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Ferruta A. (2013). Le angustie del narcisismo nella cura analitica.

Soggettivazione nell’intersoggettività (Kaës)

relazione presentata al Seminario AFPP CSMH – AMHPPIA SIPP SPI “Malessere sociale e malessere individuale: alleati o nemici?” con R.Kaës e A.Ferruta

13 Aprile 2013

Sala del Giardino d’Inverno, Istituto Montedomini –Via de’ Malcontenti, 6 – Firenze

Per gentile concessione dell’autrice, per consultazione e non per riproduzione

Premessa

“Se e come sono cambiati i nostri pazienti fino ai giorni nostri”, affermava Eugenio Gaddini in un importante lavoro del 1984. Oggi possiamo aggiornare quella riflessione, a partire dall’analisi di casi clinici che chiedono una cura per una forma di sofferenza narcisistica.

Ci troviamo immersi in una sindrome psicosociale (Di Chiara, 1999), che sostiene forme di relazione nelle quali i processi di integrazione pretendono di oltrepassare i limiti del singolo, fino a riassorbire l’altro, senza sviluppare processi di soggettivazione, in una dimensione narcisistica totalizzante e isolata.

Kaës (2012) propone una riflessione sulle nuove forme di sofferenza psichica, che prescindono dai fenomeni di lutto, che comportano la difficoltà e incapacità di elaborare la perdita di altro e dell’altro, e riguardano soprattutto forme di eccessi: mania, melanconia, persecuzione.

Ritiene che ci sia un’esigenza di lavoro psichico, imposta al soggetto dall’inconscio, nel suo doppio ombelico, biologico (il corpo) e intersoggettivo, e dalla sua iscrizione conflittuale nello spazio sociale e culturale, allo scopo di produrre nuove forme di soggettività. Il soggetto è abitato anche dall’inconscio gruppale, ed è sempre meno padrone a casa propria.

Per Freud (1929) il disagio della civiltà derivava dal conflitto tra pulsioni e organizzazione sociale. Oggi assistiamo alla necessità di un cambiamento della psicoanalisi che organizzava la visione di Freud. L’oggetto di cui la psicoanalisi oggi si occupa sono gli ostacoli al processo di soggettivazione, al divenire Io, (Aulagnier, 1984) di ciascuno, come capacità di esistere, di creare legami, di fare società. Ogni soggetto si dovrebbe definire attraverso la realtà psichica che si costruisce in lui, non solo come soggetto della propria vita psichica, ma anche come attore sociale.

Kaës afferma che due funzioni vitali per il processo di soggettivazione sono venute a indebolirsi: la base di appartenenza narcisistica e il sistema di rappresentazioni stabili, necessario per esistere. La risposta a questi cambiamenti che incontriamo nelle domande di cura è spesso costituita da attacchi di panico e da comportamenti di evitamento del mondo e di se stessi. La sofferenza psichica si manifesta quando sono messe in crisi le capacità della mente di garantire la continuità e integrità del nostro io, il ‘divenire Io’.

A partire dall’esperienza clinica, mi voglio soffermare sull’importanza della base di appartenenza narcisistica, di cui parla Kaës, che è gruppale: l’altro precede il soggetto che gli si rivolge, lo investe e lo introduce nel mondo simbolico (Aulagnier, 1984).

Le alleanze inconsce sono il cemento di materia psichica che ci lega gli uni agli altri e costruiscono una parte dell’inconscio di ogni soggetto.

I contratti intersoggettivi inconsci contengono i principi organizzatori dello psichismo come alleanze strutturanti. Quando il narcisismo è gravemente minacciato viene attaccata la capacità di essere: il contratto narcisistico, che è una delle basi essenziali per vivere e che costituisce il legame dell’individuo a un gruppo di appartenenza, viene dislocato e viene a mancare un posto in cui mettere la sopravvivenza contemporanea dell’individuo e del gruppo.

