dei concetti psicoanalitici.

Cosa rende i nostri concetti così complessi ed a volte così ambigui?

Per cominciare, c’è il nesso-interconnesso con il posto, dove molti concetti non solo hanno la loro origine storica, ma che è, soprattutto, il luogo principale dove essi devono provare il loro valore: la situazione analitica. Lì, gli analisti fanno un particolare tipo di esperienza con le altre persone e con sé stessi, e alcuni considerano questa esperienza persino unica. Due soggetti, paziente ed analista, si incontrano, e non soddisfa una considerazione psicoanalitica il semplice registrare oggettivamente il comportamento dei due attori. La psicoanalisi, certamente, si occupa soprattutto della comprensione di due mondi interni dinamicamente intercorrelati. Un ruolo particolare qui è giocato dalla tensione tra la realtà psichica e la realtà esterna – due realtà che non sono semplicemente in un rapporto rappresentazionale, che potrebbe essere costruito con metodi oggettivi.

Gli analisti cercano di esprimere la totalità di queste esperienze con un linguaggio scientifico, per renderle comunicabili, replicabili, e criticabili attraverso i concetti usati. Il significato di questi concetti clinici si riferisce in particolare alla soggettività dell’esperienza analitica, inclusi gli aspetti inconsci – una soggettività, ancora, non facilmente accessibile da una prospettiva oggettivizzante.

Un’altra caratteristica specifica dei nostri concetti è che la loro complessità è aumentata dal fatto che i loro significati sono racchiusi nelle presupposizioni teoriche del Weltbild analitico. Le nostre idee, a proposito, dei processi consci e dinamicamente inconsci, i nostri pensieri circa come le relazioni in oggetto siano sedimentate, o le convinzioni analitiche circa gli effetti di pulsioni ed affetti, circa le fantasie ed i sogni, certamente non sono condivise da tutti; ci sono infatti ancora differenze fondamentali tra il modello analitico della mente e, per esempio, i modelli empirici, cognitivi e neuro-scientifici.

Oltre a tutto ciò, la persona dell’analista è rilevante per l’utilizzo dei concetti da una prospettiva piuttosto diversa: i concetti sono legati in un modo speciale all’identità analitica dell’analista. I concetti analitici sono nostri ogni giorno, di solito scatole di attrezzi mai messe in discussione, l’inventario dei termini che viene dato per scontato per descrivere la realtà. E richiede un certo sforzo prenderne le distanze o persino avere una posizione critica verso il proprio modo di usare i concetti. Forse è proprio questa ovvietà [matter-of-course-ness] ad essere la causa della resistenza contro altre comprensioni concettuali, in particolare per il fatto che l’uso della lingua del proprio gruppo analitico è qualcosa che crea un’identità per gli analisti. E non è infrequente che qui si applichino le regole del narcisismo delle piccole differenze: più vicina la comprensione concettuale di due dialoganti, maggiormente pronunciati diverranno il loro criticismo e il loro puntualizzare. Simili meccanismi possono essere di ostacolo, chiaramente, ad ogni comunicazione circa concetti e circa le proposte per un loro mutamento.

 

Altre fonti di varietà nell’uso dei concetti.

Tutto ciò spiega solo in parte la grande varietà in uso dei nostri concetti; permettetemi di aggiungere brevemente alcuni altri fattori:

