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Cabré L.M. (2002). Férenczi, la clinica del trauma e i suoi sviluppi nella psicoanalisi contemporanea

Testo della relazione di Luis Martin Cabrè (Sabato 16 Novembre 2002 – Plesso Didattico “La Torretta, Dipartimento di Psicologia dell’Università di Firenze), che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autore

Nec ioco quidem mentiretur!
Alcune intuizioni di Ferenczi circa la natura e la funzione terapeutica dell’interpretazione psicoanalitica e la sua relazione con la verità psichica

“La scienza non è un ornamento linfatico, nè una semplice scacchiera, nè è inerzia nel lavoro: è la vita medesima che si rende conto di se stessa. E’, allo stesso tempo, la trasparenza dell’idea e il turbamento delle viscere” (Ortega e Gasset).
L’acuta affermazione di Ferenczi (1919) che sottolineava come “lo psicoanalista deve comportarsi al pari di Epaminonda di cui Cornelio Nepote affermava che neppure per scherzo avrebbe mentito” introduce una delle pietre miliari sia teoriche che etiche sulle quali si fonda l’edificio teorico della psicoanalisi.

Lo stesso Freud (1937), alcuni anni dopo la morte di Ferenczi, affermava che “la relazione analitica è fondata sull’amore della verità e non tollera finzioni nè inganni” (OSF, 11:531) e ancora con maggior convinzione esprimeva in una lettera a J. Putman di 1914 che “il grande elemento etico del lavoro psicoanalitico è la verità e ancora la verità”.
Allo stesso modo, analisti successivi come Yankelovich e Barret (1971), Meltzer (1967) o Bion (1970) hanno ulteriormente considerato che il nucleo fondamentale dell’ intero processo analitico e la finalità stessa del movimento psicoanalitico trovano radice nella ricerca della verità, o se si preferisce, della verità psichica, un compromesso questo che non può essere messo in discussione poichè questa espressione, d’accordo con A. Perez Sanchez (2001), “spiega l’ambito peculiare della psicoanalisi e cioè, il riconoscimento della realtà psichica dell’individuo”.

D’altra parte, nella psicoanalisi contemporanea, impegnata come è nella ricerca della verità, l’interpretazione, tra gli strumenti tecnici a disposizione dell’analista, continua a svolgere un ruolo prioritario sia come possibilità di accedere a una nuova conoscenza sia come possibilità di favorire il cambiamento psichico nel paziente. Essa, dunque, emergendo come conseguenza del dialogo tra i due protagonisti del trattamento, sembra essere l’elemento cardine per eccellenza del processo psicoanalitico.

Ciò nonostante, come psicoanalisti continuiamo a procedere chiedendoci quale sia la natura di questa conoscenza e in quale relazione sia con altre categorie del sapere e in particolare con la verità psichica. Quali sono i contenuti di quest’ultima con cui noi psicoanalisti lavoriamo? E ancora: fino a che punto l’interpretazione psicoanalitica ricostruisce una realtà già data, un ricordo infantile che il paziente ripropone inconsciamente nella relazione con l’analista o quanto, piuttosto, entrambi costituiscono nella loro interazione una nuova verità in uno spazio narrativo inedito facilitato dalla relazione analitica? Detto in altri termini, l’interpretazione si adopera a ricostruire il passato come tentava di fare Freud con “L’uomo dei lupi” o si limita al qui ed ora della relazione transferale? Esiste un passato ricostruibile l’interpretazione è solo esclusivamente una risultante che tiene conto della realtà psichica tanto del paziente quanto dell’analista in una relazione intersoggettiva nella quale, come afferma M. Baranger (1992), “entrambi i partecipanti si definiscono reciprocamente”. Nell’interpretazione si vuole accedere alla conoscenza o eseguire un lavoro creativo?

Continuando in queste riflessioni, tenterei di dimostrare come in alcuni dei suoi ultimi lavori Ferenczi abbia fornito una serie di risposte che ancora oggi hanno una certa validità. Come è accaduto per alcune delle sue piu’ geniali intuizioni, queste risposte sono state poco considerate o direttamente ignorate all’interno del movimento psicoanalitico.
A piu’ di cento anni dalla pubblicazione de “L’interpretazione dei sogni” (1899) la maggior parte di noi psicoanalisti è lontana dal sostenere l’originale impostazione di Freud che a quel tempo proponeva il concetto di interpretazione come un lavoro di decifrazione del materiale manifesto portato dal paziente: materiale manifesto che nascondeva messaggi enigmatici e sentimenti occulti e che l’analista doveva riuscire a svelare grazie alle sue capacità di identificare e di riconoscere le manifestazioni dell’inconscio. Lo stesso Freud si allontanò progressivamente dalla sua stessa impostazione iniziale la quale lo portava a ritenere che l’interpretazione fosse un lavoro di competenza esclusiva dell’analista.