Gruppalità inconscia e progettualità futura: l’adulto e il bambino

Alcuni aspetti del metodo e della cura analitica possono essere utili per illuminare quest’area dello psichismo che stenta a riconoscere e costruire legami tra il soggetto e il gruppo, quello che Kaës indica con una bella formula: la soggettivazione nell’intersoggettività. Le questioni relative al rapporto con le generazioni future sembrano essere colpite da meccanismi particolarmente distruttivi, che mettono alla prova la sussistenza delle alleanze narcisistiche inconsce, cioè quei legami sulla base dei quali si fonda la vita psichica dei singoli sin dall’origine. Il filosofo fiorentino Paolo Rossi (2006) ha spesso richiamato la questione delle tre grandi rivoluzioni copernicane che hanno mutato la concezione del mondo e dell’uomo: Copernico ha dimostrato che la terra non è al centro dell’universo ma ne è un elemento minimo all’interno di un sistema molto complesso e non ancora conosciuto, Darwin ha messo alla prova la continuità della specie umana con le altre specie animali, Freud con la concettualizzazione dell’inconscio ha messo in crisi l’illusione di un Io padrone a casa propria (1).

Un’altra illusione venuta ora meno è la concezione di un individuo che si forma sulla base di una sua singolarità, scissa rispetto a una necessaria appartenenza inconscia al gruppo nel quale prende vita, che costituisce uno degli elementi base del suo psichismo.

Un nucleo di pensieri intorno ai quali si è concentrata la mia attenzione è costituito dal fatto che un contratto narcisistico ‘gruppale’, che in una prima fase sembra mantenere ancora una sua forza e continuità, è il rapporto tra genitori e bambino piccolo. Di fronte alla decadenza e al crollo di molti miti e garanti organizzatori dello psichismo, questo legame sembra avere conservato una sua pregnanza e significatività, nella forma del prendersi cura degli aspetti inermi e sprovveduti dei bambini piccoli.

Ma proprio la sopravvivenza e la forza di questo legame inconscio, di questo contratto narcisistico, pone problemi complessi, quando i piccoli incominciano a differenziarsi e a diventare personaggi di una gruppalità inconscia che manda segnali di progettualità futura. Meccanismi di soppressione, evitamento, blocco della progettualità, si presentano nel corso delle analisi. Quella dimensione del contratto narcisistico inconscio che consiste nel fornire una base di sopravvivenza e convivenza per il genitore e il bambino in modo che il narcisismo sano dei soggetti in gioco sia salvaguardato, vien meno e viene fraintesa. Pressioni narcisistiche unilaterali inconsce perforano la relazione: il bambino, che era stato accolto come rappresentante di una inermità che sostiene il sentimento di potenza del genitore, deve sparire e essere riassorbito in un funzionamento performativo che non minacci il narcisismo del genitore con le sue necessità di crescita differenziata. Ci possiamo chiedere se il bambino interno, come rappresentante di potenzialità sconosciute, deve sparire, in un processo di crescita concepito in modo lineare, in quanto la sua sopravvivenza indica un deficit, qualcosa di incompiuto, oppure se la relazione adulto-bambino possa continuare ad essere un dialogo presente e costituivo del soggetto a tre livelli. Il livello del dialogo tra parti del sé, come capacità di ascolto di ciò che è in attesa di trovare un répondant, dice Kaës, che permetta a potenzialità non conosciute di esprimersi e quindi alle relazioni interpersonali di arricchirsi, oltre le stereotipie ripetitive: questo pone interrogativi alla tecnica e all’ascolto in analisi. La tendenza a interpretare i meccanismi di scissione e proiezione di parti del paziente nell’analista, in vista di un’integrazione piena e di un’evoluzione lineare progressiva, può essere perseguita in modo troppo meccanico, a scapito di un lavoro rivolto a favorire un ambiente mentale interno in cui trovino posto diversi personaggi in dialogo tra loro, in una copresenza di oscillazioni continue tra individualità e socialità, posizione schizoparanoide e depressiva, sé e altro. Anche nella relazione analitica può trovare posto il legame con il gruppo di appartenenza, nel quale la dimensione, direbbe Bollas, del ‘conosciuto non pensato’ che ogni ‘bambino’ finisce per rappresentare, come persona in carne e ossa o come emergenza di esigenze improvvise e ignote nel gruppo, fa sentire la sua presenza e la sua voce. Questo salvaguarda l’integrità della vita psichica dei singoli e del gruppo, rispetto a soste forzate nella stasi, e favorisce necessarie istanze di cambiamento. Dice Bollas: “ Essere un carattere significa provare piacere nel rischio di essere elaborato dall’oggetto, anzi, in parte cercare oggetti per essere trasformati, man mano che si “subisce” un cambiamento attraverso il momento elaborativo fornito dall’integrità dell’oggetto. Ogni ingresso nell’esperienza di un oggetto assomiglia al rinascere, perché la soggettività viene informata dall’incontro, la sua storia viene modificata da un presente estremamente efficace che ne cambia la struttura. “ (Bollas 1992, 58-59)

