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Calamandrei S. (2012). Le dimensioni del silenzio come fattore terapeutico

C.P. F. – Convegno su “IL SILENZIO IN PSICOANALISI” – 6 Ottobre 2012

Nel mio intervento vorrei cercare di sintetizzare i significati e le modalità dell’uso terapeutico del silenzio da parte dell’analista; sarà una disamina necessariamente parziale perché questo strumento così importante, proprio per le sue caratteristiche, appare sfuggente ed enigmatico, ed in più cangiante a seconda del contesto in cui lo osserviamo. Quando cerchiamo di definirlo e pensiamo di aver colto un aspetto, in realtà vediamo solo una sfaccettatura, come per un diamante, sempre diversa, sempre valida, ma sempre parziale. Intanto bisogna considerare come la psicoanalisi si possa svolgere solamente in un luogo silenzioso, un luogo che favorisca la possibilità di comunicare, un luogo protetto, accogliente, in cui arrivano gli echi della vita che scorre in prossimità, non di silenzio assoluto. All’interno di questa atmosfera confortevole si dispiega il silenzio dell’analista, che è uno degli aspetti dell’accoglienza e del rispetto verso il paziente, e costituendo un aspetto sia tecnico che teorico fondante il processo psicoanalitico, perché è l’altra faccia della medaglia della regola fondamentale delle libere associazioni, cioè dell’invitare l’analizzando a dire qualsiasi cosa gli venga in mente. La qualità del silenzio, fin dalle prime sedute, ha una parte determinante nell’incontro analitico e nello svolgimento della terapia, divenendo una caratteristica importante delle modalità di comunicazione di quella coppia. Il silenzio dell’analista non ha solo lo scopo di indirizzare l’analizzando verso la parola, ma soprattutto verso una particolare modalità di pensiero. Chi ha esperienza analitica sa bene come questo silenzio debba comunicare un sentimento di attenzione partecipe, in caso contrario è facile accorgersi che l’analizzando si sente immediatamente solo, poco interessante, abbandonato e quando succede, in breve tempo, smette di parlare e si chiude in un mutismo da isolamento.

Se valutiamo l’evoluzione storica del concetto psicoanalitico del silenzio scopriamo che dal punto di vista teorico non è stato pienamente messo a punto, anzi, si può dire che rimanga come un elemento implicito, silenzioso appunto, che si è sviluppato all’interno della pratica clinica per un insieme diverso di fattori di cui non si è mai valutato appieno l’importanza. Ripercorrendo la storia della psicoanalisi non ho trovato una definizione teorica soddisfacente dell’ascolto silenzioso, ma solo qualche accenno, a dire il vero piuttosto raro, e solamente all’interno di altri concetti come quello di regressione o di setting. Il motivo teorico che induce al silenzio l’analista è il consiglio freudiano che la situazione analitica debba svolgersi in un’atmosfera di “privazione sensoriale”. E’ stata la psicologia dell’Io che ha molto enfatizzato l’uso del silenzio, teorizzando che il processo analitico debba portare ad una regressione al servizio dell’Io, in risposta alla privazione provata nel setting, condizione necessaria affinché si costituisca una nevrosi di transfert analizzabile. Indurre la regressione ha lo scopo di rendere indipendenti gli apparati di controllo che sorgono dal conflitto rispetto al loro luogo di origine, per poterlo spostare all’interno della relazione terapeutica, cioè nella nevrosi di transfert. Quindi la nevrosi di transfert dipende dalla regressione, cioè l’atmosfera analitica mette in tensione tutta la struttura psicologica del paziente e da questo risulta un processo regressivo. Gli psicologi dell’io sostengono che Freud ha ideato il setting, anche se non lo ha teorizzato, proprio per promuovere la regressione attraverso la privazione sensoriale, ad una certa frustrazione affettiva, ad una limitazione del mondo oggettuale ed alla creazione di un ambiente infantile. Il silenzio dell’analista quindi viene teorizzato come elemento di privazione per stimolare la regressione e si riferisce non solamente all’elemento uditivo, ma anche, con l’uso del lettino, a quello visivo ed alla privazione del movimento.

