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Fonda P. (2005). Due volte alla settimana: interrogativi

Testo del seminario presentato il 27 maggio 2005 presso il Centro Psicoanalitico di Firenze, che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autore.

Visto il tempo limitato che abbiamo a disposizione per un argomento così ampio, vorrei prima circoscrivere il campo e sgombrarlo da alcuni equivoci che spesso intasano le discussioni su questo tema.

I trattamenti a due volte alla settimana sono molto frequenti, se non rappresentano addirittura la gran parte dell’attività, sia degli psicoterapeuti ad orientamento psicoanalitico, che di quella di molti analisti. Un problema che si pone, e sul quale vorrei centrare queste riflessioni, è se – o quanto – alcuni di tali trattamenti possano essere considerati delle analisi. Più in generale porrei l’interrogativo, che cosa avviene in realtà in questi trattamenti. Interrogarsi su ciò mi sembra indispensabile, non solo perchè riguarda una buona parte del nostro lavoro, della quale si tende a parlare poco, ma anche perchè, il rifletterci, ci costringe a precisare meglio il significato di certi parametri della tecnica psicoanalitica, che altrimenti rischiano di restare nell’ombra dello scontato e dell’ovvio, nella tautologia del “questo è analitico perchè in analisi si fa così oppure del “questo è analitico perchè lo fa un’analista” (anche se finirò col riprendere e sostenere una variante di quest’ultima affermazione, però almeno lo spero in modo meno dogmatico e più motivato). Secondo i dati di alcune indagini in diversi paesi la maggior parte degli analisti avrebbe in corso in media da 0.8 a 2 analisi (a 3 o 4 sedute). E’ evidente, allora, che durante la gran parte delle loro ore di lavoro svolgono trattamenti diversi, dei quali però si tende a non discutere.

Cominciamo a sgomberare il campo da ciò che qui non ci interessa. La psicoterapia di sostegno, perlomeno se intesa nel senso più banale del termine, è tutt’altra cosa dalla psicoterapia psicoanalitica alla quale qui mi riferisco.
La psicoterapia psicoanalitica è un concetto molto ampio che sfugge a una definizione o a una delimitazione. Di fatto, si possono includere in tale termine i trattamenti più svariati, che comunque si propongano però, almeno a mio avviso, di evitare sia la suggestione esplicita sia la direttività o la supportività. Ciò che forse più li differenzia dall’analisi è la minore apertura del loro sviluppo “in qualsiasi direzione”. Tale maggiore delimitazione dei possibili percorsi della coppia terapeutica, è data anche dalle modificazioni di alcuni parametri del setting, quali la (più o meno implicitamente presupposta) minore durata del trattamento, una qualche focalizzazione su certi contenuti o su certi strati della psiche più che su altri, le sedute vis-a-vis e infine anche la frequenza delle sedute. Troviamo così sotto l’etichetta di psicoterapia psicoanalitica cose affatto differenti, quali per esempio:

– Delle modifiche della tecnica e del setting atte a poter trattare pazienti con patologie diverse da quelle per le quali è indicata un’analisi classica.
– Dei tentativi di analisti esperti di modificare in modo sofisticato la tecnica terapeutica analitica per abbreviare il trattamento ed ottenere comunque dei risultati terapeutici (centrati sul sintomo, focalizzati su un nodo conflittuale, limitati ad alcuni “strati” della struttura della psiche ecc).
– Un arcipelago di trattamenti non ben codificati, praticati da terapeuti, che vanno, senza soluzione di continuo, dagli analisti stessi e dagli psicoterapeuti molto ben preparati, fino a coloro che, quasi dilettanti, introducono nei loro colloqui con i pazienti qualche nozione psicoanalitica (quello che quasi tutti noi abbiamo poi fatto all’inizio della nostra attività, prima di diventare analisti).
– Nell’ampio ambito descritto nel punto precedente (3.) troviamo poi in particolare dei trattamenti attuati con modalità ed intenti molto vicini a quelli dell’analisi, da cui differiscono principalmente per un aspetto, quello della frequenza a due sedute settimanali. E’ di questi ultimi soltanto che oggi vorrei che ci occupassimo, evitando possibilmente di disperderci nella vastissima e complessa discussione sui rapporti tra psicoanalisi e psicoterapia.
Auspicherei anche, che non sprecassimo tempo su un malinteso, ricorrente nelle discussioni sull’argomento, relativo alla frequenza delle sedute. Diamo per scontato che ci sono alcuni pazienti (o alcune coppie analitiche) che a quattro sedute settimanali non riescono ad innescare alcun processo analitico, mentre in altri casi può succedere che a una seduta settimanale si sviluppi un discreto lavoro analitico.

