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Ferruta A. (2017), Winnicott come scienziato e come artista

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Testo della relazione presentata al convegno “Integrazione e spazio clinico: Winnicott oggi”.  Prato 23 settembre 2017, che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autrice.

 

Abstract

L’interesse per le aree primitive della mente ha accompagnato Winnicott lungo il corso di tutta la sua ricerca clinica e teorica: la sua attenzione si concentra sugli aspetti della psiche che presentano sempre potenzialità di sviluppo, nel bambino piccolo come nello psicotico. L’incontro con un’alterità non annientante e capace di entrare in contatto  mette in moto capacità creative di crescita psichica. ‘My latest brain-child’ è un’espressione che si riferisce sia all’inesauribile spirito di ricerca sul funzionamento psichico relazionale, sia alla qualità di ‘non finito’ della costruzione teorica di Winnicott.

 

Introduzione 

Nel saggio letto alla British Psychoanalytical Society nel 1954 e pubblicato sull’International Journal of Psychoanalysis nel 1955 ‘Gli aspetti metapsicologici e clinici della regressione  nell’ambito della situazione analitica’, Winnicott afferma:

“L’idea che la psicoanalisi sia un’arte deve gradualmente cedere il posto ad uno studio dell’adattamento dell’ambiente in rapporto alle regressioni dei pazienti. Ma, finché lo studio scientifico dell’adattamento non si sarà sufficientemente sviluppato, suppongo che gli analisti dovranno continuare a lavorare da artisti. Un analista potrà essere un buon artista, ma, mi sono spesso chiesto, qual è il paziente che vuol essere la poesia o il dipinto di un’altra persona?

So per esperienza che qualcuno dirà: tutto ciò conduce a una teoria che ignora i primi stadi di sviluppo dell’individuo e che attribuisce il primo sviluppo a fattori ambientali. Ciò è del tutto inesatto. Nelle prime fasi dello sviluppo dell’essere umano l’ambiente che si comporta sufficientemente bene (il cui adattamento attivo è cioè sufficiente) rende possibile la crescita personale. I processi del Sé possono restare attivi, lungo una linea ininterrotta di crescita vitale.”(Winnicott, 1954, 347).

Nel 1965 in un saggio scritto per la British Pychoanalytical Society, ‘Psicologia della follia. Un contributo alla psicoanalisi’, scrive: “Trentacinque anni di pratica psicoanalitica non possono non lasciare il segno. Per quanto mi riguarda, sono intervenuti notevoli cambiamenti nelle mie formulazioni teoriche, cambiamenti che ho tentato di enunciare appena mi si sono chiariti in mente. Spesso quello che ho scoperto era già stato scoperto e perfino esplicitato sia dallo stesso Freud che da altri psicoanalisti o poeti e filosofi. Questo non mi ha distolto dal continuare a scrivere – e a leggere, quando è disponibile un pubblico- le mie ultime creature intellettuali (my latest brain-child). “(Winnicott, 1965, 139).

In queste parole è contenuto il più significativo lascito di Winnicott alla psicoanalisi futura: la teoria della mente del soggetto in continuo divenire a contatto con l’altro, lungo il percorso della vita, dalle prime origini, al momento del congedo. Questa intuizione ha trovato importanti conferme dagli elementi emersi nelle ricerche sulle prime fasi di vita del bambino, come anche dalle esplorazioni del trattamento psicoanalitico nel territorio degli stati limite e delle psicosi come pure nell’approccio alle situazioni traumatiche.

La sua concezione della psicoanalisi è orientata a individuare i contesti ambientali e di cura nei quali la vita psichica del soggetto si riprende e si organizza secondo assetti di funzionamento nuovi; ne mostra la plasticità, le potenzialità di continua riorganizzazione e la presenza di funzionamenti non linearmente evolutivi, ma trasformativi delle esperienze in ogni fase della vita.

Winnicott era consapevole che la teoria psicoanalitica avrebbe tratto notevoli sviluppi dai suoi approfondimenti clinici sulle prime fasi di vita della coppia madre-bambino e dalle analisi con pazienti borderline. Darwin e Freud erano i due fari che lo hanno illuminato nell’intraprendere la strada dello studio scientifico del vivente.

Questa fondazione biologica e relazionale dello sviluppo dell’essere umano costituisce il nucleo fondativo e fecondante del suo pensiero, raccolto in Italia in particolare da Eugenio e Renata Gaddini a cui dobbiamo riconoscere lo straordinario merito di averlo intuito e fatto conoscere.