Di fatto, nel luglio del 1926, Freud pubblicò un interessante lavoro intitolato “Il problema dell’analisi condotta da non medici” dove immaginava un dialogo con un interlocutore virtuale sulle peculiarità della psicoanalisi. In questo lavoro, affrontava il problema dell’interpretazione attribuendo a questo interlocutore un commento critico circa la natura e la funzione terapeutica della stessa. Freud, attraverso le parole di quest’ultimo dichiarava: “Interpretare! Che brutta parola!
Se tutto dipende dalla mia interpretazione, chi mi garantisce che interpreto correttamente? Tutto allora è affidato al mio arbitrio”. (OSF, 10: 386)
In effetti, Freud per certi versi sottolineava la fragilità del concetto di interpretazione in quanto affidato al mero arbitrio dell’analista. Oltre a ciò, con un interessante suggerimento, proponeva una nuova idea che introduceva il fattore soggettivo nell’interpretazione: “E’ molto questione di una certa sensibilità, per cosa dire di una certa finezza di orecchio per i processi inconsci E’ questione di tatto e con l’esperienza si può affinarlo assai” (OSF, 10: 386). Ancora una volta, questo passo evidenzia come uno dei concetti chetradizionalmente furono attribuiti a Ferenczi, come il concetto di “tatto”, concetto verso il quale in seguito, verranno rivolte le critiche piu’ impetuose e squalificanti, era stato anticipato dallo stesso Freud, prima che Ferenczi lo teorizzasse.

Infatti, meno di un anno dopo la pubblicazione del testo di Freud, di cui abbiamo precedentemente parlato, Ferenczi decise di affrontare alcuni problemi di tecnica analitica in un lavoro che intitolò “L’elasticità della tecnica psicoanalitica” e che presentò alla Società Psicoanalitica Ungherese. Una copia di tale lavoro venne mandato a Freud il 1° gennaio del 1928, accompagnata da una lettera nella quale Ferenczi gli porgeva i migliori auguri per il nuovo anno. Qualcosa deve aver suscitato l’interesse e la soddisfazione di Freud poichè, solo tre giorni dopo, il 4gennaio, gli scrisse:”il suo lavoro dimostra la maturità riflessiva che Lei ha raggiunto negli ultimi anni e che è impareggiabile I “Consigli ” sulla tecnica che proposi in quel momento erano soprattutto di carattere negativo. Io consideravo essenziale porre l’attenzione su ciò che non deve essere fatto e segnalare i pericoli che possono contrastare l’analisi. Tutto ciò che riguardava quegli aspetti tecnici di carattere positivo, li includevo nel concetto di tatto che Lei stesso ha introdotto. Ciò che ottenni fu che quelle persone piu’ acriticamente inclini a seguirmi si sottomisero a tali prescrizioni come se fossero dei tabu’. Era in via definitiva necessario rivedere tutto ciò” (1113 F).

Nella stessa lettera Freud, muove alcune obiezioni, ma è evidente un certo suo compiacimento. E questo appare giustificabile, perchè Ferenczi dimostra di possedere una solidità teorica e molta esperienza clinica. Come lo stesso Freud affermava, si era reso necessario un lavoro sulla tecnica psicoanalitica che non si occupasse unicamente di mostrare i pericoli da evitare oppure ciò che non andava fatto, come aveva suggerito in “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”(1912).
Occorreva indicare direttamente le qualità che sono necessarie in una attività delicata come il lavoro mentale dell’analista, in particolare il lavoro che porta all’interpretazione. Cercherò dunque di far emergere alcune idee che Ferenczi sviluppò a questo proposito, idee che dovrebbero riaprire un dibattito teorico ancora oggi attuale oltre che affascinante.

L’UMILTA’ DELL’ANALISTA
Uno dei punti sui quali Ferenczi (1927b) insiste con maggior ostinazione riguarda la relatività del sapere dell’analista, la necessità di poter tollerare controtransferalmente l’angoscia di non sapere come anche l’importanza di sapere di non sapere. Non si tratta solo di affermare che non esiste una tecnica psicoanalitica definita una volta per tutte, quanto piuttosto di evidenziare che ” niente è piu’ dannoso all’analisi che l’intervento cattedratico o anche soltanto autoritario del medico. Ogni nostra interpretazione deve avere carattere di proposta piuttosto che di affermazione, e questo non solo allo scopo di non irritare il paziente, ma proprio perchè noi ci possiamo effettivamente sbagliare”.