Anche Lacan accetta la tesi della regressione terapeutica, enfatizzando il valore del silenzio, non solo come mancanza di relazione oggettuale, ma proprio perché crea una domanda che non ottiene risposta e, generando frustrazione, spinge alla regressione. Sappiamo come la scuola di Lacan si caratterizzi per un rigoroso silenzio, che opera quasi come un artificio per risvegliare le aspettative del paziente. La metafora che quest’autore usa, è che il terapeuta ha il ruolo del morto al gioco del bridge.

All’interno del modello freudiano il concetto di regressione viene utilizzato abbondantemente nella clinica, per definire lo stato di malattia intesa come regressione patologica ad una particolare fissazione libidica, non viene però mai utilizzato per definire gli aspetti tecnici della situazione analitica. Freud sostiene, invece, che l’analisi segue la libido nel suo corso regressivo, per poterla rintracciare, renderla cosciente e metterla così al servizio della realtà. La regressione è già presente quando il paziente arriva al primo incontro, perchè è la malattia, il setting può solo scoprirla e contenerla, non causarla.

Oggi possiamo dire che consideriamo il silenzio eccessivo una sorta di acting out dell’analista o un vero e proprio artificio che rende l’atmosfera meno spontanea e più artefatta. Infatti, operare attraverso la privazione sensoriale è un’indicazione che Freud propone nei saggi sulla tecnica, quando scopre il transfert e comprende la necessità della riservatezza analitica, suggerendo di essere impenetrabili per il malato. Poiché se si stabiliscono confessioni reciproche, abbandoniamo il terreno psicoanalitico e provochiamo nel paziente una curiosità insaziabile. L’interesse eccessivo dei pazienti verso la sua persona, fece scoprire a Freud la curiosità sessuale infantile e lo costrinse ad introdurre la regola della riservatezza, non certo per risvegliarla regressivamente. Per fare un esempio clinico, nel caso Richard, Melanie Klein fa l’errore di portare in seduta un regalo per il nipote ed il piccolo paziente se ne accorge ed ha un attacco di gelosia e di invidia. Il setting riservato, quindi, protegge il paziente dal risveglio di gelosie inopportune e quando l’analista tace sulla sua vita privata, la privazione sensoriale è soprattutto protettiva nei confronti del paziente, per cui diciamo che il setting più che promuovere fenomeni regressivi, li evita proprio perché li contiene. La clinica ha insegnato agli analisti come rispettare il setting per preservare il paziente dalle intense reazioni regressive.

Si può dire che l’uso sapiente del silenzio è il cuore dell’analisi, poiché attraverso questo strumento si costruisce il discorso analitico, fin dai colloqui iniziali, dove, in verità, ci sono tante cose da spiegare ed impostare. In fondo si spera quasi che il paziente sia già informato su cosa sia l’analisi, su come funzionano le sue modalità operative, perché sennò si tratta di descrivere una modalità tecnica complessa molto differente da un normale incontro con un qualsiasi altro professionista. Tra le cose da spiegare, oltre ad esempio l’uso del lettino (che non è proprio una cosa intuitiva), vi è la regola fondamentale, cioè il procedimento associativo. È necessario soffermarsi all’inizio di ogni nuova analisi su questa modalità di parlare che corrisponde ad una modalità di pensare. Sappiamo bene come più che una prescrizione iniziale, magari intellettuale, questa indicazione debba diventare un modo di pensare di cui il paziente deve appropriarsi, una funzione analitica della mente, a cui il silenzio dell’analista serve da guida. Questo silenzio quindi è uno strumento attivo che ricorda sempre all’analizzando di attivare la propria funzione associativa. Il problema, come sovente accade, è notare quanto sia inutile prescrivere di dire tutto ciò che viene in mente, a chi non sa cosa dire e nemmeno perché sta soffrendo tanto. Però l’assenza di indicazioni su come si fa a lavorare in seduta, rischia di far sentire il paziente confuso ed alla deriva, perché, sappiamo bene, come all’inizio del trattamento il paziente si rende conto di quanto sia difficile o addirittura impossibile rispettare tale regola. Sarà il silenzio che sosterrà la regola fondamentale, le libere associazioni del paziente, attraverso il non rispondere alle domande che cercano rassicurazione, a quelle dirette, ad ogni tentativo di andare verso altre modalità di affrontare le problematiche psicologiche: sarà quindi un’esperienza, un altro modo di pensare, quello che il silenzio insegna.