Un terzo livello riguarda l’organizzazione della vita sociale che non fa posto alla copresenza di bambino e adulto, considerando la presenza del bambino come un fenomeno transitorio da superare piuttosto che come una dinamica permanente del gruppo sociale, che deve quindi essere organizzata in modo da prevederla, come tempi, spazi, obiettivi.

Il bambino, inteso come spinta sconosciuta che preme per lo sviluppo di aspetti non ancora nati o non venuti alla luce nella dimensione inconscia plurale del soggetto, a un certo punto, dopo essere stato cercato e accolto, viene così evitato o soppresso, come un disturbo o un difetto del sistema. Il contatto con il bambino nel soggetto viene qui inteso inteso non tanto come esperienza di inermità che richiede accudimento, ma come potenzialità evolutiva e divergente che richiede ascolto, terreno gruppale nel quale crescere, interesse per l’allontanarsi dai sentieri già battuti, sviluppo di nuovi aspetti mai conosciuti e presi in considerazione nel genitore stesso.

Sbarazzarsi dell’alterità che abita il soggetto, con i suoi disordini e le sue disarmonie, sembra un meccanismo che spesso si impone con le sue pressioni incalzanti. Assistiamo al manifestarsi di una confusione tra il raggiungere mete personali e professionali narcisisticamente gratificanti e il ripetersi di operazioni di soppressione di aspetti incompiuti, con capacità evolutive e creative, disprezzati e considerati un segno di deficit, una minaccia narcisistica, invece che un segno di sana presenza di un’alterità gruppale. Il dialogo interno-esterno tra adulto e bambino viene interrotto, a favore di atteggiamenti comportamentali che vanno dritti alla meta, eliminano le intermediazioni, spazzano via le alterità come inciampi che ingombrano il cammino. Il posto in se stessi per il rapporto con il bambino che ha voglia di crescere viene limitato o soppresso, a favore del già noto, delle competenze da acquisire, della perfetta coincidenza tra soggetto e ambiente.

Blocco. Un giovane, che mantiene un legame stretto e profondo con i genitori, dopo avere completato una carriera di preparazione universitaria molto brillante, si blocca alle soglie dell’entrata nel mondo produttivo, incalzato dalla fantasia inconscia di dovere sopprimere quegli aspetti ‘incompiuti’ che premono dentro di lui come desiderio di crescita e di futuro. Nella sua mente, prima di cominciare, tutto deve già essere deciso e concluso. Il bambino deve essere eliminato e soppresso, escluso dalla rappresentazione del futuro. Il dialogo interno tra genitore e bambino non prende il volo: tutto è bloccato alla stazione di partenza in attesa che il ‘bambino’ si decida a sparire. L’analisi si propone come un ambiente di ascolto di ciò che può accadere e svilupparsi nella relazione analitica, anche se l’analista è continuamente sollecitato a funzionare come quello che sa, che non ha un bambino interno potenziale da far crescere e con cui dialogare.

Soppressione. Un manager chiede un aiuto analitico per problemi con il figlio arrivato all’età scolare, che presenta disturbi comportamentali, che rischiano di compromettere anche il rapporto di coppia. Rapidamente, un fatto di cronaca relativo ad un infanticidio diventa il polo organizzatore delle problematiche portate: un bambino è stato soppresso in lui e continua a dovere essere soppresso fuori di lui e nel gruppo, in quanto elemento di disordine e incompiutezza, piuttosto che come potenzialità di futuro anche per la vita di coppia.