Benchè Ferenczi (1924) avesse già indicato anni addietro, in un lavoro scritto a quattro mani con Rank, i pericoli derivanti dall’ “eccesso di sapere dell’analista”, mettendolo in relazione con il “controtransfert narcisistico”, è nel lavoro sull'”Elasticità” che Ferenczi introduce l’importanza dell’umiltà come fattore tecnico essenziale e come fattore etico dello psicoanalista. Inizia a riflettere sulla pericolosità di alcune abitudini tecniche che possono riprodurre, a suo avviso, la situazione traumatica infantile del paziente; riformula quindi il concetto d’ interpretazione in un modo che rinnega l’idea dell’analista onniscente. Propone in definitiva un ascolto delle autorappresentazioni del paziente che, benchè inconsce, sono comunque presenti nel materiale che porta in seduta. L’analista deve abbandonare ogni tipo di atteggiamento superegoico ed ascoltare con umiltà il paziente. Bisogna in altre parole “sentire con lui” in modo empatico, i movimenti affettivi piu’ profondi che esprime.

Pensiamo solo, ad esempio, come questa idea sia stata ripresa da alcuni autori psicoanalitici successivi. In “Gioco e realtà” (1971), Winnicott segnala come l’analista debba cercare di nascondere il suo sapere e soprattutto evitare di ostentarlo. Solo nella misura in cui l’analista si dimostra umile potrà aiutare il paziente a far emergere il proprio sapere. “La creatività del paziente – afferma Winnicott – può essere in realtà facilmente rubata dal terapeuta che ne sa troppo” (p.107). Questa impostazione teorica equivale a dire che l’eccesso di sapere dell’analista causa nel paziente un effetto traumatico, nella misura in cui ostacola la sua capacità di rappresentare e simbolizzare i processi mentali in maniera autonoma.

D’altra parte, prendendo in considerazione anche riferimenti teorici molto lontani, come pure la tanto nota esortazione lacaniana di “lasciare il sapere in secondo piano” o l’idea dell’ “analista come luogo del supposto sapere”, Viderman in “Costruction de l’espace psychanalitique” (1974) propone una riflessione a favore di una concezione relativista della verità alla quale la psicoanalisi dovrebbe rifarsi, proteggendosi in tale modo da ogni dogmatica deriva teorica.
Ancora piu’ incisiva, se la si accetta, è la tesi sostenuta da Spence (1982) intorno alla verità narrativa. Questo autore, convinto dell’insuccesso del modello archeologico di Freud, difende l’idea, in fondo un pò nichilista, di una “interpretazione interminabile” diretta essenzialmente a produrre un qualcosa. Non si tratta di sapere se è vera o falsa, ciò che conta sono i suoi effetti. La verità dell’interpretazione si riferisce piu’ al presente e al futuro che al passato.

Queste idee erano presenti, o per lo meno erano abbozzate, nelle radicali teorizzazioni di Ferenczi sull’umiltà dell’analista che, diversamente da Freud, lo portavano a credere ai suoi pazienti, ai suoi “nevrotici”, e a confidare nella loro verità sino alle sue estreme conseguenze. Però a che cosa si riferiva in ultima analisi Ferenczi quando parlava di umiltà dell’analista? Quello che sembra certo è che la sua concezione trascende l’accezione religiosa del termine. Ferenczi propone la necessità di accettare i limiti del nostro sapere, che deve differenziarsi radicalmente dalla “abituale superbia che il medico onniscente e onnipotente utilizza” con i suoi pazienti.

L’umiltà dell’analista pertanto si basa fondamentalmente sul credere ai pazienti: anche questa idea del credere ai pazienti non va fraintesa: rimanda a un riconoscere e comprendere empaticamente i loro affetti, le loro paure, le loro sofferenze, i loro deliri. Per Ferenczi è importante che l’analista mantenga questo atteggiamento fino alle sue estreme conseguenze; deve, cioè, essere disposto a sacrificare le proprie teorie e le proprie convinzioni interpretative quando queste ultime non funzionano. E’ in questo modo che Ferenczi cerca di contrastare una volta di piu’ quello che aveva chiamato il “fanatismo interpretativo”.