Ciò dimostra soltanto che il numero delle sedute non è un fattore necessario e sufficiente perchè si faccia un’analisi. Non dimostra per niente però, che la frequenza sia un fattore irrilevante ai fini dello sviluppo di tale processualità. Inoltre, ci possono anche essere pazienti che, perlomeno per una fase iniziale dell’analisi, possono mal tollerare, non tollerare affatto o essere disturbati da una frequenza quadrisettimanale. Ciò nonostante, io credo che un alto numero di sedute settimanali sia uno dei fattori importanti che, assieme ad altri, favorisce e consente lo sviluppo di una situazione analitica ottimale in cui la coppia analitica può lavorare al meglio.

E’ comune rilevare ciò che ha detto recentemente una mia paziente passata da tre a quattro sedute: “Devo ammettere che lei ha avuto ragione: quattro sedute settimanali sono per me il tempo minimo per rilassarmi. Prima ero tutta lì, tesa nel controllare le entrate e le uscite dalle sedute: il lunedì non combinavo niente perchè ero bloccata dall’interruzione che c’era stata alla domenica e il venerdì per quella che ci sarebbe stata.”
Ritornerei inoltre sulla distinzione schematica tra due situazioni molto diverse. Nella prima abbiamo dei pazienti che presentano dei nodi conflittuali con aspetti più o meno circoscritti, su cui si può centrare un lavoro interpretativo focalizzato in una psicoterapia psicoanalitica. Possiamo proporre loro un tale trattamento a due sedute settimanali, discutendone ovviamente anche i pro e i contro, sia perchè riteniamo che possano trarne un sufficiente vantaggio, sia perchè non riscontriamo una sufficiente motivazione ad un lavoro più esteso e profondo, sia per altri motivi ancora, non ultimi quelli legati a difficoltà pratiche, reali.
La seconda situazione (quella del punto 4.), nella mia pratica più frequente della prima (quella con un “focus” su cui lavorare), e sulla quale proporrei che qui concentrassimo la nostra attenzione, ci pone dei problemi tutt’altro che semplici. Si tratta di casi nei quali c’è l’indicazione per un’analisi e non si intravedono dei problemi sufficientemente focalizzati, su cui indirizzare un intervento più circoscritto. Però, per varie ragioni (distanza, tempo, lavoro, costi etc.), il paziente, pur motivato e desideroso di fare un’analisi, non può fare più di due sedute settimanali.

In quest’ultima situazione distinguerei di nuovo due possibili scenari. Nel primo, il paziente viene inviato a uno psicoterapeuta con una buona formazione, ma che non pratica analisi vere e proprie. A volte mi capita poi di sapere come proseguono le cose, poichè vedo il terapeuta in supervisione. Schematicamente, posso dire che spesso tali psicoterapie a due sedute settimanali, condotte abbastanza bene, terminano dopo due, tre o quattro anni con un risultato parziale, ma tutto sommato spesso abbastanza soddisfacente sia per il paziente che per il terapeuta, pur rimanendo, in genere, in ambedue la sensazione che una parte più o meno rilevante delle difficoltà non sia stata affrontata. Non saprei quanti di questi pazienti poi possono tornare dal loro terapeuta o da un’analista con il bisogno di completare l’opera, poichè tali follow up richiedono decenni e la mia vita professionale è troppo breve.