Winnicott non intende disarticolare la sua teoria del funzionamento psichico da quello che egli indica come lo psiche-soma, l’esperienza sensoriale da cui prende forma la mente: “Date le condizioni ambientali necessarie, l’intelletto è una parte specializzata dell’organizzazione generale dell’integrazione di psiche e soma del bambino. Come tale non esiste separatamente ma è l’elaborazione immaginativa delle parti somatiche, dei sentimenti e delle funzioni, cioè della vita fisica.” (Winnicott, 1949, 292-293).

 

Crescita psichica continuamente riorganizzantesi a contatto con un’altra mente

Winnicott è interessato alle condizioni che consentono al bambino di divenire un essere umano, e alle strutture psichiche di trasformarsi con nuove connessioni, e non semplicemente di evolvere in modo lineare dall’immaturità alla maturità genitale. La plasticità e crescita della psiche procedono dalle origini (Home is where we start from, 1986) a tutto il corso della vita, nell’incontro con  oggetti mortificanti e vivificanti, nei lutti e nelle continue conquiste di nuovi territori alla vita psichica del soggetto: “Development is my special line of country” (This Feminism, 1964 a).

Winnicott è interessato ad approfondire questa tematica della sostanziale unità dinamica ed evolutiva non lineare del soggetto umano, una dimensione alla quale lo aveva introdotto la lettura di Darwin da cui era stato  folgorato quando era giovane studente a Cambridge: uno scienziato che si occupava del vivente in continua trasformazione, interessato allo scambio tra individui dotati di autorganizzazione e l’ambiente.

Il concetto di holding prende forma in questo contesto come esperienza fornita dalla madre nei primi tempi di vita e dall’analista in certe fasi dell’analisi tramite la capacità di tenere insieme aspetti non integrati, di rendere possibili esperienze emotive dissociate, di attraversare il non conosciuto del timore del crollo (Winnicott, 1963) potendo fruire della tenuta di qualcuno che tiene insieme con le braccia della mente e permette di fare esperienze di sé in relazione con l’altro mantenendo la continuità dell’essere nel tempo.

Da questo punto di vista, l’influenza del modo di pensare la crescita psichica da parte di Winnicott è stata diffusa e vasta. La psicoanalisi degli ultimi trent’anni  si è sempre più orientata a configurarsi come una teoria dei funzionamenti psichici, della loro fisiologia e plasticità.

La comunicazione affettiva inconscia tra i due soggetti, dalle prime relazioni tra madre e bambino fino alle vicissitudini più complesse della relazione analitica, costituisce un tessuto di formazione e trasformazione dello psichismo (Schore 2003, Gallese 2014, Bromberg 2011). Secondo le ricerche di Edelmann (1987) sul darwinismo neurale possiamo affermare che un funzionamento psichico attivo è presente sin dall’inizio nel neonato, che si va strutturando in relazione agli incontri che ne confermano o disattendono l’attività mentale: “La qualità delle cure materne, la rêverie (Bion), i significanti enigmatici (Laplanche) trovano un filtro trasformante che è già là all’origine e che, a sua volta, si trasforma. I primi artefici della vita psichica sono le mappe di memoria della motricità e della somatosensorialità. Esse contribuiscono a fondare la progressiva trasformazione del funzionamento psichico. Il riconoscimento al neonato di un certo grado di “azione specifica o adeguata”, e quindi di una sua minore Motorische Hilflosigkeit, implica una diversa visione, molto più in movimento, della sua Psychische Hilflosigkeit, del suo stato d’impotenza psichica.” (Monniello,  2014, p.658-659).

Winnicott ritiene che l’analisi possa essere il trattamento appropriato per rivivere con il paziente gli stati emozionali di breakdown, che per essere sperimentati psichicamente necessitavano di un ambiente che consentisse una dipendenza assoluta. Per quanto riguarda la psicosi, pensa sia una forma di difesa da agonie primarie: “La base di tutto l’apprendimento (così come del mangiare) è il vuoto. Ma se il vuoto non viene sperimentato così come fu all’inizio, si converte in uno stato di terrore, anche se viene cercato compulsivamente. La ricerca di una non-esistenza personale può essere vista nello stesso modo. Può avvenire che la non-esistenza, in questo caso, faccia parte di una difesa; l’esistenza personale è rappresentata dagli elementi proiettivi e la persona tenta di proiettare ogni cosa che potrebbe essere personale.” (Winnicott, 1963, 113).

L’originalità del pensiero di Winnicott consiste nella radicalità euristica con cui descrive la formazione degli stati di non integrazione nel bambino e la possibilità di procedere sin dall’inizio a un’integrazione psicoemotiva e psicosomatica grazie all’interazione con un ambiente che gli permetta di sperimentare la propria onnipotenza e di sentirsi radicato senza riserve nei suoi vissuti personali.