Evitamento. Una giovane specializzanda di medicina affronta con entusiasmo la nuova esperienza, di fronte alla quale naturalmente prova sentimenti di incertezza e inadeguatezza: allora si trova a fare brutti sogni, che la riportano ai luoghi dell’infanzia. Associando, ci troviamo a pensare che per affrontare la nuova esperienza di specialità ha proprio bisogno di entrare in contatto con quei sentimenti di una bambina che era agli inizi e che sognava, crescendo, di avere evitato per sempre, sentimenti che non sono un segno di immaturità e incapacità, ma al contrario di una possibilità di dialogo interno tra personaggi potenziali e personaggi veramente adulti, perché capaci di ‘parlare’ con gli altri e farli evolvere e cambiare.

Si potrebbe andare avanti nell’esemplificazione clinica, ricorrendo a situazioni ancora più evidenti, ma proprio per questo forse meno esplicative della situazione psicosociale su cui voglio soffermarmi. Vi accenno soltanto: separazioni coniugali alla ricerca di aspetti di sé mai emersi, infertilità inspiegabili da un punto di vista fisiologico, improvvise emergenze di ambiguità e ambivalenze nella scelta del partner o del lavoro o del luogo in cui vivere, alla ricerca di ‘altri’ che sono stati tenuti fuori dai processi di integrazione e costruzione di sé, estraniati come narcisisticamente incompatibili, in quanto incompiuti, come rappresentanti di potenzialità future sconosciute, bambini che non hanno mai potuto farsi conoscere.

Quello di cui voglio parlare è della ricaduta all’interno del processo psicoanalitico di quello che Kaës chiama Le Malêtre, facendo riferimento in particolare all’indebolimento dei patti narcisistici inconsci, necessari per salvaguardare la sopravvivenza del singolo e del gruppo, e alla necessità di ripensare il significato dei processi di integrazione.

In molte situazioni l’analista si trova di fronte alla sensazione di interpretare in modo troppo automatico e ripetitivo l’irrompere in seduta di proiezioni e scissioni da parte del paziente, come espressione di parti di sé, rifiutate e collocate nell’analista, da metabolizzare e da restituire in forma digeribile e accettabile, perché le integri nell’insieme della sua personalità. L’analista, a livello controtransferale, può esperimentare un rifiuto per questi aspetti collocati in lui e sente l’impulso a ‘ricondurre alla ragione’ il paziente, prova il desiderio di mostrargli l’assurdità del suo comportamento (esempio: una separazione coniugale in cui il nuovo partner appare una riedizione della relazione precedente). Ma a questo punto l’analista si rende conto che a sua volta sta rifiutando inconsciamente un aspetto del paziente ‘altro’ che non ha avuto voce o che è in attesa di sviluppo, per mancanza di un patto narcisistico sufficientemente saldo e di uno spazio psichico sufficientemente grande per raccogliere l’altro, anche nella sua mente di terapeuta e nella sua relazione con il paziente. la sua mente gruppale è limitata: in quel momento, in quella seduta, sono presenti due individualità schematiche, private del loro legame con il gruppo più ampio a cui appartengono e con il quale sono sollecitati a stare in contatto e a stabilire ponti.

Il problema che si pone riguarda i limiti e la natura dei processi di integrazione della personalità individuale, che richiedono che l’altro e ogni alterità non venga soppressa o evitata narcisisticamente, come segno di non raggiunta maturazione o equilibrio.

La soggettivazione nell’intersoggettività

Da questo punto di vista, la teoria dell’apparato per pensare gruppale è di grande aiuto. La nascita del sé all’interno di un gruppo che ne ha una preconcezione inconscia pone l’appartenenza a un altro e a più di un altro come un elemento costitutivo dello sviluppo psichico. Interpretare i meccanismi di scissione e proiezione in modo meccanico come parti di sé è riduttivo. L’alterità non riducibile narcisisticamente al sé abita il soggetto e richiede spazi e tempi per essere incontrata e convissuta. Evitamento e soppressione e blocco sono meccanismi di difesa che si incontrano con frequenza e intensità, orientati al non incontrare e al non fare posto ad alterità che invece costituiscono un fondamento narcisistico di un soggetto che vive nel plurale. La proposta di Kaës di lavorare per lo sviluppo di processi di soggettivazione nell’intersoggettività va in questa direzione.

