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Alvarez A. (2002). Livelli di lavoro analitico e livelli di patologia

Testo della relazione di A.Alvarez presentata il 20 Aprile 2002 presso la Clinica di Neuropsichiatria Infantile dell’Università di Firenze, che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autrice.

Trad. dall’inglese del dr. Francesco Carnaroli
INTRODUZIONE
Sebbene io sia una psicoterapeuta dell’infanzia, il mio training nei primi anni Sessanta e la mia pratica per i successivi 25 anni hanno riguardato pazienti prevalentemente a cinque sedute settimanali. Io amo la psicoanalisi, specialmente perchè funziona. Durante quei primi venticinque anni i miei pazienti furono per la maggior parte nevrotici o leggermente borderline, ma due di loro – un ragazzo psicotico borderline gravemente paranoide e un ragazzo gravemente autistico – mi posero problemi tecnici particolarmente difficili. Constatai che le mie interpretazioni al ragazzo paranoide lo facevano spesso stare peggio – più perseguitato, disperato e violento. Le mie interpretazioni al ragazzo autistico, Robbie, spesso non lo raggiungevano affatto. Su questa sua fase di irraggiungibilità tornerò poi, ma per il momento intendo discutere di una sua fase molto successiva, in qualche modo più accessibile.

Ho visto Robbie su base non intensiva dall’età di 7 anni, ma è venuto in trattamento intensivo a 13 anni. Nella tarda adolescenza si ebbe un miglioramento delle sue condizioni mentali, finalmente aveva un senso del tempo (vissuto comunque con ansia) ed era capace di orientamento spaziale e geografico. Cosicchè era in grado di viaggiare da solo in metropolitana dalla sua casa alla mia. Inoltre, era diventato in grado di avere a volte accesso ai sentimenti. Se la metropolitana aveva avuto un ritardo, o se lui era partito da casa con leggero ritardo in modo da arrivare alla seduta anche soltanto con 1 o 2 minuti di ritardo, si metteva a suonare il campanello con frenetica agitazione ed in uno stato di furore. Mi trovavo così ad aprire la porta ad un tipo ormai alto un metro e ottanta che mi puntava addosso il braccio teso, col pugno stretto che mirava dritto al mio torace. Stava prendendo lezioni di boxe, ed era una vista che faceva paura.

Primo Levi, in La ricerca delle radici – la sua antologia personale di libri che sono stati importanti per lui – spiega perchè vi include qualche consiglio di Ludwig Gatterman sulla prevenzione degli incidenti nel lavoro di laboratorio in chimica organica. Levi dice che il suo è “un sobrio ma fermo richiamo alla responsabilità, “le parole del Padre” che ti risvegliano dall’infanzia e ti dichiarano adulto sub conditione” (P.Levi 1981, p.83). Gattermann consiglia: “Non si devono mai maneggiare senza occhiali protettivi le sostanze esplosive”.

Quando si lavora con etere o con altre sostanze liquide e facilmente incendiabili, occorre badare sempre che non vi siano fiamme nelle vicinanze. Se si sviluppa un incendio, la prima cosa da fare è allontanare subito tutti i materiali combustibili; spegnere poi il focolaio con panni umidi, o versandovi sopra tetracloruro di carbonio, ma non con acqua” (Levi P. 1981, p.85). Per mesi, ogni volta che Robbie partiva alla carica, penso che io stessi probabilmente usando l’acqua: tentavo di interpretare in modo rapido e appropriato. Dicevo qualcosa come “sei sconvolto e molto arrabbiato perchè tu (o il treno) hai (ha) fatto tardi, tu senti come se debba trattarsi di una mia colpa, e non vuoi sapere cosa sia realmente accaduto, e cosa abbia realmente causato il tuo ritardo”. Continuò a venire. Qualche mese dopo cominciai ad essere più coincisa – dicevo semplicemente, in modo simpatetico, “sei molto sconvolto oggi”. Questo aiutava un pò, lo calmava un pò, ma non abbastanza. Ancora alcuni mesi dopo mi capitò di dire – non guardandolo direttamente ma rivolgendo lo sguardo a uno spazio da qualche parte fra noi – “è sconvolgente quando i treni non partono in orario”, o, semplicemente, “è proprio sconvolgente essere in ritardo”. Questa modalità era d’aiuto. Non bisognerebbe mai dire la parola “tu” a una persona psicotica paranoide!

In un’interessante discussione al Centro Anna Freud sul concetto di difesa, Anna Freud, riferendosi al bisogno che la personalità si sia precedentemente strutturata, afferma che “se non hai costruito la casa, non puoi cacciarne fuori qualcuno” (e cioè far uso dei meccanismi proiettivi). Joseph Sandler aggiunge: “E neanche tenerlo rinchiuso in cantina” (e cioè far uso della rimozione) (Sandler, 1985, p.156). Io aggiungerei che nella costruzione della casa si deve cominciare dalle fondamenta.

Gli sviluppi storici e cronologici nella teoria e nella tecnica, da Freud attraverso Melanie Klein fino a Bion, hanno proceduto per così dire dall’alto verso il basso, ma nella clinica bisognerebbe invertire tale ordine. Il mio schema dei livelli del lavoro analitico deriva dal fallimento clinico dello sforzo di raggiungere bambini estremamente danneggiati con interpretazioni basate sulla spiegazione (alla Freud) o sulla localizzazione (alla Klein). Ho dovuto imparare che tali bambini non erano capaci di quel tipo di pensiero spaziale, temporale e causale implicato in ciò che Bruner chiama pensiero a due piste (Bruner, 1968). Sono risultati falsi gli assunti secondo cui il bambino aveva un Io e un Sè a cui io potessi parlare, e un chiaro senso di un oggetto a cui io mi potessi riferire. Quando ci rivolgiamo a considerazioni cliniche, psicopatologiche ed evolutive, io penso – come ho detto – che si debba invertire l’ordine degli sviluppi storici nei livelli di interpretazione. Cercherò di elaborare uno per volta, dall’alto al basso, quattro livelli fino alle fondamenta, e poi tornerò al passaggio fra il terzo e il quarto livello. Proporrò anche alcune considerazioni teoriche per sostenere l’importanza del lavoro al terzo livello, un livello “puramente” descrittivo.