Umiltà significa inoltre lasciare l’iniziativa al paziente e sapersi mettere da parte, accettando di mantenere la disposizione di chi è disposto a lasciarsi “costruire” “distruggere” e “annullare” dal paziente.Se l’analista rinuncia a pretendere di conoscere la realtà e si interessa piuttosto all’irrealtà della realtà psichica, potrà inmergersi nelle emozioni e fantasie del paziente. Acquisterà cosi’ tatto, capacità empatiche, capacità di “sentire con” (Einf hlung), di “mettersi nei panni di un altro”o come suggerisce Speziale-Bagliacca (1997), piu’ ferencziano alle volto di Ferenczi, la capacità d’un “attegiamento ricettivo-attivo” consistente nel “lasciare che l’altro entri dentro di te e ti parli”.

Certamente, nel processo analitico, la verità è la conseguenza di una “cooperazione testuale” e in particolare di un interminabile processo interpretativo nel quale si succedono messaggi e interpretazioni dell’analista e del paziente. L’interpretazione, secondo Ferenczi, è un processo intersoggettivo: tanto l’analista quanto il paziente interagiscono reciprocamente senza soluzione di continuità e il significato trasferale viene “creato” attraverso queste interazioni.

L’analista per esempio è bene che accetti le idee deliranti del paziente psicotico come se fossero vere e possibili. Ciò gli permette di addentrarsi con piu’ rigore nella sua realtà psichica, ma soprattutto, come afferma Antonelli (1997) di considerare che anche l’Io del paziente rappresenta una sua verità possibile. L’analista, provvisoriamente, deve cercare di non tener in alcun conto il problema della realtà materiale concentrando invece la propria attenzione sulla questione della verità del paziente, che rimane inscindibilmente intrecciata con la dinamica dell’interpretazione. Questa idea che avrebbe potuto portare Ferenczi al nichilismo, gli portò invece a intraprendere una profonda riflessione sull’importanza del contrptransfert dell’analista nella cura analitica. (Martin Cabrè, 1999).
E questa è, a mio parere, una questione fondamentale. La verità e l’interpretazione, intese secondo la prospettiva di Ferenczi, non sono un avvenimento mentale solipsistico, ma si verificano sul terreno della reciproca sintonia tra paziente e analista.

Come affermava Balint (1961), la terapia analitica “è essenziale che abbia senso sia per il paziente che per lo stesso analista”. Questa definizione di verità è essenziale per il nostro lavoro. Quanto accade nella relazione analitica, nel dialogo analitico, ci porta sempre a trovare elementi, sia nella comunicazione verbale che in quella non verbale del paziente, che permettano di capirne la sua vita psichica, partendo da una nuova prospettiva che appaia sensata per lui. Da questa angolazione il lavoro analitico consisterà dunque nella ricerca del senso come verità e nella ricerca della verità come senso. Questa è stata la linea di pensiero che è scaturita dalle prime innovazioni tecniche di Ferenczi e che si è poi sviluppata attraverso i contributi di Balint, Bion, Winnicot e M. Khan, tra gli altri.

LA PAZIENZA DELL’ANALISTA O IL PROBLEMA DELL’ “ANALISTA-PAZIENTE”
Un’altra delle grandi intuizioni teoriche di Ferenczi che ha stimolato e stimola tuttora in maniera considerevole il dibattito sull’interpretazione psicoanalitica, fa riferimento ad un’altra delle virtu’ che dovrebbero contraddistinguere l’attitudine e l’ascolto interpretativo dell’analista: la pazienza. L’analista deve avere pazienza, o se si preferisce, l’analista deve essere “paziente”.
Per quanto concerne questo argomento, il concetto cui si riferisce Ferenczi si rifà solo apparentemente ad una virtu’ etica: in realtà si tratta di una riflessione estremamente complessa, che questa dimensione la trascende.

Ferenczi (1927a) affronta in modo concreto il problema della “pazienza” in un lavoro contemporaneo al già menzionato sull”Elasticità”, dal titolo “Il problema del termine dell’analisi”. Ancora una volta l’attenzione al problema della verità porta Ferenczi verso una profonda riflessione sull’interpretazione psicoanalitica. In questo scritto egli affronta la questione partendo dal vertice opposto, ossia da quello dalla menzogna. Il suo quesito è il seguente: “Che bisogna fare quando la sintomatologia del paziente consiste proprio nel fatto di mentire?”.