  • un fattore potrebbe essere la lunga storia delle tradizioni analitiche, in gran parte legata ai prominenti nomi di Freud, Jung, Klein, Bion, Winnicott, Kohut, Lacan, ecc;
  • un altro sarebbe la storia della psicoanalisi sparsa in tutto il mondo, con le sue differenti culture regionali. Da un punto di vista della ricerca concettuale sarebbe utile il tentativo di tracciare una tassonomia aggiornata dei dialetti analitici regionali;
  • poi ci sarebbero le diverse convinzioni circa lo status della psicoanalisi all’interno delle scienze. La gamma delle opinioni varia da una comprensione strettamente orientata in maniera empirica, basata sulla scienza naturale, ad un’ermeneutica, con un orientamento al singolo caso clinico, fino ad opinioni che attestano la psicoanalisi ad uno status di indipendenza ed unicità – ognuna con una specifica visione circa il funzionamento ed il significato dei concetti;
  • inoltre, ci sono le conseguenze dovute all’inserimento della psicoanalisi all’interno dei diversi sistemi medici e quindi economici dei vari Paesi. Si dovrebbe nominare qui lo spesso criticato cosiddetto ‘medicocentrismo’ (Parin, 1986), cioè il classificare i concetti ed il pensiero analitico sotto una visione medica di nosologia, diagnostica e terapia. Si potrebbe menzionare le risposte probabilmente diverse ad importanti quesiti quali: cosa è normale; o da quale grado in poi, i disturbi mentali possono essere considerati come una malattia; e quali sono gli scopi dichiarati di una cura analitica (Sandler e Dreher 1996; Dreher 2002).

Qualunque siano gli altri fattori che possono aver generato la varietà del nostro concetto in uso, questa varietà è giudicata differentemente: alcuni si lamentano della Babele delle lingue, altri no. Alcuni vi riconoscono un potenziale evolutivo creativo, altri vi vedono un rischio per l’unità della psicoanalisi. E ci sono buone ragioni, in tutti i sensi, per entrambi i punti di vista. Eppure, ciò che rimane base indispensabile e motore per concetti buoni e precisi si conosce dai tempi di Freud: ‘la sola osservazione’- cioè, le osservazioni nelle situazioni cliniche e i costanti tentativi di concettualizzarle adeguatamente. Ma tra queste due sfere – i fenomeni e la lingua utilizzata per descriverli – si trova ciò che Green chiama un ‘gap teorico-pratico’ (Green 2003, p. 29). La domanda è, comunque: deve questo gap rimanere così ampio, un gap misterioso per sempre? E come sarebbe un approccio sistematico e metodico che potesse essere utile nel ridurre le antiche lamentele circa la confusione concettuale?

 

Storia e pratica della ricerca concettuale nella psicoanalisi – alcuni esempi

Se uno dovesse fare una lista che potesse essere utile per chiarire un concetto, dovrebbe trovare le seguenti aree tematiche, ognuna con le corrispondenti domande:

  • L’investigazione del contesto storico dell’origine del concetto – quali problemi doveva risolvere il concetto quando è stato sviluppato?
  • La storia dell’uso del concetto, vista rispetto ai cambiamenti della teoria psicoanalitica – quali furono i principali cambiamenti nella comprensione del concetto?
  • L’uso attuale di un concetto nella pratica clinica ed extra-clinica – quali sono le più importanti varianti dell’uso attuale e fino a che punto sono esse compatibili?
  • Una discussione critica e, forse, la formulazione di un suggerimento di un diverso uso del concetto – quali suggerimenti validi possono essere dati per un miglior uso?

Per integrare questi aspetti e fare giustizia di ognuno di loro, dobbiamo chiaramente applicare diversi metodi di ricerca. Un’analisi sistematica della letteratura, per esempio, aiuterebbe la ricostruzione dello sviluppo di un concetto, facendo la mappatura dei punti cruciali del suo cambiamento nella storia analitica da Freud in poi (come dimostrato da Sandler et al. 1992, riguardo ai concetti rilevanti per il processo terapeutico; vedi anche Sandler et al. 1997). In aggiunta, questi studi possono contribuire ad un chiarimento preliminare del concetto, o aiutare ad identificare e appurare ogni ambiguità residua.

Inoltre, una ricerca concettuale sistematica comprende delle procedure che rendono possibile generare una prova dell’uso sia esplicito che implicito del concetto nella pratica clinica, per esempio attraverso colloqui peritali (expert interviews). Qui, un particolare aspetto rende questa ricerca di tipo psicoanalitico: un semplice inventario dell’uso attuale potrebbe essere messo insieme applicando metodi comportamentali o filologici, ma non è sufficiente, quando si vogliano includere aspetti dell’uso attuale di un concetto nel lavoro clinico, specialmente quelli che non sono stati ancora resi espliciti – le sopra menzionate concettualizzazioni implicite.