Nel secondo scenario abbiamo un paziente che inizia un trattamento a due sedute alla settimana con me analista (in questo caso posso riferire solo le mie limitate esperienze personali). Paragonando i trattamenti di questi miei pazienti con quelli degli analoghi pazienti degli psicoterapeuti che supervisiono, devo dire che ho a volte provato un certo senso di invidia. Ho, infatti, la sensazione che gli psicoterapeuti, più facilmente di me, riescano a portare a termine i trattamenti in un tempo “ragionevole” e anche con un certo risultato, come dicevo prima, mentre io con i miei pazienti, in questo tipo di assetto, spesso navigo in mare aperto per molti anni, tra nebbie e burrasche. Evidentemente il mio procedere differisce notevolmente da quello dei colleghi psicoterapeuti e l’aspetto esterno più evidente di tali differenze sta nella durata di questi trattamenti.

Facendo recentemente qualche grossolano calcolo, ho infatti riscontrato che la durata dei miei trattamenti analitici tende a variare, a seconda che la frequenza delle sedute sia di due, tre o quattro volte, prolungandosi tanto più, quanto minore è la frequenza delle sedute. Se però calcolo il numero totale delle sedute la differenza tende a diventare meno rilevante. Su per giù la durata media è attorno alle 1000 o più sedute, pur con ampie variazioni individuali. Un mio trattamento a due sedute tende dunque ad avere una durata doppia rispetto a quelli a quattro sedute. Tende, cioè, a superare i dieci anni, mentre gli psicoterapeuti se la cavano in 3-4 anni.
Ho, naturalmente, anche qualche paziente a due volte in delle psicoterapie “focalizzate”, che tendono a finire dopo due, tre o quattro anni. Ma non è questo il tema di oggi.
Quello che vorrei qui evidenziare è ciò che avviene nei trattamenti prolungati a due volte. In questi io uso una tecnica analitica in cui l’unica variazione evidente è la frequenza ridotta a due sedute settimanali. Questa variazione incide parecchio, perchè interferisce negativamente su alcuni fattori importanti dell’analisi, in genere faticosi da attivare e da proteggere anche nelle analisi a 3-4 sedute. Elenco alcuni limiti più evidenti nella frequenza a due sedute.

– Rende più stentato l’instaurarsi dell’affidabilità dell’analista, data in una certa parte anche dalla costanza e dalla quantità concreta della sua presenza reale nella vita del paziente. (Non basta solo la “qualità” della presenza, come spesso si consolano delle madri, costrette, poverette, per vari motivi, ad affidare i propri bambini agli asili nido per buona parte della giornata.)
– E’ stentato l’instaurarsi della continuità tra le sedute, che implica l’elaborazione e il superamento degli “abbandoni” negli intervalli tra le sedute, delle reazioni invidiose generate dall’analista che “ha tanto, ma da così poco” etc. Spesso nelle analisi a 3-4 sedute per lunghi periodi la prima e l’ultima sono caratterizzate da rabbiose chiusure (sottese da sofferenze per lungo tempo inaccessibili).
– E’ a volte traumatico sostenere angosce o eccitamenti per intervalli più lunghi tra una seduta e la successiva, (un’assenza cancellata determina in questi trattamenti un intervallo di ben sette giorni). In un periodo di intensa regressione una paziente descrive la fine della seduta come “l’estrazione del capezzolo dalla bocca del lattante mentre ha appena cominciato a succhiare” o come “l’estrazione del pene dalla vagina poco prima dell’orgasmo”. Un altro parla del sentirsi “buttato da una casa calda in mezzo a una strada fredda e buia”. Non è certo indifferente se si torna il giorno dopo o dopo 3-4 giorni. (Anche se, quando queste sensazioni vengono rappresentate ed espresse, siamo già a buon punto!)
– Rischia di sbiadire la pienezza dei colori dell’emotività dei vissuti transferali. (E’ un pò come la differenza tra un film visto in televisione, con tutte le interruzioni della pubblicità e i rumori della casa, e il film nel buio della sala cinematografica, dove lo schermo occupa gran parte del campo visivo e l’assenza di altre sensazioni visive ed uditive ci consente di essere più intensamente assorbiti e pervasi dalle emozioni della rappresentazione della quale siamo partecipi.)