Se schematizziamo gli aspetti tecnici, potremmo dire che, nella psicoanalisi tradizionale, il silenzio viene usato dal terapeuta essenzialmente con una duplice finalità: per ascoltare e come comunicazione non verbale che può assumere molteplici significati, ma può celare anche alcuni pericoli. Si potrebbe dire che un analista, un terapeuta, si può considerare esperto quando riesce ad avere una padronanza consapevole di questo strumento terapeutico.

Penso sia facilmente comprensibile perché il silenzio dell’analista abbia il significato di ascolto: la seduta dovrebbe iniziare in silenzio, da parte del terapeuta, poiché la seduta è del paziente e spetta a lui stabilire il tono affettivo e il punto focale dell’incontro. Infatti, se vogliamo conoscere le preoccupazioni dei nostri pazienti, i loro compiti adattativi, il contesto a cui si riferisce il nostro lavoro, gli impulsi e le difese con cui dobbiamo confrontarci, dobbiamo tacere ed ascoltare. Però come abbiamo detto, l’analista non sta solamente tacendo per ascoltare, ma si dispone ad un ascolto particolare, dispone la sua mente in uno stato di attenzione uniformemente fluttuante. Si dispone cioè, ad ascoltare se stesso, ciò che il discorso del paziente evoca in lui, con il paradosso ulteriore del fatto che l’attenzione, l’ascolto di se stessi, si acuisce proprio durante il silenzio del paziente. Il terapeuta rimane in silenzio finché non è il momento di parlare, momento che viene definito dalla tecnica, dall’intensità ed acme emotivo della seduta, dall’argomento che viene scelto per essere interpretato. Si rimane in silenzio finché non si capisce il contenuto manifesto e latente della seduta, le resistenze in atto. Non è necessario parlare se il materiale espresso dal paziente è fluido, associativo, segue i pensieri, le fantasie, le immagini che arrivano alla sua mente. Non si interferisce con parole superflue quando il materiale si muove in direzioni significative, quando vengono alla luce nuove dimensioni dei conflitti psichici, nuovi collegamenti e prospettive causali. In questi casi si interviene con il silenzio per permettere che questo flusso non si interrompa e si esprima pienamente. Rimanere in silenzio non è facile per il terapeuta perché significa spesso dover rinunciare a dire qualcosa che ritiene importante, deve riuscire a trattenere il proprio narcisismo. Sappiamo poi che l’analizzando percepirebbe l’intervento, anche se puntuale, come se il terapeuta non volesse che il paziente continuasse a rivelare le proprie fantasie inconsce e di solito i pazienti obbediscono e si bloccano. Particolarmente prezioso è il silenzio che accompagna le decisioni e i comportamenti bene effettuati dai pazienti, perché anche solo la nostra approvazione rischia di creare uno stato di controllo e di infantilismo eccessivo. Mentre l’accettazione silenziosa è un’approvazione benevola del terapeuta che permette di evitare il pericolo di una possibile sottile manipolazione

A difesa del terapeuta si può dire che per molta parte dell’ascoltare deve fare abbondante uso della sua “capacità negativa”, come la definisce Bion, ovvero tollerare di non capire il materiale della seduta, a volte anche per molte sedute. In questa situazione fare domande e confrontazioni per poter capire qualcosa ottiene solamente di inibire il discorso dell’analizzando, senza apportare alcuna delucidazione. La tentazione di intervenire, anche in maniera costruttiva, indurrà ancora più forti resistenze, favorirà la possibilità di appigliarsi su qualche questione realistica ma secondaria rispetto al conflitto inconscio, per cui bisogna lasciare il tempo che i conflitti irrisolti emergano e si contestualizzino. Rimanere in silenzio, verificando interiormente le varie ipotesi che ci vengono in mente, mantenendo un contatto empatico, è la modalità migliore perché l’analizzando abbia i tempi giusti per far emergere i propri problemi.

Il silenzio del terapeuta in realtà comunica moltissimo: un mio paziente delirante, per esempio, era convinto che fossi telepatico e pertanto rimaneva in silenzio, allora ero costretto ad intervenire cercando di verbalizzare, intuendoli, i suoi stati d’animo, per esempio potevo dire “mi sembra che oggi lei sia un po’ triste” cosicché il paziente diceva: “si è vero, sono un po’ triste, però lei è telepatico”. Quindi bisogna capire come il paziente concepisce il silenzio del terapeuta, se lo sta interpretando correttamente o se invece lo investa di fantasie e valutazioni errate, in base ai suoi personali bisogni.