Come prototipo storico di una simile ricerca concettuale, si può considerare il lavoro del già menzionato Hampstead-Index. Qui, un team di ricerca composto di analisti – sulla base di piccole unità di osservazione dai trattamenti analitici – cercò un categorizzazione di queste osservazioni sotto concetti analitici. A volte, queste categorizzazioni risultarono essere non semplici, causando discussioni piuttosto controverse circa come gli stessi analisti coinvolti concepissero il materiale dei loro casi e quali concetti definissero meglio le loro rispettive unità. E questo, a sua volta, provocò lunghi tentativi di chiarimento riguardo ai concetti stessi.

Con interessi simili, un gruppo di ricercatori del Sigmund Freud Institute di Francoforte, Germania, avviò un progetto negli anni ‘80, che investigò il concetto di trauma psichico (Sandler et al. 1987 e 1991). Al tempo, il concetto era stato scelto perché giocava un ruolo centrale nella formulazione della sindrome PTSD (Post Traumatic Stress Disorder), per la quale avevano lottato le associazioni dei veterani del Vietnam. Fu anche centrale nei dibattiti sul fenomeno della falsa memoria nel contesto dell’abuso sessuale, ed essenzialmente nei tentativi di capire le esperienze dal trattamento delle vittime dell’Olocausto, connessi alle domande di se e come fosse possibile che traumi potessero trasferirsi da una generazione all’altra.

In tutte queste considerazioni e discussioni, l’uso del concetto ha subito una significativa estensione. Insieme ad altre domande, riguardo i contenuti, lo scopo principale del Frankfurt pilot study (lo ‘studio pilota di Francoforte’) fu, comunque quello di sviluppare un inventario di metodi per la ricerca concettuale. Questo inventario includeva le già menzionate analisi della letteratura, e le interviste semi-strutturate dagli esperti clinici analitici, membri del progetto di ricerca (nel ruolo di ricercatori concettuali), di esperti clinici analitici (nel ruolo di ‘soggetti sperimentali’). A questi ultimi fu chiesto di presentare tre casi in cui il ‘trauma’ aveva giocato un ruolo centrale, e di discuterli con gli intervistatori.

I dati raccolti furono analizzati e valutati in discussioni di gruppo dai ricercatori del progetto. Compito centrale era ricavare gli aspetti impliciti dell’uso del concetto dalle frasi esplicite degli esperti del trauma. Dato che non sto parlando del trauma oggi, ma della ricerca concettuale e delle sue giustificazioni, posso – a proposito dei risultati – solo rimandarvi alla letteratura pertinente suggerita nella bibliografia. Ma, certamente, i risultati riflettono lo stato della discussione venti anni fa – e quindi hanno un carattere preminentemente storico. Oggi che il concetto di trauma è molto più all’attenzione, un aggiornamento sarebbe certamente giustificato, specialmente rispetto al sottofondo delle scoperte neuro-scientifiche sul come il trauma viene affrontato.

Ma certo ci sono molti altri ‘punti caldi’ attuali: il concetto di ‘inconscio’, per esempio, che è sempre più utilizzato dai ricercatori sulla memoria. Ma in che senso usano questo termine? Nella psicoanalisi il significato di ‘inconscio’ è basato sulle considerazioni di Freud ed è stato clinicamente confermato da decenni. Nella psicologia della memoria il significato di ‘inconscio’ è basato su molteplici risultati sperimentali ed è strettamente correlato ai concetti di memoria implicita e di conoscenza implicita, di quei contenuti della memoria non accessibili alla coscienza. La psicoanalisi, che nel passato era certamente non ingiustificatamente chiamata la scienza dell’inconscio, ha evidentemente perso il monopolio del concetto di ‘inconscio’, e sarebbe di grande interesse chiarire il campo concettuale che circonda questo concetto e segna i contorni della connotazione analitica specifica di ‘inconscio dinamico’.