Quello che però vorrei sottolineare, in particolare, è che, a mio avviso, c’è una differenza sostanziale tra i trattamenti portati avanti da me e quelli eseguiti dagli psicoterapeuti che non hanno mai condotto un’analisi. Tale differenza, che spiegherebbe la diversità del percorso, starebbe nell’atteggiamento mentale di base di fronte al possibile percorso terapeutico. Confrontandomi a loro, mi sento affetto da una sorta di “filobatismo”, cioè da una curiosità e da una necessità, che nella relazione terapeutica (specie dei pazienti che non hanno chiare e più o meno circoscritte conflittualità più in superficie) si attualizzino e si esprimano gli strati più profondi, le relazioni oggettuali interne più primitive dei pazienti, poichè è lì che ritengo stiano le radici della loro sofferenza. O perlomeno, affinchè Bion non mi bacchetti, posso permettermi l’assenza di memoria e di desiderio e lasciarmi portare ovunque, anche ed inevitabilmente più in profondità.

Diversa vedo essere invece la posizione degli psicoterapeuti, i quali, a differenza di me, non sembrano sentire per niente la mancanza di una terza o di una quarta seduta, poichè, almeno così ritengo, di fronte a contenuti più profondi, che non sono abituati a frequentare e a gestire, inconsciamente cercano di evitarli o perlomeno non vi si soffermano tanto quanto me e danno così ai pazienti implicitamente un messaggio opposto al mio: “Non addentriamoci troppo in queste cose.” “Non mi farai cosa gradita se insisterai su questo.” “Mi metti in una certa difficoltà se ti soffermi su questo materiale o su queste emozioni.” Tali messaggi, inconsci ed impliciti, genererebbero nel paziente la sensazione che il terapeuta non è in grado di accompagnarli e di garantire loro la necessaria sicurezza se regrediscono troppo, se esprimono contenuti ed angosce troppo primitivi. Il paziente percepirebbe, oltre al naturale timore che già c’è in lui, anche l’esitazione dello psicoterapeuta ad inoltrarsi in mari più profondi, nei quali non ha mai navigato. In questo caso tenderebbe a crearsi una collusione tra ambedue nell’evitarli.
Il contrario invece succede con un analista, che può far inconsciamente percepire al paziente di aver familiarità con quelle aree, poichè in altre analisi ne ha già visitate alcune e ne è uscito indenne assieme ai suoi pazienti, anzi portandoli attraverso un tale percorso a fruttuosi esiti. Credo pertanto, che il paziente sia molto influenzato dall’immagine e dalle relative emozioni, che l’analista ha nei riguardi del possibile percorso da fare insieme.

O meglio, ritengo che tra le fantasie inconsce comuni, che analista e paziente continuamente concorrono a creare nel campo analitico, sia sempre presente, anche un certo progetto comune, che implica ed ha poi un continuo effetto organizzante sullo sviluppo del processo terapeutico.

Greenberg e Mitchell (1983), riferendosi a Winnicott, dicono che: “L’organizzazione dell’esperienza del bambino è preceduta dalla percezione organizzante che la madre ha di lui e da essa dipende.” Possiamo ritenere che ciò possa valere anche per la coppia terapeuta-paziente. Se poi, come si sostiene oggi nelle correnti costruttiviste e intersoggettive, nel processo terapeutico ciascuno dei partecipanti “forma” l’altro (Bonfiglio, 1994), non si può pensare che ciò non riguardi anche il progetto terapeutico, nei suoi versanti consci, preconsci o inconsci. Il terapeuta, sia psicoanalista che psicoterapeuta, non porta nella relazione solo le sue caratteristiche individuali, ma anche quelle professionali, che comprendono la sua esperienza, le sue conoscenze, l’immagine che ha della sua attività terapeutica. Tutto ciò interagisce con le speranze e le paure, le motivazioni e le resistenze del paziente, tendendo a creare un, più o meno condiviso, comune progetto terapeutico. Buona parte di questo, affonda naturalmente nel preconscio e nell’inconscio e concorre a influenzare la direzione e i limiti del processo psicoterapeutico o psicoanalitico.