Per cominciare dalla cima:

1) Freud (1905) ci ha insegnato a compiere un’interpretazione esplicativa sul legame fra le parti rimosse e spostate della personalità e le difese contro di esse. (La tua credenza che la tua gamba sia paralizzata è dovuta al tuo senso di colpa inconscio riguardo all’ostilità che hai sentito verso tuo padre morente mentre lo stavi assistendo).

2) Klein (1946) ci ha insegnato a fare un’ulteriore tipo di interpretazione esplicativa, cioè interpretazioni che collocano o ricollocano parti scisse o proiettate della personalità. (Stai tentando di farmi sentire inferiore con lo scopo di liberarti del tuo sentimento di inferiorità).

3) Da Bion (1962), Winnicott (1951; 1971), Joseph (1978) e gli psicologi dello sviluppo (Stern, 1985) abbiamo appreso ad andare più lentamente, a fare commenti più puramente descrittivi e di contenimento, e a rispettare i paradossi.

I primi due livelli di interpretazione implicano una interpretazione in due parti, e presuppongono una capacità di pensiero a due piste (Bruner, 1968) da parte del paziente. Jerome Bruner (1968) ha descritto uno sviluppo cognitivo che egli ha chiamato la capacità di “pensare tra parentesi” o di tenere qualcosa di riserva. Lo studio di Bruner, marcatamente cognitivo ma affascinante, osservò lo sviluppo di bambini da uno stato neonatale di attenzione a una pista, in cui essi possono soltanto succhiare o soltanto guardare, a una capacità coordinata di funzionamento a doppia pista a quattro mesi, in cui essi possono fare entrambe le cose contemporaneamente. (Prima, al primo stadio, essi chiudono i loro occhi mentre succhiano; al secondo stadio, cominciano ad essere in grado di alternare il succhiare e il guardare; al terzo, possono mantenere un succhiamento non realmente nutritivo mentre guardano qualcosa. (Ci si immagina che questo qualcosa sia probabilmente la faccia della madre!). Bruner (1968: 18-24, 52) chiama questo terzo stadio “tenere il posto” (come quando mettiamo il dito su un posto nel libro che stiamo leggendo, mentre ascoltiamo qualcuno per un momento).

Egli descrive un’osservazione sul successivo passaggio al pensiero a tre piste ed anche a una più grande molteplicità concettuale: lo sperimentatore porge al bambino un giocattolo e immediatamente dopo gliene porge un secondo. A circa 7 mesi, il bambino lascia cadere il primo giocattolo, raccoglie il secondo con la stessa mano, lo muove verso la propria bocca, e dimentica il primo. A circa 12 mesi, il bambino è in grado di mettere il secondo giocattolo nella sua mano libera, ma, se gliene viene offerto un terzo, lascia cadere uno dei primi due. Può maneggiarne due ma non tre.

A circa un anno e mezzo, quando gli viene offerto il terzo giocattolo, non lascia più cadere uno degli altri due, ma ne mette uno nell’incavo del gomito, cosicchè ha una mano libera per prendere il terzo. Poi ne prenderà altri nella stessa maniera. Bruner mostra che il bambino è passato da un limite di uno, definito dalla bocca, a un limite di due, definito dalle mani, a un limite di molti, definito da una riserva. Piccoli banchieri della mente. Bruner non discute le condizioni sulla base delle quali questo senso di una riserva può essere facilitato o ostacolato, ma gli psicoanalisti hanno ipotizzato che il passaggio dalle relazioni bi-personali alle relazioni tri-personali potrebbe anche avere un ruolo nello sviluppo di questo tipo di numerazione profonda (Klein, 1923; Britton, 1989).

Io ho osservato esempi interessanti del tipo di interazione genitore-bambino che conduce due bambini a sviluppare una forte capacità di mantenersi in contatto con gli eventi sullo sfondo mentre badavano agli eventi al centro della loro attenzione (Alvarez & Furgiuele, 1997). Penso che questa capacità (di registrare due versioni differenti dell’oggetto – possibilmente entrambe positive – cioè “lei è succhiabile ma è anche guardabile”) giochi un ruolo importante nello sviluppo della formazione del simbolo e che potrebbe essere un precursore di quella capacità – che caratterizza la posizione depressiva – di tenere insieme due o più pensieri/sentimenti diversi e opposti (amore e odio).

Molti dei nostri pazienti, comunque, non sono in grado di pensare due pensieri insieme, o anche in sequenza, fino a che non divengono capaci di pensare un pensiero più pienamente. Per loro, il “che cosa” dell’esperienza ha bisogno di essere assunto come prioritario rispetto al “perchè”. Per loro, potrebbe essere sufficiente andare avanti – perchè la loro mente cresca – con la semplice esplorazione delle qualità che circondano un aspetto dell’oggetto (per es. la sua luminosità) o del sè (la mia voce può essere più alta!).

Dovrei dire che sebbene mi accinga a parlare di differenti livelli di malattia che corrispondono a questi quattro livelli, i pazienti si rifiutano di farsi collocare in nette categorie diagnostiche, per cui io sto parlando, in realtà, di differenti stati della mente, che possono, come è ovvio, determinarsi nello stesso paziente.