Ci sono stati molti studi incentrati sui concetti, ed è utile considerarli decisamente come espressioni di un ‘programma di ricerca’ con una giustificazione metodologica comune. I precursori di queste indagini concettuali sistematiche possono essere già visti in Freud, certo, quando praticava l’integrazione dell’indagine empirica e della differenziazione concettuale (come possiamo vedere per esempio nei concetti di ‘sessuale’ o ‘inconscio’ (vedi in particolare la ‘Lecture 20’ in Freud, 1916-17). Effettivamente, gli studi concettuali hanno una lunga tradizione, ed io vorrei menzionarne solo alcuni brevemente:

  • l’opera di McIntyre (1958), che sconsigliava l’uso di ‘Inconscio’ come sostantivo, a causa del rischio di un malinteso ontologico, suggerendo invece l’uso aggettivato, come in ‘processi inconsci’;
  • un altro è uno studio di Pulver (1970), che mise in guardia contro un uso inflazionistico del termine narcisismo;
  • e certamente ci sono importanti dizionari di psicoanalisi che sono il risultato di accurate indagini da parte di gruppi di ricercatori. Queste enciclopedie sono strumenti utili per orientarsi meglio nella varietà dei significati dei concetti. Laplanche e Pontalis (1973), poi anche Moore e Fine (1990) sono stati affidabili compagni di strada; il nuovo volume di de Mijolla (2002) giocherà forse un ruolo in futuro. Ma ciò che diventa evidente in questa sequenza cronologica, è che anche dizionari eccellenti, nonostante costituiscano raggruppamenti competenti della comprensione nella loro decade, necessitano senz’altro un aggiornamento di tanto in tanto. La concezione modificata di un concetto così centrale come quello di narcisismo, per esempio – una concezione iniziata dal lavoro di Kohut e non ancora inclusa da Laplanche e Pontalis ma sistematicamente integrata da Moore e Fine – può servire ad esempio.

I tentativi di chiarire i concetti in discussione, soprattutto nel mondo di lingua inglese, non costituiscono una novità. Basti pensare ai concept-study-groups (gruppi di studio concettuale) nei singoli istituti americani, che vedono il loro lavoro semplicemente come questo: lo studio di concetti. Un esempio eccellente è il rinomato Ernst Kris Group dell’Istituto Psicoanalitico di New York (il cui lavoro è documentato nelle serie monografiche del Kris Study Group, come in Fine et al. 1971; oppure in Abend et al. 1983).

L’intenzione esplicita di discutere i concetti in forma di contraddittorio, così come quella di cercare il consenso o registrare il dissenso, può essere trovata specialmente nelle panel discussions. Lo scopo di questi panel è di chiarire i concetti attraverso la simultanea inclusione delle esperienze cliniche e delle convinzioni teoriche. Essi hanno un pattern tipico di discorso, risposta, e conclusione su tutte le questioni, e uno sguardo più ravvicinato a questa tradizione predominantemente statunitense mostra quanto queste indagini possano essere immaginose e chiarificatrici (vedi Blacker, 1981; Escoll, 1983; Rothstein, 1983). I panels ed i gruppi di studio concettuali sono modelli stabiliti e generalmente accettati per attività, per così dire, che hanno le caratteristiche minime per una ricerca concettuale.

 

Un’osservazione intermedia: riflessione concettuale – ricerca concettuale

L’idea che una ricerca concettuale autonoma possa raccogliere guadagni per sia il lavoro clinico che per gli sforzi scientifici, `stata accettata dalla psicoanalisi contemporanea. Il gruppo di Hampstead e poi il Project Group di Francoforte aveva inizialmente usato il termine ‘ricerca concettuale’ solo come titolo di lavoro generico; nel frattempo, l’etichetta si era rafforzata. Ma chi compie la ricerca concettuale? Ogni clinico che usa un concetto per descrivere il proprio caso? Ogni ricercatore empirico che cerca, come parte di uno studio, di trasferire aspetti di un concetto in procedure in grado di misurare, con lo scopo della operatività? Tutti coloro che pensano ad un concetto ovunque, in ogni modo, o che criticano il modo in cui altri lo usano? Certo, la ‘ricerca psicoanalitica concettuale’ non è un termine protetto. Comunque, suggerisco di fare una distinzione tra la ricerca concettuale e la riflessione concettuale – questa distinzione può essere vista come complementare alla definizione di lavoro sopra menzionata:

