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Morselli C. (2010). L’interpretazione e il lavoro con i bambini – Cinzia Morselli

Seminario di Formazione Psicoanalitica – Firenze, La Colombaria, 20 febbraio 2010

L’interpretazione

L’interpretazione è stato fin dall’inizio della psicoanalisi uno dei momenti chiave del lavoro clinico, di questa nuova cura a cui Freud diede il nome di “cura con le parole”.

Nel corso del tempo il senso, il modo dell’interpretare si è modificato. Il senso che Freud dava all’interpretazione era il disvelamento del mondo inconscio, delle forze e delle pulsioni in esso agenti. Ma già fin da allora Freud metteva in guardia gli analisti dal dare interpretazioni, soprattutto in una fase iniziale, troppo affrettate e “saccenti” che avrebbe potuto provocare non solo l’interruzione dell’analisi, ma anche una cattiva fama per essa. C’è bisogno di costruire un rapporto di fiducia, continua sempre Freud, il paziente deve sapere che dall’analisi riceverà cose buone prima di potersi addentrare all’interno delle aree più delicate e profonde. “Anche in stadi ulteriori del trattamento si dovrà usare prudenza, al fine di non comunicare la soluzione di un sintomo o la traduzione di un desiderio prima che il paziente non si trovi talmente vicino da dover fare soltanto un breve passo ancora per impadronirsene egli stesso” (Freud, 1911)

Possiamo qui osservare come non solo ci sia già l’attenzione al paziente, al dove è per stargli accanto e non anticiparlo troppo, ma vi sia anche l’indicazione di come l’analisi sia un processo a due.

Facendo un salto di circa 50 anni, arriviamo a Winnicott quando nel 1968 sostiene che la regola fondamentale per l’interpretazione è che “… stiamo usando le parole e che il materiale fornito dal paziente viene verbalizzato”. C’è l’idea che l’analista usi le parole del paziente in modo che sia l’intera personalità del paziente stesso ad ascoltare ciò che forse solo una parte di essa aveva espresso. Dà inoltre delle coordinate legate al tempo, all’hic et nunc della seduta ed al transfert, che è lo strumento che lo psicoanalista ha a propria disposizione per poter calibrare il fino a dove spingersi in modo da non suscitare il senso della sfida nel paziente.

Sia il “saccente” di Freud che l’idea di “non suscitare la sfida” di Winnicott sembrano mettere in evidenza una preoccupazione di contenere, modulare, cercare di gestire quello che è una posizione di potere da parte dell’analista, che si pone come colui che sa.

Bion, in quegli stessi anni, stava elaborando la sua teoria: nel 1963 in “Elementi della psicoanalisi” ritiene che una interpretazione perché possa essere sufficiente, debba illuminare un oggetto, sia per l’analista che per il paziente secondo tre dimensioni che sono: estensione nel campo del senso, del mito e della passione.

Meltzer (1986) nel descrivere l’impatto delle idee di Bion sulla psicoanalisi, indica una diminuzione sia dell’importanza dell’esattezza che dell’urgenza dell’interpretazione a favore dell’interazione, del rapporto, dal quale le idee interpretative emergono. Il compito dell’analista diventa allora quello di gettare una luce di comprensione da un vertice all’altro: questo tra l’altro comporta una diminuzione delle aspettative autoritarie del paziente e permette di condividere la responsabilità tra entrambi i membri del gruppo al lavoro.