Sembra che Ferenczi immaginasse un itinerario, o meglio, un percorso che, grazie all’analisi, permettesse di accedere alla dissoluzione definitiva della menzogna. Tutto ciò poteva accadere attraverso lo svilupparsi della nevrosi di transfert. Questa permette alla menzogna di essere collocata nell’analista e di metterla in relazione con quest’ultimo. Solo il completo dissolvimento di questo aspetto della nevrosi di transfert permetterebbe di concludere il percorso terapeutico.
Se ci soffermiamo per un momento sulle riflessioni di Ferenczi, notiamo che dietro la sua argomentazione tecnica e clinica, si delinea una domanda che investe direttamente il narcisismo dell’analista. Ciò che infatti costituisce una autentica sfida al suo narcisismo, non è la possibilità che il paziente screditi le sue interpretazioni o le contraddica, considerandole false e inadeguate, ma un’operazione mentale di carattere totalmente narcisistico, quale è la menzogna, che mette in discussione l’affidabilità dell’analista: i pazienti che mentono, infatti, “analizzano” l’analista; a volte con estrema abilità, e attraverso le sue parole, i suoi gesti o il suo silenzio, scoprono i segnali minimi dei suoi moti inconsci. L’analista, affermava Ferenczi (1927a), “deve sopportare questi tentativi di analisi senza mai farsi scappare la pazienza. Si tratta di un compito che esige uno sforzo quasi sovrumano, che però vale la pena di compiere”. In virtu’ di questa situazione, l’ “analista narcisista” sitrasforma in un “analista-paziente”. Però la fermezza di fronte a questo attacco generale del paziente impone come condizione preliminare “che l’analista abbia subito egli stesso una analisi completa”.

Alcuni anni piu’ tardi Bion (1970) affermò che colui che consapevolmente si produce in affermazioni false sa in realtà che sono false, le difende però a tutti i costi poichè esse rappresentano una barriera contro situazioni che lo condurrebbero verso uno stato di caos psichico e di emozioni intollerabili. Anche l’analista, nel suo lavoro con il paziente, deve rielaborare dentro di sè, i dubbi che gli si presentano, non solo rinvigorendo la solidità dei suoi riferimenti teorici, ma verificando soprattutto il fondamento delle sue incertezze. Non solo per noi analisti è di grande aiuto e utilità, in questi momenti, l’analisi del nostro controtransfert, ma è di assoluta necessità praticare la massima socratica di “sapere di non sapere “sospendendo, in tale modo, momentaneamente il nostro giudizio, o, come direbbe Bion, il nostro desiderio e la nostra memoria.

Attraverso questo lavoro interno dell’analista, il paziente, sebbene consapevolmente non sappia nulla, può sperimentare emotivamente ed introiettare un oggetto che, senza imposizioni e tollerando l’inevitabile attesa, lo accompagna nella ricerca di una verità da cui talvolta fa dipendere fantasticamente il destino della sua sofferenza psichica. Per giungere a questa situazione è assolutamente necessario, come affermava Ferenczi, che le parole dell’analista “risuonino” autentiche, “suonino vere” e questo risultato lo si può raggiungere solo attraverso il contatto consapevole con le emozioni che il paziente ci fa sentire e che ha bisogno di farci sentire. A sua volta, il racconto del paziente acquista un valore di “realtà” e soprattutto di “verità” solamente all’interno di questo dispositivo tanto speciale che è il “setting” analitico, dove il dialogo si trasforma in un discorso “vivo” e il sapere in una difesa dell’esistenza della vita, perchè qualcuno, ossia l’analista, ascolta e contiene le parole del paziente come se esse fossero verità. Sono convinto che in psicoanalisi il contenimento e l’interpretazione costituiscono un sistema unico. A volte l’analista si trova con pazienti gravi che rendono il clima intrisico di inautenticità perchè questi pazienti non hanno la speranza e la fiducia di incontrare persone capaci di contenerle. (Speziale-Bagliacca, 1997).

Come Ferenczi, anche Bion (1970) utilizza nelle sue teorie psicoanalitiche il concetto di “pazienza”, in relazione con la “sofferenza” e con la “tolleranza per la frustrazione”. Per Bion l’analista deve essere in grado di sopportare non solo situazioni di assoluta oscurità ed incomprensione rispetto al materiale offerto dal paziente, ma anche di angoscia persecutoria, caratteristica della posizione schizo-paranoide. Con un linguaggio differente, Ferenczi anticipa alcune delle ipotesi di Bion sottolineando come il fallimento terapeutico di molte analisi non è dovuto alle inaccessibili resistenze nè all’impenetrabile narcisismo del paziente quanto piuttosto alle difficoltà dell’analista, in particolare alla sua insensibilità e ai suoi errori di tatto e di empatia. Detto in altri tremini, l’analista nel suo lavoro si imbatte sovente non solo con la resistenza dell’analizzando che non desidera pervenire alla verità, ma anche con la sua propria barriera difensiva determinata dall’angoscia che questa ricerca determina in lui.