Un’altra differenza importante tra i trattamenti portati avanti da me e quelli eseguiti dagli psicoterapeuti, è che se i momenti di intensa empatia su contenuti profondi sono troppo rari e distanziati nel tempo (il che è peraltro più facile che succeda con uno psicoterapeuta), ciò non favorisce l’effetto delle interpretazioni volte al superamento delle difese, che tali contenuti proteggono.
Un ulteriore fattore potrebbe consistere in una più generale sensazione di base, che potrebbe formarsi nel paziente, sui limiti del suo terapeuta, mentre nell’arco della terapia ne approfondisce la conoscenza. Credo che alla fin fine ogni analisi e ogni psicoterapia abbiano dei limiti naturali nelle conformazioni psichiche e caratteriali del terapeuta (e qui si potrebbe aggiungere anche dai limiti postigli dalle sue conoscenze e dalle sue impostazioni teoriche e tecniche) e nell’incontro di queste con la struttura e le problematiche del paziente. Mi sembra perciò di percepire che a volte, nell’idea del paziente di concludere il trattamento, possa essere implicita anche la sensazione che da quel determinato terapeuta in quel contesto terapeutico, non sia possibile un’ulteriore crescita, che il processo terapeutico si sia esaurito e che sia destinato solo a ripetersi, a girare in tondo. Con uno psicoterapeuta spesso ciò avverrebbe prima che con un analista, essendo quest’ultimo attrezzato per la navigazione in mari più ampi.

Sotto la pervicace sensazione di atemporalità che perdura durante le prime lunghe fasi di pressochè ogni analisi, penso che sussista un sentimento del tempo, quasi biologico, che è connesso ai cicli della vita e alla sua stessa durata. Qualcosa vicino al concetto di sistema di saggezza profonda di Langs. Questo sembra saldarsi e dar sostanza alla più piena coscienza del tempo, che ad un certo punto del trattamento beneficamente compare. Ebbene, credo che anche questo sia un fattore che nei trattamenti, che si prolunghino per un numero eccessivo di anni, concorre nel suscitare il bisogno di finire o di interrompere – di tirare i remi in barca. Forse ha qualcosa a che fare con il sentimento controtransferale della noia, descritto da Zapparoli (1979), che può subentrare nei due membri della coppia, quando la relazione non sostiene più la crescita e il bisogno di separazione si fa di conseguenza più pressante.
Non mi soffermo qui su quei particolari aspetti della patologia del paziente (e a volte del terapeuta) che possono invece portare alle analisi o alle psicoterapie interminabili.

A questo punto si pone la domanda, se questi trattamenti pur prolungati e approfonditi, condotti da un analista, ma a due sedute settimanali, possano a ragione essere chiamati psicoanalisi o no. La mia idea sarebbe di chiamarli delle analisi più o meno parziali, riprendendo il concetto già usato da Hautmann (1979). (Widlocher (1999) parla di “analisi alleggerite” o “light”.) Alcune di queste possono avvicinarsi notevolmente a un’analisi vera e propria (o nei casi più fortunati di fatto essere tali), altre meno. Molto credo che dipenda dalla capacità del paziente di tollerare le separazioni, poichè se questa è molto bassa, sarà molto indaginoso e porterà via troppo tempo il tentativo, spesso quasi inane, di arrivare ad un sufficiente senso di continuità tra le sedute.
Non scelgo mai di tentare un’analisi a due sedute, se non ci sono delle circostanze importanti che me lo impongano. In genere è la considerazione che il paziente potrebbe fare un buon lavoro analitico, ma al di là delle due sedute con me non ha altra scelta se non uno psicoterapeuta non del tutto adeguato ai suoi bisogni, o peggio, tenersi i suoi problemi e farsi aiutare solo con i farmaci. E’ pertanto anche un problema etico.