Si assiste in questo modo ad un passaggio dell’analisi verso una dimensione meno autoritaria, per così dire, in cui l’analista presiede ad un processo che porta dalla malattia alla sanità, un’analisi che diventa più dialogica in cui quello che conta non è quanto può fare l’analista o l’analizzando, ma quanto può fare la coppia (Bion 1983)

Ma come si forma l’interpretazione? L. Nissim Momigliano (1974) non solo si pone la domanda ma cerca di dare una risposta. Passa così in rassegna quelli che a suo avviso sono gli elementi che contribuiscono al suo nascere. Con Corrao (1970) esplora l’idea che gli elementi che hanno prodotto l’interpretazione provengano da entrambi i due co-attori primari e paritetici; con Bleger l’importanza del setting e della sua funzione che è assimilabile alla simbiosi per lo sviluppo dell’io del bambino. Descrive poi altri concetti come l’attenzione fluttuante: un va e vieni costante tra analista ed analizzando, tra partecipazione emotiva ed osservazione razionale che rimanda ad una dissociazione dell’Io dell’analista in un “Io razionale, analizzante, osservante” ed un “Io irrazionale, esplorante, sperimentante”. Al termine di questa disamina l’autrice conclude affermando che il compito dell’analista consisterebbe nel contenere, modificare e restituire al paziente, introiettivamente, gli oggetti riparati e le parti di sé finora scisse ed allontanate, rese più accettabili. E’, in buona sostanza, la revérie di Bion.

Successivamente l’autrice (1984) riprende l’argomento da un altro vertice, questa volta osservando il processo che si svolge tra “Due persone che parlano in una stanza”. Qui pone l’accento sul paziente, miglior collega dell’analista, le cui libere associazioni possono essere intese anche come un messaggio per l’analista nell’attualità della loro relazione. Attraverso questa sorta di feed-back da parte del paziente, è possibile valutare la portata dell’efficacia dell’interpretazione dell’analista, e questo può diventare una guida per individuare il punto di emergenza del momento. In questo tipo di visione del rapporto analitico, si assiste ad una deflazione del tono oracolare e la seduta diventa una faccenda a due, un parlare di qualcosa che è tra loro due.

Ogden (1994) sembra riprendere in parte l’argomento quando parla del terzo analitico, in cui analista ed analizzando partecipano entrambi alla costruzione intersoggettiva inconscia (il terzo analitico appunto), anche se in maniera estremamente asimmetrica … “La creazione di un processo analitico dipende dalla capacità dell’analista e dell’analizzato di entrare in un gioco dialettico di stati di reverie, al tempo stesso privati ed inconsciamente comunicati” (1997). Per Ogden la revérie è parte fondante il processo analitico ed appartiene ad entrambi i membri della coppia analitica, e per quanto personali e private possano apparire all’analista le proprie reverie, è fuorviante considerarle “solo” sue creazioni personali,

Parallelamente si è modificata anche l’idea delle finalità dell’analisi, che non è più concepita come la rivelazione di determinate verità riguardante la storia del paziente o del suo mondo interno, ma lo sviluppo ed il rafforzamento della sua capacità di pensare, di stabilire relazioni con gli altri, fuori e dentro di sé. L’efficacia di un’interpretazione starebbe dunque, in quest’ottica, nelle vie che apre, più che nel senso che essa racchiude e definisce, nelle nuove configurazioni che rende possibili più che in quelle che realizza.

Se cambia il processo e la finalità del processo analitico, cambia anche il linguaggio: è questo del linguaggio un altro tema caro ad Ogden, che affronta più volte (1997, 2005, 2009), con l’idea che bisogna prestare grande attenzione al linguaggio del paziente non tanto per la storia che può nascondere o per il significato che può esserci dietro a ciò che viene narrato, ma bisogna prestare grande attenzione al linguaggio stesso, al come viene utilizzato, all’effetto che crea nella relazione analitica in quel determinato momento.

Anche lo stile delle interpretazioni necessariamente cambia: Ferro (1989) parla di interpretazioni rivestite (interpretazione di transfert pensata dall’analista ma rivestita delle parole, delle personificazioni mutuate dal discorso del paziente), oppure ancora di interpretazioni narrative che valorizzano l’estensione mitica. Siamo qui nell’area della teorizzazione di campo in cui vi è una co-costruzione ed una co-determinazione di quanto prende vita in psicoanalisi. E’ questo un vertice di ascolto, che deve essere in continua oscillazione, sia con il vertice dotato di maggior referenzialità esterna – storica, sia con quello dotato di maggior attenzione al mondo interno del paziente con le sue fantasmatizzazioni.