  • Riserverei il termine ricerca concettuale per quelle attività che esplorano l’uso dei concetti, inclusa la loro funzione nei campi concettuali, in maniera sistematica e applicando metodi adeguati – tanto empirici quanto ermeneutici.
  • Chiunque rifletta sui concetti (in realtà un’attività di routine per ogni clinico e ricercatore) sta certamente compiendo qualcosa di utile, anche se non automaticamente una ricerca. La riflessione concettuale è una condizione necessaria ma non sufficiente in sé per la ricerca concettuale.

 

Alcune caratteristiche essenziali del processo di ricerca

Permettetemi di dare uno sguardo maggiormente ravvicinato ad alcuni elementi del processo di ricerca: Oltre alla sempre importante riflessione, nella ricerca concettuale c’è prima un bisogno di dati empirici appropriati. Questi dati da soli possono riflettere un uso attuale nella pratica e come chi li utilizza illustri e legittimi l’uso stesso. Per avere un quadro completo di entrambe le questioni – l’uso fattuale e la sua giustificazione – non serve solo una selezione di metodi adatti; ma in particolare una scelta di campioni rappresentativi: autori storici, esperti, o professionisti clinici.

Le effettive questioni in esame possono certo variare considerevolmente riguardo alla prospettiva – o lo sviluppo o solo un’attuale sezione trasversale [cross-section] sull’uso di un concetto. L’inventario di metodi possibili, perciò è molto ampio, variando da diverse forme di analisi della letteratura a varie tecniche di intervista (dalle interviste non strutturate a quelle strutturate), a questionari, valutazioni di esperti, discussioni di gruppo, e simili. E per quanto riguarda la coerenza logica dei campi concettuali, i modelli di simulazione possono essere davvero utili. Specialmente quando abbiamo a che fare con conoscenze peritali, il circolo degli specialisti non deve essere limitato agli psicoanalisti. Perciò, considerando il canone dei metodi di ricerca concettuale, si applica esattamente lo stesso che ogni altra ricerca chiede per sé stessa. I metodi sono, soprattutto, mezzi per raggiungere un fine, e la domanda principale è se essi contribuiscono al raggiungimento di questo fine: nel nostro caso, a dare suggerimenti alla comunità scientifica per un miglior uso del concetto.

Che la strutturare una riflessione ed una discussione in un gruppo di ricerca faccia parte del processo di ricerca stesso, è evidente. Comunque, non è così ovvio che questo momento discorsivo sia applicato sistematicamente e considerato essenziale. Ma senza questi tentativi di comunicare circa le regole dell’uso del concetto e di cercare un consenso sociale, lo scopo della ricerca concettuale sarebbe difficilmente raggiungibile. Nel corso di tale processo di ricerca, un concetto viene ripetutamente testato dalla riflessione, discussione, e critiche da parte dei membri del gruppo di ricerca – basate sulle loro esperienze precedenti e sulla conoscenza base sistematicamente acquisita. La struttura di questa procedura è tale da elaborare gradualmente il [significato spaziale meaning-space] del concetto. Questa elaborazione, che ha lo scopo di avvicinarsi continuamente ad un miglior uso del concetto, è al suo meglio proprio quella ‘spirale progressiva’ descritta all’interno del contesto dell’Hampstead-Index (Sandler 1987).