Questa dimensione così profondamente winnicottiana ha contribuito a ispirare la psicoanalisi relazionale, nella quale l’incontro con l’oggetto è un’esperienza di espansione del sé. Per Bollas, (da L’ombra dell’oggetto, 1987 a Essere un carattere 1992 a Cracking up 1995), l’incontro con gli oggetti è un’occasione di rinascita continua. Così pure per Mitchell (1988) e i relazionali statunitensi, che mettono in evidenza il carattere trasformativo e di crescita del processo psicoanalitico, che crea connessioni tra esperienze traumatiche e potenzialità di sviluppo in relazione. Anche la psicoanalisi italiana da questa prospettiva è stata ampiamente influenzata, cogliendo nella relazione un elemento di crescita psichica (Gaddini 1989, Nissim 2001, Di Chiara 1985, Ferro 2007,  Bonaminio 2004).

Winnicott ha sempre evidenziato nella matrice relazionale all’origine della vita psichica l’elemento del divenire, che ritroviamo in tutto il corso delle esplorazioni della psicoanalisi degli ultimi 50 anni, da Edward Tronick (2007) con il bambino making sense, creatore del mondo, a Anna Alvarez (2012) con la sottolineatura delle funzioni di agency del bambino stesso.

Questa dimensione intrinsecamente creativa del soggetto, continuamente in trasformazione, non chiuso in uno schema concettuale definitivo e performativo, risuona in numerosi saggi di uno dei pensatori contemporanei più creativi e interessanti, Ogden, che ha fatto un’analisi della traccia di tale concezione nel linguaggio usato da Winnicott nel descrivere il funzionamento psichico. Ogden (2001) osserva che, in contrasto con il linguaggio freudiano basato sui nomi, come preconscio, conscio, inconscio, rimozione, ecc., “Winnicott’s language  seems to be  all verb: ‘feeling something’, ‘getting to  know their dreams’, ‘screaming’, ‘possessed’, and so on. “ (313) (Il linguaggio di Winnicott sembra essere tutto verbo: “sentire qualcosa”, “arrivare a conoscere i loro sogni”, “gridare”, “posseduto”, ecc.). L’uso dei verbi sembra indicare il fatto che egli si sta occupando di processi di trasformazione, di lavoro psichico, di un percorso che transita tra la realtà interna e la realtà esterna, per produrre fenomeni transizionali come espressione della creatività personale del soggetto, sempre mantenendo la continuità dell’essere nel tempo.

 

La qualità degli oggetti e il lavoro psichico del soggetto

La concezione del percorso analitico come processo in cui un individuo diventa se stesso (Sum, io sono, 1969) si è via via espansa, a scapito di altre visioni del percorso analitico, concepito come un’indagine alla ricerca delle rappresentazioni rimosse o degli eventi traumatici o di ricostruzioni narrative all’insegna dell’anyting goes. Winnicott è interessato al divenire soggetto dell’individuo, nel transito tra mondo esterno e mondo interno.

I processi di soggettivazione nell’accezione di Winnicott comportano la valorizzazione degli oggetti incontrati per la costruzione di sé, ma al tempo stesso del lavoro psichico operato dal soggetto che in qualche misura li depone dal loro trono rappresentativo e vi si insedia al loro posto, utilizzandone gli attributi scelti per la costruzione di sé. Questo percorso di soggettivazione dà valore alle qualità intrinseche degli oggetti, che non si dissolvono nella astrazione di una simbolizzazione disincarnata, ma al tempo stesso non lo assoggettano a una dipendenza interminabile da coloro che si sono resi disponibili a essere usati, a cominciare dall’analista.