Come tutto questo si traduce nel lavoro con i bambini e nella psicoanalisi infantile? La domanda è impegnativa per la vastità di elementi che sono implicati e coinvolti. Mi limiterò a trattarne uno solo: il gioco, che forse è uno dei più rappresentativi.

E’ la Klein che, nel lontano 1926, scriveva:

“Nel gioco i bambini riproducono simbolicamente fantasie, desideri, esperienze. Nel farlo si servono dello stesso linguaggio, della stessa forma di espressione arcaica e filogeneticamente acquisita che ci è ben nota dai sogni. Noi possiamo capire completamente ciò che i bambini esprimono con il gioco solo se lo affrontiamo con lo stesso metodo elaborato da Freud per svelare i sogni.”

J. Norman nel 1991, scrive:

“Il gioco è un linguaggio speciale dei bambini che riescono così ad esprimere sé stessi con i significati a loro disposizione. Predisporre la scena di un gioco può essere paragonato all’agire in psicoanalisi, nel senso che un elemento può essere l’espressione di sentimenti per l’analista messi in atti piuttosto che in parole” o essere un’espressione simbolica di ciò che non può essere messo in parole.

Per J. Norman la scena che il bambino costruisce usando la stanza d’analisi con ciò che essa contiene, analista compreso, è una visuale, una creazione spaziale alimentata da desideri inconsci che trovano la loro possibilità di espressione attraverso quel particolare tipo di trasformazione che opera anche nel sogno. Ma la posizione dell’analista è molto diversa quando si trova ad avere a che fare con un gioco poiché si trova ad essere coinvolto attivamente nella scena creata dal paziente.

Più recentemente Salomonsson (2007) in un interessante articolo descrive il suo lavoro con una madre ed una bambina di 8 mesi. Si pone due interrogativi fondamentali: come possiamo essere sicuri che la bambina comprenda le parole dell’analista e, viceversa, come possiamo essere sicuri che l’analista comprenda davvero le comunicazioni della bambina? Di fatto consociamo molto poco delle modalità in cui si trasmettono i significati consci ed inconsci: “Noi comprendiamo la bambina similarmente a come noi potremmo comprendere un’immagine o una danza.” Ma allora, si domanda: “Perché si usano parole il cui significato simbolico (Peirce), digitale (Rosolato) o lessicale (Norman) i bambini molto piccoli non possono comprendere? Perché attribuiamo loro una capacità di comprendere la comunicazione emozionale” (Salomonsson (2007). Le scoperte che provengono dalle ricerche della psicologia evolutiva sembrano supportare questa ipotesi, come già sosteneva Stern nel 1985 quando parlava della sintonizzazione degli stati emotivi, in cui metteva in luce come l’attenzione andasse spostata dal comportamento alla qualità dello stato d’animo condiviso.

Nell’ articolo di Salomonsson c’è un altro punto ancora. Nel descrivere il modo in cui lui parla con la bambina e la madre, mette in evidenza le difficoltà di riportare in uno scritto non tanto le parole, ma il tono usato, le sottolineature emotive della voce, così come la mimica, o tutti quegli aspetti che sono parte della comunicazione e parte imprescindibile in una comunicazione con una bambina così piccola.

E’ questa un’area di grande interesse per la psicoanalisi in cui c’è ancora molto da esplorare, da comprendere e che può portare a sviluppi interessanti, per il nostro modo di lavorare con i bambini più piccoli, o con i bambini che si trovano in stadi mentali più primitivi perché hanno incontrato ostacoli che non hanno permesso loro di svilupparsi appieno.