4) Il mio lavoro con Robbie mi ha portato ad ipotizzare qualche anno fa che, con i pazienti gravemente malati il cui senso del sè e dell’oggetto si è atrofizzato, potrebbe essere necessario un quarto livello di lavoro implicante una tecnica più attiva di “richiamo”, per richiamare la persona a se stessa (Alvarez, 1980; 1992). Svilupperò questa idea più avanti. Anche il terzo livello potrebbe non raggiungerlo.
Io ipotizzo che perchè un paziente possa comprendere interpretazioni esplicative alla Freud o alla Klein egli debba avere una qualche capacità di pensiero a due piste. La capacità di pensare a interpretazioni sul “perchè” (che riguardano la rimozione) o a interpretazioni sul “chi” e “dove” (che riguardano la scissione o l’identificazione proiettiva) implica la presenza della capacità di pensare due pensieri in modo abbastanza completo. Le precondizioni emotive sono chiare – una certa capacità di tollerare angoscia e dolore, e un certo sviluppo dell’Io e della capacità simbolica: si tratta di uno stato della mente nevrotico o leggermente borderline. Vale la pena di notare che anche una interpretazione di transfert basata sul qui ed ora, se – poniamo – il paziente si sta lamentando su come qualcuno a scuola tratta qualcun altro, implica di fatto il prendere in considerazione, nella mente, quattro pensieri contemporaneamente: cioè lui, lei, tu ed io.

TERZO LIVELLO: LA DESCRIZIONE
A. INTRODUZIONE
Il terzo livello di lavoro riguarda la descrizione e affronta il problema dell’essere ascoltati da pazienti che non sono in grado – o lo sono a malapena – di pensare un pensiero pienamente. Penso che questo livello sia pertinente con stati della mente psicotici o borderline gravi, o anche con persone che stanno recuperando da traumi gravi o cronici. Su questo punto, siamo debitori verso il concetto di contenimento di Bion, verso le idee di Betty Joseph riguardanti il contenere le identificazioni proiettive per un certo tempo e l’evitare la restituzione prematura di ciò che è stato proiettato, e infine verso le idee di Winnicott sul rispettare il paradosso nell’area transizionale – cioè sul non identificare troppo presto l’oggetto transizionale come appartenente all’oggetto o al sè. Inoltre sono pertinenti anche i concetti di sintonizzazione e di condivisione dello stato mentale, proposti da psicologi dello sviluppo come Daniel Stern. Secondo me, un concetto di grande aiuto in quest’area è quello bioniano di funzione alfa – la funzione della mente che rende pensabili i pensieri, e conferisce significato all’esperienza. A questo terzo livello, ho dovuto apprendere che vi sono situazioni in cui è meglio evitare l’intera questione del chi sta avendo l’esperienza. Con certi pazienti è meglio spendere più tempo esplorando il èche cosà di un’esperienza. Se il paziente si sente molto perseguitato o disperato, o semplicemente confuso, potrebbe essere meglio l’agganciare al nome uno o due aggettivi, agganciare uno o due avverbi al verbo, e lasciarlo a maggese. La parola “tu” potrebbe sovraccaricare terribilmente il paziente perseguitato. “è sconvolgente quando” potrebbe collocare il sentimento a qualche distanza. Poi il paziente può scegliere se lasciare che quella sia la sua esperienza, che appartiene a lui, oppure no. Il nominare e il descrivere l’esperienza io credo che debba avere priorità sul collocarla. Questo è importante per i pazienti psicotici che emergono da stati di grave dissociazione e che hanno bisogno semplicemente di identificare bene uno stato emozionale prima di essere in grado di riconoscerlo come appartenente a loro; è inoltre importante con alcuni pazienti traumatizzati o deprivati che hanno una scarsa strutturazione emotiva del loro inconscio o anche dei processi primari. Schore (1996; 1998) ha ipotizzato che la sede dell’inconscio sia localizzata nella corteccia prefrontale destra e che, quando stiamo lavorando con pazienti borderline, il problema non è quello di rendere l’inconscio cosciente, ma quello di ristrutturare o anche di strutturare l’inconscio.

B. UN ESEMPIO DI CONTENIMENTO DELL’IDENTIFICAZIONE PROIETTIVA
Il concetto bioniano dell’identificazione proiettiva come comunicazione descrive situazioni in cui la madre contiene e trasforma le proiezioni del bambino in modi che rendono tollerabile l’intollerabile (Bion, 1962). Egli paragona questa funzione con la funzione di contenimento dell’analista, e vi sono molti esempi di questo nel lavoro clinico in cui il paziente è in grado di esplorare un’esperienza intollerabile attraverso qualcun altro. Betty Joseph ha posto attenzione sull’esigenza che gli analisti contengano tali esperienze in se stessi talvolta anche per lunghi periodi senza restituire la proiezione al paziente (Joseph, 1978), e più recentemente Steiner ha posto una distinzione fra interpretazioni centrate sull’analista e interpretazioni centrate sul paziente (Steiner,). Freud e Bion hanno sottolineato l’importanza della frustrazione per l’apprendimento, ma in questo caso sembra che ciò che promuove il pensare sia la libertà dalla frustrazione – cioè l’opportunità di esplorare l’esperienza in qualcun altro che la può sentire e pensare profondamente.