Il processo di soggettivazione non può intervenire che in uno spazio intersoggettivo, in luoghi che il soggetto non ha costruito ma che ha trovato e che gli sono stati trasmessi, a cominciare dal linguaggio. Muoversi verso l’altro, con il corpo e con la parola, con il desiderio. Si tratta di muoversi in uno spazio plurale e coesivo come matrice intersoggettiva della soggettivazione. E’ importante il tragitto, le trajet, il come si arriva all’oggetto, osserva Green (2005): “Il viaggio esprime la qualità dinamica dell’esperienza, implicando un movimento nello spazio, legato al tempo. Oserei dire che Winnicott sviluppa qui una alternativa alla teoria freudiana della pulsione che ingloba la stessa  dimensione dinamica e lo stesso cambiamento nello spazio nel percorso dalla fonte all’oggetto. Ricordiamoci, lo spazio transizionale non è semplicemente ‘tra due’; è uno spazio in cui il futuro oggetto è in transito, transito al termine del quale prende possesso di un oggetto, creato nella prossimità di un oggetto esterno reale, prima di averlo raggiunto.” (Green, 2005, 22). (Trad. mia). Quello che occorre è  un percorso, uno spazio-tempo nel quale il soggetto può divenire quello che non sapeva di poter diventare. L’imprigionamento del soggetto all’interno del suo solitario psichismo, o nelle gabbie di una realtà esterna che richiede sottomissione, viene evaso attraverso un lavoro psichico che produce una realtà nuova, frutto della creatività del soggetto che utilizza del materiale che riconosce collocato fuori di sé per creare qualcosa di personale: così il soggetto prende forma e diviene. La relazione non è utilizzata per mettere in evidenza le qualità elaborative e immaginative dell’oggetto, ma per favorire e rafforzare l’indipendenza del soggetto che tramite la relazione raggiunge un patrimonio di esperienze primarie da cui ripartire per lo sviluppo.

“If time is allowed for maturational processes, then the infant becomes able to be destructive and becomes able to hate and to kick and to scream instead of magically annihilating that world. In this way actual aggression is seen to be an achievement. As compared with magical destruction, aggressive ideas and behaviour take on a positive value, and hate becomes a sign of civilization, when we keep in mind the whole process of the emotional development of the individual, and especially the earliest stages.” (Winnicott D.W. (1964b). Roots of Aggression. In: The Child, the Family and the Outside World. London: Penguin, p. 93. )

“Se viene dato tempo per il processo di maturazione, allora il bambino diviene capace di essere distruttivo e in grado di odiare e prendere a calci e gridare invece di annullare magicamente quel mondo. In questo senso l’aggressione in atto può essere vista come una conquista. Se paragonati alla distruzione magica, le idee e il comportamento aggressivo assumono un valore positivo, e odiare diventa un segno di civilizzazione, se teniamo in mente l’intero processo dello sviluppo evolutivo dell’individuo, e specialmente gli stadi primitivi” (Winnicott, 1964, b, traduzione mia)

Questo aspetto della teorizzazione winnicottiana valorizza la funzione dell’uso dell’oggetto per la costruzione di un senso sé, per arrivare alla capacità di sentirsi esistente e pronunciare un forte I am. Winnicott parla dell’insulto che la realtà esterna rappresenta per il soggetto, quando richiede sottomissione, spegne la spontaneità, la creatività e lo stesso senso del reale (Ferruta, 2003).

Nel pensiero di Winnicott, accanto a questa profonda consapevolezza della necessità per la crescita psichica della disponibilità di un oggetto con cui essere in relazione, si colloca la riflessione sull’importanza di avere esperienze di incontro con un’alterità, con oggetti non-me che per le sensazioni e emozioni che suscitano, possano essere soggettivizzate. L’area transizionale è un’area di passaggio tra ciò che è percepito e ciò che è simbolizzato, nella quale quello che è importante è la dimensione di un’esperienza sensoriale che alimenta la soggettività. L’oggetto è importante, in quest’area, per le sue caratteristiche percettive e il soggetto per il suo lavoro trasformativo di sé come creatore dell’esperienza.

Nel volume Jouer avec Winnicott Green (2005) afferma che la psiche è una struttura di intermediazione tra organismo e ambiente: le funzioni oggettualizzante e disoggettualizzante  rappresentano questo continuo movimento tra la creazione di oggetti e l’allontanamento da questi, fino all’autosparizione. In questo senso acquisisce pienamente il concetto del percorso, del lavoro psichico inteso non come insight puntuale ma come costruzione della realtà psichica attraverso un processo di simbolizzazione che comporta un tragitto tra mondo interno e  mondo esterno:

“Il sogno non è solo il tentativo di realizzare un desiderio (anche se prendiamo la  formulazione più semplice sul sogno). Possiamo considerarlo non solo come la vittoria su un ostacolo che non è stato possibile superare nella realtà, ma anche come un esempio del negativo, che ci introduce  all’idea che il negativo è un lavoro, non uno stato.”(69)

E’ qui che ci viene in soccorso, per far fronte a questa contraddizione relativa alla presenza/assenza dell’oggetto nella vita mentale del soggetto, il concetto di integrità degli oggetti di Bollas (2009). Le esperienze emozionali sono legate agli oggetti che le mettono in moto. Secondo Bollas, costruiamo il nostro idioma mediante l’intelligenza delle forme, configurando la nostra vita mediante la scelta di oggetti che hanno una compiutezza.