Nella sua rivendicazione, la ricerca concettuale va oltre i limiti delle tradizioni scolastiche ed è spesso interdisciplinare. Il legame al nostro campo comune, d’altra parte, non dovrebbe essere perso. Perciò l’integrazione della conoscenza clinica è indispensabile. Assicurarsi che questo significato essenziale del nostro concetto rimanga preservato e che non ci siano riduzioni diventa perciò un difficile cammino sulla corda tesa tra preservazione e cambiamento.

 

Ricerca concettuale nel contesto dei problemi metodologici

Dopo questa descrizione su come funzioni la ricerca concettuale, rimangono ancora da discutere – come ultimissima sezione – alcune questioni circa il suo status scientifico. Ma vedrete che questo sarà allo stesso tempo una specie di riassunto:

  • Soprattutto i ricercatori che vengono dalla tradizione empirica, sostengono la tesi che solo i fenomeni osservabili o misurabili possano essere oggetto di ricerca. Inoltre, i metodi applicati dovrebbero essere orientati verso l’ideale dell’esperimento nelle scienze naturali. L’obiettivo dovrebbero essere teorie e modelli quanto più formalizzati possibile, che servano da spiegazione e per predire. E per molti è soprattutto la scelta del giusto metodo, a determinare se qualcosa possa essere visto come scientifico. La ricerca concettuale non si definisce principalmente in base ai suoi metodi, ma ai suoi soggetti, l’uso dei concetti, ed al suo scopo, il loro chiarimento. La ricerca concettuale è empirica nelle sue procedure, per quanto riguarda la descrizione del concetto fattuale in uso; così come è anche storico-ricostruttiva, riguardando lo sviluppo di un concetto; ed anche valutativa, riguardando la critica discussione dei dati raccolti e l’elaborazione di proposte per un uso adeguato clinicamente e scientificamente. Per questo, è evidente che la ricerca concettuale debba usare metodi diversi dalle varie tradizioni di ricerca.
  • Perciò la ricerca concettuale, proprio come quella empirica, può ricorre tanto a metodi qualitativi quanto a quelli quantitativi. Nonostante ciò, è chiaro che essa lavori intensamente con l’uso del linguaggio ed i ‘meaning-spaces’. Oltre alla raccolta dati per descrivere l’uso del concetto, un altro aspetto essenziale è l’analisi e l’interpretazione dei dati verbali (per esempio da interviste ad esperti o da discussioni di gruppo) e quindi anche l’applicazione di metodi ermeneutici, ben conosciuti e familiari a noi analisti. Questa attenzione particolare al linguaggio, come soggetto di ricerca e come fonte di dati, può creare problemi solo quando le parole sono considerate in modo fondamentalmente opaco, ed i numeri come sempre esatti. Dove la ricerca concettuale e la ricerca empirica invece davvero differiscono, è nell’interesse della loro ricerca, non necessariamente nei tipi di metodi applicati e certo non nella loro intenzione di migliorare la conoscenza analitica.
  • Occasionalmente, quando si trovano attività di ricerca analitica divise, per esempio, in ricerche empiriche, cliniche, e concettuali, si può avere l’impressione che queste tradizioni stiano una accanto all’altra in maniera non connessa, o persino in competizione. Questa sarebbe una visione riduzionista. Solo la cooperazione costruttiva ed il mutuo riconoscimento faranno giustizia alla nostra complessa area di ricerca. A questo proposito, la ricerca concettuale psicoanalitica è sempre integrativa, nel senso che prende in considerazione i risultati delle diverse ricerche sull’uso di un concetto – focalizzandosi sulla domanda se questo concetto risponda ugualmente bene a requisiti clinici e scientifici.
  • Permettetemi di tornare al passo già menzionato, solitamente chiamato ‘operazionalizzazione’, che richiede al ricercatore di determinare cosa debba essere esattamente osservato e misurato in un concetto, e con quali metodi questi aspetti del concetto debbano essere afferrati. Dalla prospettiva della ricerca concettuale, questa definizione dettagliata presenta davvero un vantaggio – paragonata all’uso del concetto diffuso e idiosincratico, perché rende le sue regole tracciabili. Comunque, proprio come un concetto può essere capito differentemente, può anche essere relativizzato molto differentemente. Il ‘transfert’ è un buon esempio di come i ricercatori, ognuno con le loro tecnologie, cerchino di afferrare i fenomeni sulla base di diverse operazionalizzazioni. Queste ultime, e la comprensione concettuale su cui sono basate possono certo essere – come un tipo di uso del concetto – comparate e valutate.