Una ragazza disabile e deforme, condannata a vivere su una sedia a rotelle, divenne disperata e suicidaria quando passò dalla scuola primaria alla scuola media superiore. Dopo pochi mesi di terapia, cominciò a far sedere la sua terapeuta su una sedia col nastro adesivo avvolto intorno alle gambe. Disse alla terapeuta che lei (la terapeuta) non sarebbe mai uscita, che avrebbe dovuto star li’ per sempre. Il gioco era per finta, ma il tono era mortalmente e acidamente serio. Chiaramente questa figura rappresentava lei stessa, ma dal punto di vista clinico era importante che la terapeuta esplorasse tutto ciò in se stessa e che non restituisse la proiezione nelle fasi iniziali. La paziente non soltanto voleva, bensì aveva bisogno di provare l’identità di essere quella sana, mentre vedeva qualcun’ altro sperimentare disperazione ed rancore al posto suo. Sentiva che doveva essere il turno di qualcun altro. Il senso di un bisogno giusto, legittimo è molto diverso da un desiderio. Il gioco cominciò in modo sadico, ma, via via che le settimane procedevano, divenne drammatizzato in modo più simbolico, e infine in certi momenti umoristico. Una restituzione prematura della sua proiezione avrebbe soltanto aumentato la sua già insopportabile frustrazione e disperazione e avrebbe precluso la lenta esplorazione di dolorose verità.

C. UN ESEMPIO DI FUNZIONE ALFA CHE FORNISCE AUTO-RISONANZA
Un bambino piccolo, David, aveva avuto un’infanzia assai difficile, era emotivamente abusato e gravemente ritardato nel suo sviluppo. Inizialmente non sapeva come giocare, ma gradualmente cominciò ad usare l’orsacchiotto per sgridarlo e urlargli contro. Poi aggiunse un nuovo gioco: cominciò a chiedere al terapeuta di unirsi a lui nel drammatizzare qualcuno che tossiva e soffocava. David era nato prematuro, più volte si era strappato la maschera dell’ossigeno, era “ricoperto di tubi”, ed ebbe crisi respiratorie e ricoveri ospedalieri nel corso del primo anno di vita. Nel loro duetto congiunto, lui e il terapeuta tossivano, avevano conati di vomito e soffocavano insieme, mentre David insisteva sul rendere esattamente ogni dettaglio. Quando il suo terapeuta, ricordando la sua storia iniziale, a un certo punto disse “Povero bambino!”, David rigettò questo con impazienza. Sembrava che il terapeuta dovesse essere David prima che David fosse pronto a che il terapeuta sentisse con lui, e certamente prima che lui fosse pronto a che il terapeuta sentisse per lui. Forse l’identificazione – o è ciò che Stern chiama stati mentali condivisi? – deve precedere l’empatia, e l’empatia deve precedere la simpatia. La simpatia, dopo tutto, proviene da un’altra persona. Forse David inizialmente aveva bisogno di trovare e di collocare il suo sè traumatizzato, e di rendere pensabile l’impensabile. L’esattezza della replica era chiaramente importante per lui. (Nota bene: questo non è un esempio di identificazione proiettiva: entrambi, sia il bambino che il terapeuta, dovevano rappresentare la parte. Era un duetto, non un assolo, e il duetto forniva la necessaria funzione alfa e la risonanza).

QUARTO LIVELLO: IL RICHIAMO, E QUESTIONI PIU’ AMPIE RIGUARDANTI IL LIVELLO DI ATTIVAZIONE: COGLIERE IL LIVELLO GIUSTO DI INTENSITà

INTRODUZIONE
Questo livello di lavoro si rivolge al problema di essere ascoltati da pazienti che non possono ascoltare o che non possono sentire a causa dell’autismo o di una dissociazione di natura cronica. Ho notato che questi problemi sorgono in modi molto diversi con differenti sottotipi di autismo e anche con bambini molto deprivati o perversi. Altrove ho collegato il concetto clinico di èrichiamò con le scoperte dell’infant observation e dell’infant research sul ruolo del caregiver nel risvegliare, amplificare e rendere attento il bambino (Alvarez, 1992). Ho affermato che la tecnica del èrichiamò sia pertinente soltanto nei casi di autismo grave o di deprivazione in cui vi è un grave deficit nel senso del sè e dell’oggetto. Tale lavoro può consistere in un risvegliare il paziente alla vita mentale o, almeno, nell’offrirgli èrealizzazioni’ per èpreconcezioni’ a malapena sperimentate. Bion sosteneva che una preconcezione ha bisogno di incontrarsi con una realizzazione per poter formare un concetto. Se le realizzazioni hanno fallito, le preconcezioni possono affievolirsi o anche atrofizzarsi.

UN ESEMPIO DI “RICHIAMO”
Robbie, un paziente autistico, mostrava un comportamento che sembrava il più irrelato e asociale che io avessi visto fuori dalle mura degli ospedali psichiatrici. Ci si poteva domandare: con quale tipo di figura umana o quasi umana o pre-umana lui era o non riusciva ad essere in relazione? La sua risposta, quando fu finalmente in grado di metterla in parole, fu “una rete con un buco in essa”. Quello ovviamente non è un oggetto molto umano, utile o magneticamente attraente. Il mio interminabile problema terapeutico fu: come avrei fatto a diventare sufficientemente densa, sufficientemente consistente, sufficientemente concentrata da procurargli qualcosa o qualcuno che potesse concentrare la sua mente? Nell’attendere semplicemente, in modo ricettivo e troppo passivo, che lui affiorasse dal suo stato infinitamente disperso e flaccido, sarebbe passata una vita. E infatti le cose andarono così, fino a quando non mi divenne tardivamente chiaro quale fosse il mio compito con lui – uno dei miei primi pazienti, e uno dei più malati. La sua stessa immagine di ciò che infine riusci’ a raggiungerlo fu una sorta di sagola di salvataggio. Robbie era una ragazzo profondamente vuoto e senza vita, ma un giorno, poco dopo che il suo trattamento era finalmente aumentato da una volta al mese a cinque volte alla settimana all’età piuttosto avanzata di 13 anni, egli descrisse con eccitazione (non saprei dire se aveva avuto un sogno o una fantasia molto vivida) come una “calza lunga lunga lunga” fosse stata lanciata a lui che stava in una buia fossa nella quale, disse, lui era stato per un tempo molto lungo. Questa calza rese in grado lui e tutti i suoi cari di uscire e di “andare volando all’altra parte della strada”. Egli aveva sempre avuto le caratteristiche inerti di una bambola di pezza e parlava con piccole frasi apatiche, svogliate, indifferenti, ma in questa occasione ebbe un ritorno alla vita – drammatico, verbale e musicale. L’immagine sembrava alludere a una sagola di salvataggio.