Ma quando siamo all’interno di un setting analitico, come ed in che modo interpretare il gioco del bambino? Ferro nel suo libro “Tecnica della psicoanalisi infantile”, ben descrive la presenza di due scelte operative possibili quando ci troviamo di fronte, per esempio e cito, ad un Carlo che tira fuori una tigre che assale un leone ed il cane difende il leone:

1°) “cogliere il senso relazionale in termini di emozioni, sentimenti e proporlo al bambino sottolineando come da subito si sia in presenza di aggressività, di rabbia ed anche un bisogno di protezione rispetto alla persona aggredita, riportando sempre più in modo esplicito nel transfert;

2°) lasciare le “nominazioni” proposte dal bambino partecipando al gioco ed interpretando sui personaggi proposti, costruendo una storia assieme al bambino, facendo la nostra mente palcoscenico di quella storia, senza naturalmente perdere il significato relazionale di quanto sta accadendo. Si interviene toccando allora la rabbia della tigre , la preoccupazione e l’amicizia del cane per il leone lasciando quindi che la storia si sviluppi senza eccessive codificazioni che rischierebbero di fermare il senso”. ed io aggiungerei il gioco stesso, che invece va protetto.

DUE VIGNETTE CLINICHE.

Vorrei presentare due vignette che mi pare potrebbero riassumere e tradurre clinicamente quanto esposto fino ad ora. Queste due vignette hanno in comune un modo particolare di interpretare, un modo che mi ha insegnato una mia giovane paziente, e che con Ferro, mio supervisore dell’epoca, abbiamo deciso di chiamare “interpretazione recitata”. (questo caso fa parte di un articolo pubblicato su Richard e Piggle 2006).

Innanzitutto recitata perché? Perché fa riferimento proprio all’uso dei toni verbali, o meglio ai sovratoni che si utilizzano e che mettono le emozioni in primo piano, ma in una forma talmente caricata che non si può che prenderne le distanze, come se il tutto venisse messo su un palcoscenico o su uno schermo. E’ il teatro del Grand Guignol quello che potrebbe fungere da riferimento a questa modalità interpretativa, dove ciò che viene messo in scena è la paura, l’angoscia e le molte forme che esse possono assumere (Augias 1972). L’idea del teatro non è così originale in psicoanalisi, sia con l’idea di personaggi che rappresentano e mettono in scena, sia con la necessità di un pubblico che non è parte attiva, ma sicuramente integrante. In una dimensione di co-narrazione le funzioni di fare e guardare non sono forse più così schematicamente suddivise ma si trovano anch’esse in un rapporto più armonico, di scambio: l’analista allora può essere sul palcoscenico accanto all’attore-paziente ed aiutarlo a mettere in scena ciò che diversamente rimarrebbe muto, dietro le quinte e non saprebbe che strada trovare per essere dicibile, contattabile e rappresentabile.

Tina è una ragazzina di 12 anni, in famiglia adottiva da poco più di un anno quando arriva in consultazione da me. A 6 anni è stata tolta alla famiglia per incuria insieme ad altre due sorelle, entrambe più grandi. In istituto lei e la sorella maggiore raccontano episodi di abusi sessuali. La secondogenita all’età di 10 anni viene inserita all’interno di una famiglia per un’adozione. A Tina questa famiglia piace molto tanto da chiedere di essere anche lei adottata. Dopo circa un anno sono i piccoli furti che compie anche in casa ed i comportamenti fortemente seduttivi e sessualizzati nei confronti dei ragazzi che spingono la famiglia a chiedere un aiuto per Tina