A mio parere si aprono alcune interessanti prospettive di sviluppo per il lavoro psicoanalitico:

– Entrare in contatto e stare con. Una riguarda la posizione dell’analista e la tecnica analitica: ascolto e spazio mentale dell’analista sono premesse necessarie. Non si tratta tanto di adottare una teoria insatura, quanto di una capacità di ascolto aperta a un’alterità che non eviti di accogliere ciò che viene da un’altra parte, per tutto il tempo necessario perché nell’incontro tra inconsci si creino le condizioni per un contatto. Come sostiene Stefania Turillazzi Manfredi (2008), se l’analista riesce a entrare in contatto con aspetti inconsci e scissi del paziente e a convivervi in modo sufficientemente accettabile, anche il paziente potrà interiorizzare questa relazionalità inconscia, e attenuare o cessare le attività di evitamento, soppressione, blocco.

– Non ridurre il reale al soggetto. Un’altra prospettiva riguarda la capacità di dare vita in analisi a fenomeni autenticamente transizionali. Si tratta di “trasformare ciò che si impone come reale senza negarlo” (Kaës). Ma per questo ci vuole un luogo in cui mettere ciò che creiamo (Winnicott,1971) e predisporre le condizioni che ristabiliscano il processo creativo. Sono venute meno le formazioni intermedie necessarie per operare questa articolazione, sostituite da meccanismi di diniego di una realtà insopportabile, percepita in presa diretta, di cui sbarazzarsi come intollerabile, dichiarandola non esistente.

La dimensione transizionale che Winnicott ha teorizzato riguarda proprio l’esperienza di tenere insieme il percepito e l’allucinato, il contatto sensoriale e cognitivo con il non-me e insieme la capacità di utilizzarlo al servizio del sogno e delle esigenze libidiche immaginative e sognanti del soggetto. In analisi questo significa fare posto all’altro nel senso di allargare lo spazio mentale e le capacità creative incontrando le meraviglie percettive dell’alterità, nella materia dell’arte, nel suono della parola e della voce, nell’esperienza del corpo dell’altro. Il piacere di sentirsi creativo va insieme al piacere di vivere in una dimensione nella quale il giudizio di realtà è sospeso e insieme l’esperienza attraversata è profondamente reale. L’esperienza che si attiva in questa area transizionale è quella di un soggetto che funziona nella libertà del sognare, continuando a fruire degli oggetti, ricreandoli con i suoi significati senza perderli e senza sopprimerli.

– Un tragitto verso. Un’altra prospettiva ancora riguarda il fatto che l’analisi è un percorso, un tragitto che ha un verso nella direzione del tempo futuro, volta a sviluppare aspetti mai venuti alla luce che significano la dimensione della mente che tiene presenti le future generazioni come esigenza del soggetto gruppale. Già Fachinelli nel lontano 1983 aveva segnalato la Claustrofilia che si insedia nel processo psicoanalitico, che dovrebbe fare posto, invece che a una stasi, a una predisposizione di sviluppo psichico. Si sente spesso parlare del numero delle sedute di analisi, troppe, e meno della durata delle analisi e dei percorsi psicoterapeutici, che corrono il rischio di diventare un luogo di stasi invece che un’esperienza di sviluppo e di ripresa di creatività.

– Il gruppo come irriducibilità dell’alterità al soggetto individuale. Infine, l’esperienza del lavoro analitico in gruppo costituisce una dimensione di apprendimento dell’irriducibilità dell’alterità al soggetto individuale. Il gruppo mette a confronto con eredità collettive impensate e con ciò che è fuori dal senso, dalla presa, dal controllo.