Robbie era socialmente menomato e indifferente perchè, penso, si era arreso. A questo proposito vi sono interessanti questioni riguardanti i sottotipi dell’autismo: io giunsi alla conclusione che Robbie non si nascondeva, bensì era profondamente perso. Con i bambini autistici che presentano un ritiro più attivo (tipo guscio), nei quali vi è un sè che si nasconde, dobbiamo essere molto più attenti a non essere intrusivi e a rispettare le distanze (cfr. Reid, capitoli 2 e 7 in A e B). La mia funzione sembrava essere quella di richiamare Robbie ad essere un membro della famiglia umana, poichè egli non sapeva più come fare le sue richieste. Egli aveva sottolineato la lunghezza della corda/calza. E ciò corrispondeva esattamente alla mia costante sensazione che egli avesse da attraversare grandi distanze – distanze create sia dal grado della sua apatia inerte, sia dalla sua cronicità: era stato molto lontano, e c’era stato per un lungo tempo. Aveva bisogno di essere richiamato a se stesso.

Scelsi la parola “richiamo” per descrive la situazione. La terra desolata non chiede di essere richiamata, tuttavia il suo potenziale nascosto di crescita può fiorire nonostante tutto, quando è richiamato. Avevo cominciato a notare che talvolta Robbie poteva essere risvegliato rispetto a se stesso e a me quando io parlavo con un tono particolarmente vivace o incalzante. (Robbie successivamente parlò spesso del tempo in cui era stato mandato via, in un paese di estranei, a 18 mesi “quando sembra che sia cominciata la sua discesa nell’autismo profondo, come del tempo in cui lui era morto).

Si deve prendere in considerazione la stessa cronicità, prima di affrontare grandi questioni come quelli riguardanti le ragioni originarie dell’autismo.
Nè le precedenti spiegazioni psicoanalitiche che avrebbero visto la sua apatia inerte come un ritiro autistico difensivo, nè altre che avrebbero potuto vederla come risultante della proiezione delle funzioni attive dell’Io negli altri, sembravano appropriate per questo livello di deficit. Sembrava che le sue figure interne fossero altrettanto vuote di vita quanto il suo senso di sè. Forse Robbie aveva una predisposizione all’autismo (Rutter, 1991) e forse due traumi precoci avevano costituito la goccia che fa traboccare il vaso (cfr. Reid, cap. sul trauma). Ma anni di autismo producono ulteriori conseguenze. Un debole senso della realtà delle altre persone può divenire ancora più debole, e il bambino può perdere ancora di più l’interesse. La malnutrizione o uno stato di inedia costituiscono una condizione molto diversa dalla fame. Pensando alla storia della sagola di salvataggio raccontatami da Robbie, divenni via via consapevole del fatto che mi ero sentita spesso sovraccaricata di sensazioni di urgenza rispetto alla sua vicinanza alla morte psichica; in altri momenti era anche troppo facile dimenticarsi di tutto questo e permettere alla mia mente di rimanere pericolosamente addormentata, proprio come faceva lui. Di conseguenza ho dovuto imparare a pensare a come tradurre l’iniziale drammatica operazione di salvataggio e quei momenti di urgenza vicina al panico in qualcosa di più simile a un costante regime di cura vigilante e intensiva, che da un lato non sfiorasse il panico ma dall’altro non fosse troppo ristagnante. Avevo notato, precedentemente, che spesso m’ero trovata a far capolino con la testa nel suo fascio di visione, o a chiamarlo per nome, in risposta alla sua vuotezza da bambola di pezza. Ora penso che sia possibile rispondere ai bisogni del bambino di essere trovato nel fondo della sua fossa buia (o, nel caso di altri bambini, di essere trovati nel loro luogo di riposo permanente, troppo calmo e confortevole), che sia insomma possibile rispondere al suo bisogno di essere raggiunto, lavorando su se stessi per fornirgli un’attenzione più serrata, più tesa, meno fiacca. Questo bisogno non sempre implica che si debba muovere la propria testa o alzare la voce, ma ha qualcosa a che fare con il livello di intensa attenzione necessaria (forse come la preoccupazione materna primaria descritta da Winnicott (1956). In un certo senso, i cognitivisti avevano ragione a criticare l’idea dei terapeuti psicoanalitici che le interpretazioni esplicative sul passato potessero aiutare questi bambini così deteriorati nel loro funzionamento mentale. Abbiamo dovuto imparare che meno attenzione al passato e più al presente, con accurata attenzione alla qualità della relazione nel vivo qui ed ora, sembra dare buoni risultati e cominciare a riparare il deficit sociale sia del sè che dell’oggetto interno.