Dopo il primo anno di terapia i furti sono praticamente scomparsi mentre permane il comportamento seduttivo nei confronti della figura maschile; lamenta inoltre una certa difficoltà e pesantezza nel venire in terapia. Quando a settembre ri-iniziamo il nostro lavoro, io contemporaneamente inizio una supervisione con il Dott. Ferro, che mi aiuta a trovare un modo più delicato per avvicinarmi a lei ed un lavoro psicoanalitico meno incalzante. Con l’avvicinarsi delle vacanze di Natale ed il tema della separazione Tina ritrova il gioco della colla da staccare dalle mani. Ma in questa occasione oltre al modo delicato e che conserva lo strato di colla integro, a volte vuole che lo strappi via a pezzi. La mia voce, sia con il timbro che con il tono segue e cerca di essere adeguata alle due tipologie emotive: dolce e delicato in un caso e rabbioso e duro nel secondo. Tina poi sceglierà di ripetere innumerevoli volte quest’ultima versione come se solo in questo modo, recitato e fortemente drammatizzato con il sovratono, fosse possibile avere accesso a quell’area di esperienza emotiva. Uno stralcio della seduta dell’epoca:

Tina asciuga lo strato di colla fino a quando dice: “Adesso è secco, lo puoi togliere”

Io comincio a farlo e lei dice: “Fai come hai fatto giovedì …. Ah cattiva dottoressa”

Io (strappando lo strato di colla): Ah cattiva dottoressa … Cattiva Cinzia, ti faccio a pezzi visto che martedì non c’eri, visto che fai delle vacanze così lunghe …(tono drammatizzato)

T: Qual è il nostro ultimo incontro?

Io: Il 19 dicembre (tono normale. Poi cambiando registro e drammatizzando) E ti sembrano regali da fare per il compleanno (il 19 dicembre è il compleanno di Tina).Ah ecco … questo mi fa arrabbiare ancora di più, a piccoli pezzi ti faccio (lo dico mentre strappo un piccolo pezzo di colla). Lei ascolta le mie parole, non so che espressione faccia perché sono intenta a togliere la colla, ma la sensazione che ho è che sia musica per le sue orecchie, tanto che se mi fermo un attimo lei mi incalza: “Devi dire Ah …”

Finito di togliere la colla il gioco si ripete, e dopo aver spalmato la colla sopra e sotto il dorso della mano, quando è nuovamente asciutta Tina mi chiede: “Dai toglila ma fallo recitando”.

2° vignetta clinica

Dino è un bambino che arriva in consultazione all’età di 2 anni e mezzo, con una diagnosi di autismo. 3° genito di una coppia non più giovanissima, Dino non parla, cammina con la testa girata di lato, anche se non sbatte mai contro nessun ostacolo, non tollera gli spazi chiusi, e si abbandona a movimenti stereotipati.

Il primo problema da affrontare è poter stare in una stanza chiusa, senza che lui scivoli via perdendosi in una sorta di indifferenziazione. Dopo un paio di settimane, si comincia ad affrontare l’idea che mamma esca dalla stanza di terapia. E di nuovo la porta diventa un luogo molto importante della stanza.

Fino ad un certo punto Dino aveva come subito la mia decisione riguardo all’utilità della porta chiusa: era molto angosciato, anche se sempre meno, e sembrava comprendere ad un qualche livello, quale ne fosse il senso e l’utilità. Ad un certo punto Dino sembra come sovvertire le parti: lui inventa un gioco. Il pensiero non può che andare a Freud (1920) ed alla descrizione che fa del gioco del rocchetto in cui il bambino diventa il protagonista dell’azione e non più colui che la subisce, o la vede accadere. Dino più che un gioco sembra creare una rappresentazione, una scena, in cui io ho un ruolo ben preciso da recitare e lo faccio con la maggior drammaticità possibile utilizzando quel sovratono che aiuta a rappresentare. Stralcio di seduta:

….. Mi viene a prendere una mano, mi fa alzare dal pavimento e mi fa sedere sul divano.

Io: Io sto qui sul divano, e tu che cosa fai?

Dino sorride, ha gli occhi che ridono e con aria furbetta va alla porta guardandomi, ha quindi la testa girata. Io mi alzo in piedi e recito un pò, con le mani sui fianchi e con il viso aggrottato: “Beh? E tu, birbacchione, che cosa fai adesso?”.