Per questo, quando parla della fine dell’analisi, Ferenczi si preoccupa anche della contemporanea fine dell’analisi dell’analista e delle sue ricadute sul controtranfert. Per Ferenczi, che ovviamente aveva già in mente l’analisi reciproca, l’analisi poteva dirsi terminata solo nel momento in cui anche quella dell’analista poteva dirsi tale. Nel porre l’attenzione sulla partecipazione emotiva del terapeuta al processo analitico e sulla grande importanza che acquista di conseguenza il controtransfert, Ferenczi (1927a) sottolineava, al pari, la centralità della persona dell’analista: in particolare egli sosteneva l’esigenza dell’analisi personale del terapeuta come strumento essenziale del lavoro analitico.

OLTRE L’INTERPRETAZIONE: ASPETTI CLINICI DEL TRAUMA E IL PROBLEMA DELLA COSTRUZIONE PSICOANALITICA.
Il problema della menzogna e delle conseguenti fantasie inconsce che debbono essere pazientemente smantellate conduce Ferenczi ad affrontare un’ulteriore problema: quello della costruzione-ricostruzione, che, oltre l’interpretazione, costituisce un’operazione psicoanalitica indispensabile per decostruire o smantellare la menzogna. “Un’analisi non può considerarsi ultimata – afferma Ferenczi (1929) – finchè non si sia pervenuti a individuare (ri-costruire) il materiale mmestico traumatico”.

L’impostazione di Ferenczi ad una prima lettura, sembra invitare all’ottimismo e a una certa utopia terapeutica. L’analisi, che deve finire per “esaurimento”, e che non è possibile considerare ultimata sino a quando non si pone fine alla confusione delle lingue e si crea un’atmosfera “benevola e non passionale”, non è un processo interminabile, diversamente da quanto dichiarerà successivamente Freud (1937a). La conclusione, dunque, del percorso analitico dipende dalla possibilità di arrivare ad una “ricostruzione” nella quale il reale rimane rigorosamente separato da ciò che è meramente fantasticato. Da questo punto di vista, la “ricostruzione” acquista il valore di antitesi, o se si preferisce, di decostruzione della menzogna. Per “distruggere” la menzogna Ferenczi modifica e mette in discussione alcuni principi della tecnica psicoanalitica classica.

Indubbiamente per Ferenczi il problema della fine dell’analisi non è separabile dalla concezione psicoanalitica del trauma, che proponeva l’eziologia traumatica quale risultato dell’irruzione inaspettata della passione di un adulto nel corpo e nella psiche di un bambino inmaturo, di una “confusione delle lingue” tra di loro e soprattutto del diniego da parte dell’adulto della disperazione del bambino. Ferenczi (1932) pensava che un processo analogo poteva verificarsi nell’ambito stesso della relazione analitica come risultato dell’intromisione forzata, della smania di interpretare di certi analisti e della sottomisione nevrotica di certi pazienti (Martin Cabrè, 1997, 2001). Questa concezione teorica sviluppata da Ferenczi nei suoi ultimi scritti produceva però importanti conseguenze sia sul piano clinico che su quello tecnico e poneva l’accento sugli stati estremi del dolore e d’angoscia della vita psichica.

Dalla sua prospettiva, il traumatico si trasforma in qualcosa di non inscritto nell’apparato psichico. La reazione al dolore riguarda l’ambito del non rappresentabile e del non accessibile alla memoria e al ricordo. Il traumatico dunque non può essere rimosso e non può esisterne il ricordo giacchè esso si situa fuori dallo spazio psichico della rappresentazione.
Ferenczi collocandosi, in tal modo, oltre l’inconscio e al di fuori del meccanismo della rimozione, si dedica a trovare nuovi strumenti tecnici che permettano all’analista di ascoltare un linguaggio differente nel quale i silenzi, le azioni e le dissociazioni o le frammentazioni del paziente risultano percepiti come “manifestazione” del trauma e non come sua rappresentazione. Il trauma, cioè, si “presenta”, non si “rappresenta” ed inoltre la sua presenza non appartiene a nessun presente, distruggendo persino il presente all’interno del quale si presenta. E’ un presente senza presenza, un presente folle, dove il soggetto esce dal tempo cercando di collocare la sua impossibile sofferenza in una piu’ ampia unità temporale.

Il trauma rimane fuori pertanto da una temporalità storica. A differenza del presente storico, che stabilisce una presenza e una identità, nel presente traumatico tutto si dissolve, non vi è nè soggetto, nè opposizione tra soggetto ed oggetto. Ciò che Ferenczi ci suggerisce è che qualcosa che ha a che fare con la morte, qualcosa di non rappresentabile nemmeno per Freud, è in gioco nella dinamica del trauma. Forse piu’ che alla morte che mette un limite, ciò che segnala Ferenczi è lo “star?morendo” continuamente, in un tempo dove nulla inizia.