Io ho precedentemente ipotizzato un possibile legame tra le attività di “richiamo” rivolte ai pazienti disperatamente malati, e le più normali attività di richiamo e di risveglio in cui sono coinvolte le madri normali coi loro normali bambini. Penso che certe volte noi abbiamo bisogno di utilizzare ciò che Trevarthen e Marwick (1986) hanno chiamato “motherese”, per raggiungere qualcuno di questi bambini con disturbi della comunicazione. Se per esempio il bambino autistico ha cinque anni, il suo sè non autistico, anche se comincia ad emergere e a crescere, può essere caratterizzato da uno sviluppo gravemente ritardato. Il “sè infantile” sano può avere 9 mesi, 5 mesi, o anche 3 settimane. Si può quasi sentire il loro cervello cominciare a bisbigliare quando usiamo con loro il “motherese” – cioè quando gli parliamo o li coinvolgiamo su questo livello primario, nel modo con cui le madri parlano ai neonati.

Trevarthen e Hubley (1978) hanno mostrato come il tono delle madri cambi quando il bambino ha raggiunto i tre o quattro mesi, passando da una tonalità più alta a un’altra leggermente più bassa, e da una velocità èadagiò a una “andante”. Non so se questo quarto livello di intervento debba essere chiamato psicoanalitico, nè me ne preoccupo, nella misura in cui funziona. Ciò che so è che il nostro lavoro con i pazienti molto danneggiati ha bisogno di essere informato dal punto di vista psicoanalitico, psicologico-evolutivo e psicopatologico.

UN’ALTRA TECNICA ATTIVA – SCORAGGIAMENTO ATTIVO DEI RITUALI RIPETITIVI
Reid, Tustin e Alvarez hanno tutte indipendentemente sottolineato l’esigenza che vi è talvolta di scoraggiare i rituali nell’autismo. Chiaramente tale fermezza è fuori luogo quando il bambino usa il rituale per ragioni difensive o disperatamente protettive, ma la tossicomania e la perversione pongono particolari problemi che talvolta sollecitano soluzioni più forti. Di solito io limito i momenti di scoraggiamento attivo al lavoro con i rituali gravemente tossicomanici o perversi nell’autismo grave, ma è anche un fatto che il tono di voce è anche importante con i pazienti borderline e con quelli che hanno un disturbo del carattere.
Ora intendo riallacciarmi a stati della mente leggermente meno gravi e prendere in considerazione quanto, rispetto ad essi, possa essere appreso dal livello 4. Questa parte successiva pone dunque problemi tecnici che si situano approssimativamente nel passaggio fra il quarto e il terzo livello.

LIVELLO 3
A. IPER-ATTIVAZIONE E INTROIEZIONE: SINTONIZZARSI SUL GIUSTO LIVELLO DI INTENSITà
Per decenni gli psicoanalisti hanno studiato i processi di proiezione. Forse dovremmo rivolgere altrettanta attenzione alle difficoltà che questi pazienti hanno nei processi introiettivi, e a come i terapeuti possano facilitare tali processi.
In anni recenti ho avuto in trattamento un ragazzo con autismo grave con una qualità molto diversa da quello di Robbie. Robbie era passivo, floscio e disperante; Samuel era inizialmente pieno di una vitalità compressa e frenetica e di una riserva profonda di rancore. Non parlava e non giocava mai. Negli stadi successivi del trattamento, quando aveva imparato a provare piacere nel giocare a palla, in certi momenti mi gettava la palla addosso con cattiveria. La palla era grande e abbastanza morbida, per cui non correvo pericolo. Cominciai a notare che se io gliela gettavo indietro in modo troppo gentile – forse nel tentativo di contenere e trasformare le emozioni violente che avevano alimentato il suo lancio – sembrava afflosciarsi, deluso.

Se io diventavo in qualche modo severa perchè uno suo tiro aveva sfiorato un oggetto che poteva rompersi, sembrava perseguitato e sconvolto. Tuttavia, se gli gettavo la palla con altrettanta cattiveria di quella con cui l’aveva gettata a me, ma in una maniera umoristica, leggermente drammatizzata e un pò gigionesca, gli piaceva. Giunsi a pensare che lui non soltanto volesse una lotta, ma che proprio ne avesse bisogno. Nello stesso modo, se – dopo qualche anno di trattamento – ricorreva al suo movimento rituale della mano, o camminava in calzini sul bordo del tavolo rischiando di cadere, ma ora in un modo provocante e irritante (non più assorbito autisticamente in queste attività), la mia risposta doveva essere calibrata in modo molto preciso.

Trovai che se non mi sentivo irritata o delusa e commentavo semplicemente con calma che lui stava cercando di irritarmi, lui duplicava i suoi sforzi. In tali momenti, io credo che lui sentisse che stavo colludendo con lui in uno sporco gioco di potere. Ma – e questo mi sconcertò – anche quando mi occupavo di elaborare il mio controtransfert e la mia risposta non era ipocrita nè denegante, lui risultava profondamente deluso. Cominciai a pensare che anche quando la mia risposta era genuina, era però troppo calma. Tuttavia se drammatizzavo e gigioneggiavo un’esasperazione umoristica, calda ma genuina, del tipo “Oh no!, non ricominciare con quella noiosa mano!”, lui si metteva a guaire e a ruggire in modo ridanciano e divertito, e sembrava in qualche modo stupefacentemente rinvigorito. Il rancore abbandonava la scena, egli abbandonava spesso il suo rituale e riprendeva un’attività più impegnata. Mi divenne chiaro che, perchè lui si sentisse realmente capito e realmente ascoltato, non era soltanto questione di cogliere il contenuto emotivo in modo azzeccato, ma anche di raggiungere il giusto livello di intensità. Sono convinta che questa potente vitalità richiedesse una risposta sufficientemente alta o sufficientemente grande. (Ho spesso sentito che la mia stanza era troppo piccola, la mia voce troppo sottile, il mondo troppo gracile per la sua vitalità vasta ma enormemente compressa).