Lui si blocca immediatamente, anche se aveva già messo la mano sulla maniglia della porta. Si gira, torna verso di me come ridendo e mi rimette a sedere e la sequenza si ripete più e più volte. Fino a quando, può stare da solo vicino alla porta, senza aprirla, ma toccando delicatamente il segno grigio che aveva precedentemente fatto sulla porta con il pennarello.

Quello che io chiamo dentro di me il gioco del “birbaccione dove vai” diventa l’avvio di seduta:

Quando entro mi accompagna subito dopo che ho chiuso la porta al divano, mi fa sedere in un posto preciso, poi mi lascia le dita, mi guarda con aria da furbetto, e ridendo corre verso la porta. E’ il gioco. Io faccio la mia parte. Mi alzo in piedi con le mani sui fianchi e con aria fintamente arrabbiata dico: “E tu dove vai birbacchione?” Diego si ferma, si gira verso di me ridendo, io mi avvicino a lui con passi pesanti. Lui viene a prendermi per un dito, di tutte e due le mani. Mi rimette a sedere. Io verbalizzo tutto: Dove vuoi che mi metta? Qui? (posto sbagliato), lui mi tira e dico: Qui non va bene. Allora qui? (Lui mi spinge in giù) Oh qui va bene! Allora giù”. E si fa il gioco qualche volta. E’ dall’espressione del viso che capisco che non si ripeterà più il gioco. Sembra come un pò triste, pensieroso. Va al tappeto e parla. Sono vocalizzi, ma mi sembrano un pò meno funzionali, più comunicativi. O forse sono solo più ricchi, più articolati. Fa un giro intorno al tavolo , mi viene a prendere per un dito e mi porta al lavandino (dove inizierà a giocare a far scorrere l’acqua).

In queste sequenze di gioco c’è sicuramente la qualità della eciitazione e della maniacalità, un essere sopra le righe. Sembra però essere funzionale a quella che può essere considerata la scoperta ultima, il poter stare nella stanza sentendosi contenuto, e sentendo di poter contenere a propria volta quegli aspetti emotivi che inizialmente erano stati così angoscianti. Quelle emozioni che potevano solo essere lasciate scivolare via, come l’acqua che scorre e non si ferma, ora possono restare come l’acqua che può restare nel lavandino quando si usa il tappo.

La produzione vocale si arricchisce: i suoni sembrano meno piatti e meno uguali, come se stesse iniziando ad esplorare le diverse sonorità e sfumature di uno stesso suono. Il cominciare a rinuciare all’appiattimento, fa riferimento anche all’emergere di una sorta di differenziazione degli aspetti emotivi: eccitazione, gioia o tristezza, ma anche delusione quando non lo capisco, come riporto qui di seguito:

Appena arrivato Dino corre nella stanza, e mi viene incontro quando io arrivo.

Io: “Eccomi, eccomi. Sono arrivata” (mi ero attardata un attimo con il padre che mi ha raccontato che Diego era caduto e si era fatto male). Mi mette a sedere sul divano e con aria furbetta corre verso la porta, guardando me. Io non capisco immediatamente, e lui lo coglie e per una frazione sembra fermarsi deluso. Non so se sottolineare la delusione o giocare il gioco: scelgo quest’ultima.

Io: “E tu dove vai birbacchione?”

Diego ride, si ferma dall’aprire la porta, torna indietro, mi spinge di nuovo a sedere sul divano e la scena si ripete 2-3 volte sempre uguale, non di più (minor bisogno di ripetizione?). Dopo mi prende sempre per un dito ma anzichè portarmi al divano mi porta al lavandino.

Per concludere un’ultima citazione: è di Parsons (1999): “Il gioco nella relazione analitica ha luogo dallo sviluppo di un’esperienza comune all’interno di uno spazio intermedio, in cui il paziente e l’analista hanno la possibilità di trovare, da un processo misto tra invenzione e scoperta, nuovi modi di conoscere e di farsi conoscere che il loro punto di partenza non faceva presagire.”

Ma forse questo vale non solo per il gioco.

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