Considerare che, nel lavoro analitico, sia in gioco qualcosa di diverso dal ricordo, implica introdurre una serie di interrogativi fondamentali circa la tecnica psicoanalitica e situare il problema della temporalità del trauma sotto una prospettiva clinica radicalmente nuova. Non si tratta, dunque, di una ripetizione di un passato che si presenta in un evento reale attuale. Come possiamo noi psicoanalisti comprendere e rivelare il tempo del trauma, se per sua natura non è rappresentabile? Come si può interpretare qualcosa che non è dell’ordine del rappresentabile? Da questa prospettiva l’analista non può contare unicamente sullo strumento dell’interpretazione per riuscire ad accedere a quei nuclei piu’ profondi del mondo interno del paziente e soprattutto per favorirne un mutamento psicologico che gli permetta di alleviare la sua sofferenza e disperazione. Apparentemente, Ferenczi pone l’analista in una posizione di ascolto impossibile e ai limiti, non solo dello psichico e del somatico, ma anche del pensabile.

Diversamente da Freud, per il quale l’azione deve lasciare spazio al ricordo, Ferenczi riteneva in “Le analisi infantili sugli adulti” (1931) che ” può tornare vantaggioso procurarsi del materiale attivo significativo al fine di trasformare poi questo materiale in ricordo”. Infatti egli riteneva che l’unico modo di interrompere per sempre la ripetizione infinita dei fatti traumatici fosse il poterli rivivere e sperimentare nella situazione analitica. Solo se il paziente “regredisce” e vive nuovamente, nello spazio analitico, quelle situazioni primitive dell’infanzia, l’analista potrà, di conseguenza, comprendere ciò che è necessario al paziente e identificare e ricostruire i traumi di cui ha sofferto. Proprio per questo, al fine di favorire la necessaria regressione del paziente, Ferenczi rinunciò ad un atteggiamento analitico esclusivamente interpretativo per assumerne uno maggiormente materno, convinto che il paziente in una situazione regressiva e con disturbi molto gravi non possa beneficiare delle sole parole dell’analista il quale si limita a interpretare, assumendo un atteggiamento freddo e distaccato.

Per Ferenczi non erano sufficienti le interpretazioni, era necessario piuttosto ricostruire, o se si preferisce “costruire”, l’esperienza traumatica nella relazione analitica. Paradossalmente, alcune di queste sue intuizioni cliniche, con le loro ripercussioni sulla tecnica analitica, se inizialmente lo allontanarono da Freud, col tempo furono occasione di un loro nuovo incontro teorico. Cinque anni dopo la morte di Ferenczi, Freud, mostrando di concordare con lui scrisse “Costruzioni in analisi”(1937b), un testo di una enorme complessità, che prospetta questioni teoriche di grande modernità e rilevanza e che partendo all’apparenza da un problema puramente tecnico e recuperando alcune delle intuizioni di Ferenczi, conclude riflettendo profondamente sulla verità. Nel descrivere come si sviluppa il lavoro dell’analista in relazione alla storia passata raccontata dal paziente, Freud (1937b) dichiara che il compito dell’analista è dover “scoprire, o per essere piu’ precisi, costruire il materiale dimenticato a partire dalle tracce che di esso sono rimaste… Il lavoro dell’analista è un lavoro di costruzione, o se si preferisce, di ricostruzione…”.

Attraverso questa frase molto ambigua Freud lasciava supporre che entrambi i concetti potessero essere equivalenti. Ciò nonostante, ritengo in accordo con Chianese (1998) che, per nulla di questo avviso, Freud considerasse molto attentamente la differenza sostanziale tra il costruire e il ricostruire. La conferma di questa la si trova in “Mosè e la religione monoteista” (1938) dove affronta questo argomento come un problema metodologico centrale.
Infatti, nonostante la descrizione di numerose analogie tra il lavoro archeologico e quello psicoanalitico, Freud dichiarò (1937b) anche che la differenza principale tra queste due discipline è che “mentre per l’archeologia la ricostruzione coincide con la meta ed è il termine di tutti gli sforzi, per l’analisi la costruzione è solo un lavoro preliminare”. Cioè, gli “scavi” dell’analista nell’inconscio del paziente o, se si preferisce, la “via di levare” che consentirebbe l’accesso alla coscienza del materiale rimosso e che in un particolare momento coincise con il metodo psicoanalitico, rappresenterebbero ora solo una parte del processo terapeutico, un lavoro preliminare.