Greenspan (1997) ha cose molto interessanti da dire su questi problemi terapeutici. Egli afferma che si deve cercare di placare i pazienti iper-attivati, ma non troppo, altrimenti li si perde. Marina Bardyshevsky (comunicazione personale) ha osservato che bambini che appaiono autistici in un orfanotrofio russo sembrano avere una fascia molto stretta di livello di attivazione attraverso la quale essi possono essere raggiunti. Un bambino rispondeva soltanto era in servizio un’infermiera molto brusca, quasi brutale. Compresi che se la risposta apatica di Robbie alla vita aveva bisogno di essere “regolata verso l’alto”, il contrario non è necessariamente vero, come mostra il trattamento di Samuel: i pazienti super-reattivi non hanno necessariamente bisogno di qualcosa che li calmi. Essi possono avere bisogno di livelli di stimolazione che siano sufficientemente alti, anche se non troppo. (Io ho visto persone sessualmente abusate e dedite a loro volta all’abuso sessuale, che cominciavano a rinunciare alle loro fonti perverse di eccitamento, ma solo quando erano riuscite a trovare altre fonti più normali di stimolazione. Altrimenti il vuoto terrorizzante che ne sarebbe derivato li avrebbe risospinti verso la perversione).

B. L’INTROIEZIONE A LIVELLI PIU’ NORMALI DI LAVORO
Che dire di altre forme, più generali e sottili, di incoraggiamento e di scoraggiamento connesse col difficile bilanciamento fra l’essere troppo attivi e intrusivi e l’essere troppo neutrali e distanti? Gli atteggiamenti mentali tossicomanici o perversi esercitano un potere e un’attrazione terribili, e ci può capitare di avere bisogno di prestare la nostra forza al paziente per lottare contro di essi con lo scopo di ripartire in un’altra direzione.

Giacchè le nostre risposte controtransferali non verbali vengono inevitabilmente comunicate (attraverso livelli proto-musicali dell’esperienza – cfr. Trevarthen, 2001; Knoblauch, 2000), noi dobbiamo cercare di fare del nostro meglio con l’impulso a spingere o a trattenere, o piuttosto dobbiamo cercare di utilizzarlo (ma non con troppa forza). Recentemente mi sono trovata con un dilemma con un’adolescente, Abigail, che mi era stata inviata all’età di 15 anni a causa di una depressione e di gravi angosce di separazione.

Tre anni dopo, a 18 anni, era in una certa misura migliorata, ma tutti i problemi erano bruscamente riaffiorati dopo che si era diplomata con lode all’high school e si avvicinava il tempo dell’anno di intervallo in cui avrebbe viaggiato per il mondo (prima di entrare all’università). Si sviluppò una vera depressione e un lutto rispetto al lasciare l’idillica casa di famiglia, i suoi genitori troppo devotamente dedicati a lei e, per un periodo molto minore, anche il suo fidanzato. C’era anche un timore fobico e anche talvolta realistico riguardo ai pericoli di viaggiare per il mondo. Entrambe sapevamo, comunque, del modo in cui lei drammatizzava eccessivamente le sue paure e i suoi lutti, e del modo con cui altre persone potevano rimanere coinvolte in un crescente circolo vizioso di angoscia. Io le interpretai sia il panico reale, sia l’aspetto masochistico insito nella drammatizzazione eccessiva. Tuttavia non approfondii molto questo secondo aspetto, fosse perchè temevo che lei stesse realmente avendo un break-down!

Le dissi che ci sguazzava un pò nel suo lutto e nel suo panico, ma probabilmente in modo non abbastanza energico. Un giorno, improvvisamente si ricordò della notte di tre anni prima in cui suo padre le aveva tolto il cellulare dopo averla trovata ancora a confortare il suo fidanzato alle quattro del mattino. Erano stati al telefono tutte le notti per settimane ed entrambi crollavano da quanto erano esausti. Ho avvertito che mi stava comunicando che io avrei dovuto essere più ferma con lei, in modo che lei avrebbe potuto ascoltarmi. Il comportamento tossicomanico o perverso, per messo del suo essere abitudinario e del suo carattere eccitante, esercita una tale attrazione, che il nostro comportamento contenente o neutrale può essere sperimentato come una collusione o comunque come una debolezza nei confronti delle cattive abitudini mentali – o peggio, non essere neanche percepito. E’ facile che pazienti che sono appiccicati a un determinato comportamento sentano che l’oggetto sta colludendo a causa della sua debolezza o della sua stupidità. Gli oggetti cattivi sono importanti ma gli oggetti stupidi lo sono altrettanto. Ho dovuto rendermi conto, lavorando con bambini gravemente psicopatici, che il primo indizio del fatto che non volevo fronteggiare quello che avevo davanti, era che alzavo la voce. Ho notato che quando riuscivo a chiamare a raccolta il coraggio per discendere nel cimitero emotivo in cui il bambino si trovava, la mia voce scendeva ad un registro più basso.

Ancora una parola sull’Oggetto Stupido. Chiaramente, il fatto che noi ascoltiamo attentamente qualcuno è influenzato dal fatto che lo si trovi interessante. I nostri pazienti possono esigere di trovarci interessanti e importanti per loro, ma di fatto potrebbero non essere in grado di far sapere a se stessi e a noi che ci percepiscono noiosi. Questo può rallentare il processo di cambiamento, e può essere più difficile da scoprire con pazienti che credono veramente di stare ascoltando e lavorando con noi, ma nei quali l’introiezione e i processi di interiorizzazione stanno andando avanti su un livello troppo superficiale o intellettuale. Molte persone falliscono nell’uso dei loro occhi ed orecchi mentali, non a causa dell’angoscia, ma della mancanza di interesse. Se non c’è almeno un piccolo senso di soggezione, la curiosità può morire e il sale della vita può perdere il suo sapore.