  • E’ chiaro che i nostri concetti presentano alcune difficoltà all’interno di questo passo di operazionalizzazione. C’è sempre un problema che i nostri concetti base, il nostro modello della mente, devono tenere in considerazione, per esempio notiamo che molti processi psichici sono dinamicamente inconsci (e anche se non sono direttamente osservabili, essi possono decisamente essere desumibili come il risultato di un processo di interpretazione e inferenza). Questo problema, cioè la dipendenza del significato dei concetti dai pre-assunti circa il funzionamento della psiche, non è della sola psicoanalisi. Le convinzioni di molti scienziati cognitivi ed alcuni neuro-scienziati sono basate sul pre-assunto, [pre-assumption] ancora una volta non condiviso da tutti, che la mente umana funzioni come un computer, o che addirittura lo sia. Certo, la metafora del computer è considerata più ‘moderna’ che il sistema delle nostre convinzioni fondamentali derivate dalle idee meta-psicologiche di Freud. Ma che questa idea dell’uomo sia generalmente migliore, o clinicamente più adeguata della nostra può ben essere contestata.
  • La ricerca concettuale è caratterizzata dal suo particolare interesse per i cambiamenti dei concetti. Ma – a parte il progresso nell’esperienza scientifica e nella ricerca scientifica menzionato – quali sono davvero le ragioni storiche e sociali per i cambiamenti del concetto? Dovrebbe essere ormai chiaro che la relazione tra il linguaggio ed il mondo, tra il concetto ed i fenomeni empirici pertinenti, non può essere vista come una relazione a due fattori, ma, secondo una vecchia tradizione semiotica, come triangolare. La persona di colui che usa il concetto entra cioè in gioco e così la dipendenza del significato del concetto da giochi linguistici evolutisi storicamente e socialmente condivisi, racchiusi in diverse culture e forme di vita umana. Per esaminare queste dipendenze culturali, nel senso più ampio del termine, gli studi concettuali possono anche assumere la prospettiva di teorie culturali [Kulturtheorie]. Poiché i trends del cambiamento nel panorama della ricerca non derivano principalmente dalla riflessione. Quali erano esattamente le ragioni, due decenni fa, del cambio di interessi della ricerca analitica verso l’empirismo? Come cambiano gli obiettivi del trattamento in funzione dei cambiamenti socio-economici nei sistemi sanitari? Oppure, quali sono le ragioni degli attuali trends verso i concetti?

 

Conclusione

Delle riflessioni sistematiche su un concetto ed il suo uso non portano automaticamente ad una migliore comprensione tra diverse discipline, non riportano neanche ad una psicoanalisi unificata. Ma potrebbero facilitare controverse discussioni. La ricerca concettuale può, proponendo propri suggerimenti, stimolare le discussioni, al massimo moderare il discorso, ma non lo può condurre da sola. Un uso del concetto ragionevole può in effetti essere raggiunto solo attraverso buoni argomenti ed il consenso. Proprio come l’empirico ed il concettuale sono in un rapporto dialettico tra loro, così le attività di ricerca psicoanalitica che abbiano fenomeni empirici o un concetto come loro soggetto, sono dipendenti tra loro: la ricerca concettuale senza il ricorso alle scoperte di quella empirica può essere un ‘gioco delle perle di vetro’; la ricerca empirica senza un’adeguata comprensione concettuale può essere senza rilevanza clinica. La cooperazione è concepibile, basata su un riconoscimento delle diverse metodologie, e non su rivendicazioni di esclusività, dato che i ricercatori ed i clinici lottano per un obiettivo comune: una teoria con una base empirica solida, formulata con buoni concetti.

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