Il lavoro nelle istituzioni psichiatriche utilizza lo strumento del gruppo e della comunità proprio là dove il singolo curante non ce la fa ad affrontare l’urto psicotico di un’alterità che la mente individuale non regge. I gruppi di supervisione istituzionale, i seminari analitici di gruppo con metodo bioniano, sono uno strumento straordinario che vedono al lavoro la mente gruppale.

Un esempio interessante, è l’iniziativa del Centro Milanese di Psicoanalisi “Ripensare il caso clinico”: si tratta di seminari di supervisione clinica di gruppo tenuti da psicoanalisti nella sede dell’istituzione psicoanalitica rivolti a psichiatri e psicologi delle istituzioni, per sostenere e approfondire l’approccio psicoanalitico di chi vi si riconosce e lavora in quei contesti. (Ferruta, 2008).

Il Seminario costituisce un luogo mentale atto ad accogliere aspetti della mente del paziente grave (situazioni di morte psichica, di blocco della capacità di pensare, amare, lavorare) che la mente individuale del terapeuta non ha lo spazio sufficiente per accogliere, e che lo inducono simmetricamente a un imprigionamento in schemi inerti, ideologici o imitativi: è un luogo nel quale si attivano movimenti di libertà mentale atti a sciogliere il blocco e a permettere il formarsi di nuove riorganizzazioni psichiche.

Il Seminario Analitico di Gruppo si presenta come un contenitore “ludico”, nel senso winnicottiano (1971) del termine: propone un lavoro del gruppo che come nel gioco non consiste solo nell’osservare un fenomeno (per esempio il paziente) ma nel diventare parte della dinamica attivata, realizzando una partecipazione in prima persona all’esperienza del gruppo e all’attività terapeutica.

La trasformazione riguarda lo stato emotivo dei partecipanti come fonte principale di conoscenza e non come pervertimento in senso terapeutico della funzione del seminario: l’esposizione emotiva di ciascuno dei partecipanti, disponibile a funzionare in associazione libera per dare la propria permeabilità ad ospitare l’estraneo, l’altro da sé, a lasciare emergere aspetti non conosciuti di sé e inevitabilmente patologici, non deve essere abusata a scopi di interpretazioni analitiche individuali. E’ in gioco la comunicazione verbale non solo nel suo significato referenziale, ma anche nella sua dimensione drammatica, scenica, del diventare qualcosa, cioè il personaggio che parla a nome di parti del paziente denegate o scisse o non rappresentate. Il processo di soggettivazione non può intervenire che in uno spazio intersoggettivo, in luoghi che il soggetto non ha costruito, ma che ha trovato e che gli sono stati trasmessi, a cominciare dal linguaggio che compare insieme al controllo dell’attività motoria: muoversi verso l’altro, con il corpo e con la parola, con il desiderio. Si tratta di muoversi in uno spazio plurale e coesivo come matrice intersoggettiva della soggettivazione. Le narrazioni/interpretazioni sono traghetti che attraversano il territorio dell’intermedio per costruire la realtà di un soggetto sufficientemente forte da potere appartenere a un gruppo e a una relazione, per potere diventare Io nel legame e nel sogno.


Terraferma è il titolo di un film di Emanuele Crialese del 2011 nel quale affronta il tema della ricerca di una terra ferma : Linosa è l’approdo a cui mira chi emigra su mezzi di fortuna, ma è anche un’isola ancorata a tradizioni ferme nel tempo. È con l’immobilità di questo tempo che una famiglia di pescatori deve confrontarsi. Ernesto ha 70 anni, vorrebbe fermare il tempo e non vorrebbe rottamare il suo peschereccio. Suo nipote Filippo ne ha 20, ha perso suo padre in mare ed è sospeso tra il tempo di suo nonno Ernesto e il tempo di suo zio Nino, che ha smesso di pescare pesci per catturare turisti. Sua madre Giulietta, giovane vedova, sente che il tempo immutabile di quest’isola li ha resi tutti stranieri e che non potrà mai esserci un futuro né per lei, né per suo figlio Filippo.
Per vivere bisogna trovare il coraggio di andare. Un giorno il mare sospinge nelle loro vite altri, un gruppo di extra comunitari naufragati da un barcone, tra cui una donna incinta. Ernesto la accoglie: è l’antica legge del mare. ” Non ho mai lasciato un uomo in mare”. Ma la nuova legge dell’uomo, la Guardia Costiera, non lo permette e la vita della famiglia è destinata ad essere sconvolta e a dover scegliere una nuova rotta.