L’integrità di un oggetto ha il potenziale di avviare processi evocativi. Gli oggetti hanno una loro struttura e bellezza che va rispettata, e proprio perché hanno questa integrità che li rende vivi e pulsanti possono rendersi disponibili all’incontro con altri oggetti fonte di emozioni. Accadono allora i processi di decostruzione, le configurazioni precedentemente costruite si dissolvono e si producono nuove forme con una loro rinnovata integrità e compiutezza. Questo processo costruttivo-decostruttivo-costruttivo (Bollas, 1995) è sano e vitale proprio perché ci muoviamo nel campo di incontri tra oggetti, persone, configurazioni che hanno una loro struttura che li tiene insieme. Questa integrità degli oggetti la possiedono anche le configurazioni astratte, anche il dripping di Pollock, o i disegni di una forma nascente di Klee, in quanto prodotte da un organismo vivente, integro, l’autore. Funzionano come oggetti evocativi che attivano i processi di soggettivazione quelle storie, disegni, musiche, che hanno una loro integrità di funzionamento unitario dinamico vitale e che per questo possono essere usate per processi di ricreazione da parte del soggetto, che assimila e riorganizza continuamente anche la struttura delle nuove esperienze. L’oggetto non è solo un contenitore delle proiezioni del soggetto, ma ha una sua struttura distinta, una sua compiutezza che lo rende una unità dinamica e funzionale: quando il soggetto lo utilizza per elaborare e articolare il sé entra in contatto con la compiutezza dell’oggetto che ha una sua autonomia di vita, quella che indichiamo come ‘bellezza’ e che non ha più bisogno dell’intervento dell’altro per esistere. Come l’opera d’arte che continua a vivere, separata dall’autore. Inizia così un percorso verso la creazione di una propria nuova compiutezza, la rappresentazione di un sé che funziona con una coesione sufficiente alla sopravvivenza dell’individuo in un mondo condiviso, con una bellezza che ne costituisce la coesione comunicante e autonoma.

Le tecniche costruttive-narrative sono storie che raccontiamo con i pazienti, formate dalle interpretazioni nelle sedute di analisi, che posticipano il momento dell’assenza e del vuoto. Lo spazio vuoto da costruzioni significanti, costituito da un contesto relazionale solido e rinnovabile, può dare vita al divenire di nuovi oggetti integri, frutto di questi incontri. La tecnica analitica consiste nella capacità condivisa di disegnare un quadro solido e mutevole, disponibile a diventare molte storie. Una teoria psicodinamica della soggettivazione (Bollas, 2009) permette di avere una base sicura (Balint, 1967) e al tempo stesso di trasformarla continuamente a seconda del contesto interno/esterno.

Convivono così la possibilità in analisi di farsi usare dal paziente per la costruzione del suo sé e la disponibilità a funzionare come l’oggetto vivo che apre la strada all’incontro con oggetti non-me con la loro forza attrattiva percettivo-sensoriale che, non intrusivi e non alienanti, ma dotati di un significato a loro conferito dal soggetto, entrano a far parte del suo mondo interiore. Quello che occorre è ampliare il contenitore mentale per ospitare una pluralità dinamica in relazione e istituire quel dialogo interiore permanente tra tanti stati del sé in attesa di poterli esprimere, lasciandone talvolta alcuni silenti.

 

Per concludere

Forse non è stato sufficientemente assimilato l’interesse di Winnicott a promuovere il percorso del soggetto umano dalla dipendenza sprovveduta alla dipendenza relativa all’indipendenza, come percorso di costruzione di sé in relazione con l’altro, senza perderlo, senza smarrirne le tracce percettive sensoriali e la dimensione di alterità. Spesso il pensiero psicoanalitico si è orientato maggiormente o verso l’idealizzazione della dipendenza o verso una forma di indipendenza affidata a un pensiero immerso in un simbolico disincarnato. Molti anni di pratica psicoanalitica non sono ancora riusciti a dissipare la paura della dipendenza e a fare approdare i soggetti alla spiaggia di mondi senza fine dove i bambini giocano con l’acqua, secondo i versi di Tagore contenuti nell’esergo del lavoro ‘La sede dell’esperienza culturale’ in Gioco e realtà (1971). La dipendenza fa ancora paura: più che essere vissuta, attraversata, e poi lasciata per godere di una condizione di libertà anche in presenza dell’altro, viene evitata.

  

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Anna Ferruta  Psicoanalista  Società Psicoanalitica Italiana  a.ferruta@libero.it

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