Ciò che scopriamo esplorando, interpretando, ricostruendo e costruendo l’inconscio dei nostri pazienti ha il solo valore di ipotesi, non ha nessun vincolo con la verità storica ed è unicamente una congettura in attesa di una “verifica, conferma o confutazione” da parte del paziente. Da questo punto di vista, quest’ultimo si trasforma in qualcuno che continuamente interferisce con le competenze dell’analista, obbligandolo a rimodulare ogni volta le sue considerazioni.
A parer mio, questo punto è particolarmente interessante perchè permette di provare la vicinanza di alcune concezioni di Freud con il pensiero di Ferenczi.
Certamente Ferenczi affermava in “Il problema del termine dell’analisi”(1927) cosi’ come successivamente Freud in “Costruzioni nell’analisi”, che nella ricostruzione o nella costruzione dell’analista non è la memoria il problema fondamentale tanto che è anche possibile che, durante tutto il percorso analitico, non si possa accedere al ricordo traumatico del paziente. Al contrario, però, se l’analisi è stata condotta correttamente, otteniamo una sicura convinzione dell’esattezza della costruzione, e questa “convinzione”, questa “certezza” come dirà Bion, equivale all’effetto che produce il recupero del ricordo. La teoria di Ferenczi come quella di Freud sostiene che la “costruzione” che ottiene l’analista è una “verità nuova”, benchè certamente questi ricordi non si formino nel “vuoto”.

Questa idea non è del tutto nuova. Già nel 1899, in “Ricordi di copertura”, Freud affermava con una straordinaria intuizione clinica che i ricordi infantili non emergono da una sottostante matrice ben definita, con aspetti cognitivi e affettivi, come si è soliti dire, quanto piuttosto si formano attraverso una serie di motivi estranei al benchè minimo proposito di fedeltà storica. Aggiungeva inoltre che andrebbe perfino messo in dubbio se abbiamo ricordi coscienti provenienti dall’infanzia o non piuttosto ricordi costruiti sull’infanzia. Pensiamo, per esempio, alla concezione di Bion sulla “narrazione come trasformazione”, alla tesi di Spence (1982), ad esempio, che afferma come le “costruzioni psicoanalitiche siano narrazioni che si producono solo in uno spazio interattivo” e molti lavori neurofisiologici e neuropsicologici contemporanei rispetto alla concezione della memoria come costruzione e non come archivio. Su questa stessa linea di pensiero, ma da una prospettiva rigorosamente freudiana, S. Viderman (1970) ritiene che non si incontra nella cura la verità storica fino a quando non la si costruisce nel processo terapeutico stesso e A.Green (1975) dichiara che l’analista costruisce un significato he non è mai stato creato prima che la relazione analitica cominciasse.

Per concludere, riprendendo nuovamente alcune delle idee di Ferenczi che ho tentato di mostrare in questo lavoro, vorrei porre l’attenzione sul fatto che il lavoro dell’analista, attraverso sia interpretazioni che costruzioni, realizza un compito di costruzione. Ma costruire, smantellare, disannodare (Lò6;sung) come afferma Laplanche (1992), non significa distruggere quanto piuttosto creare una possibilità perchè si possa produrre una modificazione entro gli elementi della struttura psichica, perchè possa nascere qualcosa di nuovo e perchè possa prodursi un cambiamento psichico. Bisogna distessere perchè si tessa una nuova trama, disannodare per poter fare nodi nuovi. Dalla prospettiva teorica proposta da Ferenczi, l’analisi fornisce una possibilità affinchè qualcosa di nuovo si origini nel paziente, nell’analista e nella relazione tra i due. Il transfert e il controtransfert non sono una mera ripetizione bensi’ l’incontro con un altro nuovo che permetta la riattualizzazione di un’esperienza che rinvia al suo passato. Nel processo analitico, il nuovo e il vecchio si mescolano e si condensano tra loro, permettendo alle interpretazioni e alle costruzioni dell’analista di favorire lo svolgimento dell’analisi.

Desidero concludere questo contributo facendo mie le parole di Piera Aulagnier (1986) quando dichiarava in accordo perfetto con lo spirito ferencziano, che “il desiderio di sapere e il desiderio di alleviare la sofferenza psichica del paziente unificano il progetto dell’analista e del paziente nella misura in cui questi, la maggior parte delle volte, ci chieda un sapere e ci sollecita una verità che non rappresenta un bene intellettuale, ma un sapere che gli permetta semplicemente di poter continuare a vivere”.

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