Come tutti noi, che dobbiamo scegliere una nuova rotta, per uscire da isolamento evitamento soppressione e non lasciare affogare in mare l’uomo e la donna e il bambino che sono l’altro che ci è necessario per vivere sulla terra sicura del patto narcisistico comune e condiviso su cui siamo nati.

Nota (1)

[In] un saggio del 1917 pubblicato sulla rivista ungherese Nyugat e poi ripubblicato sulla rivista Imago con il titolo Una difficoltà della psicoanalisi, Sigmund Freud ritornò sul mito di Narciso che si innamora di se stesso contemplando la propria immagine riflessa nell’acqua. Aveva parlato a lungo del tema fra il 1912 e il 1914, accostando nevrosi e «mondo magico» e avvicinando quest’ultimo al mondo dell’infanzia, un mondo nel quale si crede che sia sufficiente piangere per essere nutriti e che la realtà possa essere cambiata (proprio come nei riti magici) solo con le parole. Il superamento del narcisismo richiede che ci si renda conto che l’io non coincide con la totalità del mondo (come spontaneamente credono tutti i bambini), che ci sono gli altri, che c’è una natura che ha sue proprie immutabili leggi con le quali dobbiamo continuamente fare i conti, che il mondo non risponde docilmente ai nostri desideri. Al narcisismo del genere umano – scrive Freud in quelle pagine – la scienza moderna, ha inferto tre gravi umiliazioni. Per molti millenni l’uomo si era ritenuto al centro dell’universo. Credeva che la sua casa fosse immobile e che il resto del cosmo girasse at-torno alla sua casa. Questo rafforzava la sua convinzione di essere il Signore dell’universo. Copernico, alla metà del Cinquecento, ha inferto al genere umano la sua prima umiliazione, quella cosmologica. L’uomo è collocato ai margini dell’universo e la sua casa è solo un punto in un spazio infinito.

Dopo quella inferta da Copernico Darwin, continua Freud, ha tolto all’uomo una seconda, grande illusione: quella di una sua differenza di essenza dagli animali. Nel corso della storia della civiltà si elevò a signore dei suoi animaleschi compagni di creazione, pose un abisso tra il loro essere ed il proprio. «Negò ad essi la ragione e si attribuì un’anima immortale, appellandosi ad un’alta origine divina che gli consentiva di spezzare i suoi legami con il mondo animale […]. Le ricerche di Charles Darwin e dei suoi collaboratori e predecessori, hanno posto fine, poco più di mezzo secolo fa, a questa presunzione dell’uomo». Darwin ha distrutto una seconda illusione: l’uomo proviene dalla serie animale, è certamente anche un animale. I bambini parlano con gli animali, solo gli adulti hanno trasformato nomi di animali in insulti feroci. Questa è la seconda umiliazione, quella biologica, inferta al narcisismo. Restava un ultimo regno, in apparenza incontrastato ed intoccabile: quello dell’anima, che è, per ciascuno di noi, la nostra propria anima. Qui (continua Freud) l’uomo poteva continuare a pensare di essere un sovrano assoluto. La psicoanalisi ha invece mostrato che la coscienza non coincide necessariamente con la consapevolezza. L’io si sente spesso a disagio, incontra limiti al suo potere proprio dentro di sé, nella sua stessa dimora. Appaiono improvvisamente pensieri che non sappiamo di dove vengano, che non vorremmo pensare, che rischiano di impadronirsi di noi e che non riusciamo facilmente a scacciare. Lo psichico non coincide con la coscienza o la consapevolezza. L’io non è padrone in casa propria. Questa è la terza umiliazione, quella psicologica, che il sapere ha inferto all’uomo (Freud, 1917, 247-248).

Bibliografia

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