L’impostazione teorica Winnicottiana ci ha fatto vedere altri aspetti del silenzio che, se anche non comunica contenuti precisi come l’espressione verbale, è fondamentale per la costruzione delle basi della personalità dell’analizzando. Stare ad ascoltare in silenzio significa, al tempo stesso, declinare l’incontro sui due estremi della relazionalità: accettare l’altro, da un lato, ma anche essere tutt’uno con lui, in uno stato fusionale-simbiotico. Il silenzio in questa accezione è prevalentemente teso a ricostituire la holding materna sufficientemente buona, ad offrire l’ambiente giusto ed il sostegno protettivo più adatto perché possa effettuare il percorso psicologico che è mancato durante lo sviluppo. Winnicott ipotizza una propria concezione di regressione che conduce, quasi spontaneamente, ad un processo di guarigione che solo il setting rende possibile, poiché offre al paziente le condizioni ideali per reimpostare e risolvere le proprie carenze di sviluppo. Il pensiero di Winnicott si concentra maggiormente sui pazienti che non hanno conseguito l’integrità della loro personalità, pertanto più che regredire a causa della setting e della privazione sensoriale, si creano le condizioni adatte perché possano progredire verso l’integrazione. Il silenzio ben dosato corrisponde alla frustrazione ottimale, o meglio alla gratificazione non ottimale di Kohut, ed è lo strumento principale per dosare un sufficiente ritardo nel soddisfacimento che induce un momento di tensione e una conseguente delusione, forzando il paziente a tentare di ottenere l’appagamento del desiderio mediante la fantasia. Sappiamo come lo sviluppo psicologico avvenga sempre in una situazione di gratificazione mai del tutto ottimale, tanto che si può pensare che questa sia un’esigenza evoluzionistica, atta a stimolare la formazione delle strutture del pensiero e della individualità. Con questa modalità possiamo affrontare i livelli narcisistici della personalità, poiché ci poniamo nella fase di poco successiva alla fusione, quando comincia la lieve distinzione tra l’io e l’altro. Dalla simbiosi iniziale il primo momento di uscita dalla fusione è quando la madre richiede al bambino un oggetto, che, in realtà, è una funzione. Proporre di seguire la regola fondamentale è proporre di uscire dalla passività simbiotica e dalla dipendenza fusionale per valorizzare una funzione spontanea. Come per il bimbo a cui viene richiesto un primo oggetto, ad esempio le feci, che sono anche una funzione che ha un valore per la madre, con la conseguenza che il bambino riesce ad identificarsi con un oggetto-funzione e non più solo attraverso la fusione.

Secondo Winnicott la capacità di essere solo che il paziente riesce a conquistare nelle sedute spesso si manifesta attraverso il suo silenzio, che non va inteso come un segno di resistenza, ma come una conquista. Questo silenzio infatti rappresenta la prima volta in cui il paziente è stato capace di restare solo. Nel pensiero di questo autore infatti la capacità di tollerare la propria solitudine si acquisisce nella prima infanzia ma in presenza di un adulto protettivo, attraverso lo sviluppo di quella che chiamava la relazionalità dell’io contrapponendola alla relazionalità dell’inconscio pulsionale. Possiamo anche ridefinire le sedute come un gioco attraverso il quale, grazie al silenzio dell’analista, il paziente integra sempre di più se stesso e può spostare la sua attenzione verso la propria vita personale, le proprie fantasie, il proprio mondo interno, sviluppando al contempo il narcisismo sano del proprio vero sé ed imparando a rimanere solo.

Quindi, per concludere, nel repertorio degli interventi a disposizione del terapeuta, il silenzio è, paradossalmente, tra i più importanti fattori terapeutici, per quanto sia di così difficile definizione ed utilizzo. Esso, infatti, racchiude molte più sfumature e significati della parola espressa, e spesso ci illude, anche, di saper rispondere quando non sappiamo o non possiamo farlo. Per esempio, in quei casi in cui siamo confrontati con le domandi più difficili, quelle esistenziali, come quando un paziente ci chiede “cosa c’è dopo la morte, cosa mi succede dopo”, non possiamo che tacere, non per indifferenza, ma per esprimere consapevolezza al paziente, il quale, in realtà, non vuole una risposta, vuole qualcuno che sappia stare con lui, che sappia partecipare al suo dolore e al suo sgomento, in silenzio.

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