Menzionerei ancora un problema, che si pone spesso, ed è legato ad una tenace fantasia presente in molti dei pazienti a due sedute (specialmente quelli che non possono permettersene di più). Nel loro lamentarsi, che la loro analisi procede lentamente, mentre quella di altri loro conoscenti è stata più veloce, spesso non c’è traccia della consapevolezza che questi “altri” magari facevano quattro sedute settimanali. L’analisi, sembrano presupporre, si conta in anni e non in numero di sedute. Spesso è implicita in ciò una fantasia “assistenziale”: siccome loro non possono permettersi più di due sedute, il resto lo deve mettere “qualcuno” in modo che il loro trattamento sia comunque all’altezza degli altri e cioè ottimale. Le implicazioni di tali fantasie sono ovviamente molto ricche nei più vari strati della loro mente. Spesso possiamo essere anche noi spinti a colludere con loro, gratificati dall’onnipotenza attribuitaci, nell’offrire il miracolo del “paghi 2 e prendi 4”.

Da qualche anno sto sperimentando altri assetti. Ciò è legato al fatto che le due sedute settimanali a me e ai miei pazienti spesso vanno strette. Ad alcuni di loro che non possono farne di più, perchè abitano lontano e non è assolutamente pensabile che possano fare più di due viaggi a Trieste, ho proposto dopo alcuni anni di analisi e dopo che ambedue ci rammaricavamo del poco tempo che si aveva a disposizione, di aggiungere una o due sedute, fatte anche a due nello stesso giorno e a breve distanza una dall’altra. L’assetto diventa perciò quello di tre o quattro sedute in due giorni distanti tra loro nella settimana. Tra le due sedute nello stesso giorno facciamo un intervallo di 5,10 o di 50 minuti, a seconda dei casi. La logica sottesa è: è meno peggio che due sedute soltanto. Anche questo lo ritengo tecnicamente ed eticamente giustificabile soltanto nei casi, quali sono, per esempio, spesso i miei pazienti che vengono in analisi dal Friuli, dove non hanno la possibilità di ricorrere ad un analista. La prima impressione è che la cosa funzioni discretamente bene. Saremmo comunque sempre nell’ambito delle “analisi più o meno parziali”, con l’intento, se possibile, di realizzare delle analisi vere e proprie.

Inoltre, sempre più spesso inizio delle analisi a due sedute settimanali, specie con tardoadolescenti (trai 20 e i 30 anni) e con persone che non hanno idea di cosa l’analisi sia. A volte ciò serve ad evitare una fuga precipitosa di chi si sente proporre qualcosa di così massivo e coinvolgente (come sono le 4 sedute), senza avere la minima idea di che cosa si tratti. O anche ad evitare che sia accettato come qualcosa di magico, cioè a lui totalmente misterioso, ma noto soltanto al mago potente che glielo propone. Preferisco, in questi casi, percorrere insieme una parte del percorso ed aggiungere lettino e sedute man mano che il lavoro fatto ne rende evidente la necessità, la funzione e l’utilità. Ciò consente ai pazienti di entrare progressivamente nella situazione analitica e nella dipendenza da qualcuno che, a quel punto, conoscono già un pò meglio, per cui non è più così problematico di lui fidarsi e a lui affidarsi. Non dimentichiamo che, se ci togliamo la maschera autoidealizzante, dobbiamo anche ammettere che certi pazienti, i quali, scoprendo di non fidarsi di qualcuno di noi analisti, fuggono dall’analisi, fanno a volte anche bene a scappare.

Con l’approccio descritto, ho ora quasi solo pazienti a tre o quattro sedute e, nella maggior parte dei casi, siamo arrivati a un tale assetto nell’arco di alcuni anni.

BIBLIOGRAFIA
Bonfiglio B. (1994) Gli aspetti intersoggettivi nel pensiero psicoanalitico da Ferenczi alle teorie costruttiviste. Atti del 10? Congresso Naz. S.P.I., Rimini, 6-10.10.1994.
Greenberg J.R., Mitchell A. (1983) Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica. Il Mulino, Bologna, 1986.
Hautmann G. (1979) La peculiarità della situazione analitica e la psicoterapia. Riv.Psicoanal., 25, 400-409.
Widlocher D. (1999) Psicoanalisi e psicoterapia. Riv.Psicoanal., 45, 71-83.
Zapparoli G.C. (1979) La paura e la noia. Il Saggiatore, Firenze, 1979.

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