STRUTTURAZIONE DELL’INCONSCIO AL LIVELLO TRE: STABILITà E IDENTITà DEGLI STATI EMOZIONALI
In mia video-ricerca microanalitica alla Clinica Tavistock su sedute con Samuel, paziente autistico gravemente frammentato, si osserva chiaramente il suo iniziare a mostrare emozioni primarie (Alvarez e Lee, 1997). Io penso che un’importante componente del sè sia costituita dal permettere a un sentimento di avere una qualche durata, dal riconoscimento che esso è familiare e che, più o meno, proviene dall’interno di sè. Tale strutturazione non è propriamente riflessiva, ma può essere proto-riflessiva.

Io penso che questa considerazione sia rilevante nella questione di riuscire ad avere, coi bambini autistici o gravemente deprivati, un approccio sintonizzato sul giusto livello di sviluppo, che spesso è estremamente arcaico. Certi bambini non hanno mai imparato a respirare agevolmente, a digerire agevolmente, a stare sdraiati, seduti o a camminare agevolmente, o a guardare il mondo circostante in modo fermo. Essi hanno bisogno di essere aiutati a rallentarsi, a soffermarsi sull’essere blu o sull’essere cubico di un blocco da costruzioni blu (l’oggetto), oppure a soffermarsi sull’altezza delle loro vocalizzazioni (il sè). Un mio paziente autistico gravemente non integrato non poteva guardare i giocattoli che gli interessavano neppure quando lo voleva. Gradualmente divenne in grado di farlo, ma ebbi l’impressione che precedentemente lui non avesse mai imparato a esplorare oggetti dentro a un confine (Stern, 1983), sebbene stesse gradualmente cominciando a farlo. Il punto è che tale attività di esplorazione prende tempo, richiede una certa “dolce, pigra libertà” (Kundera, 1986), e alcuni bambini molto agitati non riescono ad attingervi. Affinchè il bambino riesca ad avere e ad assaporare l’esperienza, ad essere in grado sia di introiettare la realtà sia di esplorare la sua propria esistenza, egli ha bisogno di un’abbondante condivisione dell’esperienza.

Questa capacità di concentrarsi sull’esperienza, e di trovare modi per renderla più durevole, può essere appresa più tardi nell’infanzia con l’aiuto di un input sufficiente da parte di un caregiver o di un terapeuta. Un bambino piccolo molto deprivato, abusato e traumatizzato che sta cominciando a migliorare in terapia, recentemente, alla fine di una seduta, mentre stava uscendo dalla porta, si è voltato e guardando indietro ha detto: “Lo sai, io posso ricordarmi della prima volta che venni qui”. Ed ha aggiunto che sarebbe stato in grado di ricordarsene anche a casa perchè sarebbe stato capace di “pigiare il pulsante di pausa”. Il suo terapeuta pensò che egli stava imparando ad assaporare e a richiamare alla mente l’esperienza – e cioè, nei termini di Bion (1962), a poter utilizzare la “funzione alfa” sui propri pensieri per renderli pensabili.

Una donna autistica stava dipingendo cunei o schizzi di colori – e la terapeuta stava descrivendo le caratteristiche del colore, per es. la brillantezza, e il modo in cui le nuove linee erano di un colore più scuro ed attraversavano il flusso. (Paul Klee: alla linea piace andarsene a passeggio). Qui non si trattava di esperienza coesa o formata – ma semplicemente di scoprire il colore, la qualità di qualcosa. La donna dava risposte ecolaliche se per caso la terapeuta le faceva una domanda o le diceva qualcosa riguardante i fatti, ma mai quando descriveva semplicemente la qualità dei colori e delle pennellate. Sander ha osservato l’importanza, per il neonato, dell'”organizzazione degli stati” – distinguere il sonno o la sonnolenza dall’essere sveglio o pienamente vigile, la fame dalla sazietà, e così via. Tale organizzazione ha luogo nei primi giorni di vita in cui vi è una continuità di cure.

In conclusione, sono giunta a pensare che questo più lento livello di lavoro descrittivo è talvolta importante anche con i nostri pazienti apparentemente meno malati. Con Abigail, l’adolescente di cui ho parlato prima, mi sono resa conto che molto del lavoro che stavamo facendo insieme era d’aiuto per certe cose, ma si svolgeva sul livello sbagliato. Inizialmente, oltre ai sintomi già riferiti (depressione e angoscia di separazione), soffriva di sintomi psicosomatici, dolori di stomaco e asma. Dopo circa un anno di lavoro, durante il quale mi aveva portato sogni importanti, associazioni, e associazioni apparentemente rilevanti alle mie interpretazioni, ed era migliorata nel suo stato mentale, nella vita sociale e per quanto riguarda le sue angosce sociali, lei sembrò cominciare a farsi un’idea della parte che io giocavo come oggetto transferale materno che invidiava la sua felicità. I sintomi somatici erano rimasti tali e quali. Pensai che stessimo andando avanti troppo rapidamente. Non che si stesse procedendo a un ritmo maniacale – non vi era alcun sintomo di questo, però era una velocità eccessiva per lei. Pensai che lei, la più giovane di tre sorelle, abbia sempre dovuto lottare per tenersi su. Dovetti rallentare me stessa, con lo scopo di calmarla, e ogni tanto soffermarmi su affermazioni molto semplici, nel mezzo di altre più complesse ed esplicative.

UNA QUESTIONE TEORICA FINALE: LE ESPERIENZE NUOVE E POSITIVE POSSONO PROMUOVERE IL PENSIERO?
Ipotizzo che l’introiezione e l’interiorizzazione delle esperienze positive siano elementi essenziali nello sviluppo non soltanto della vita emotiva, ma della vita mentale e dell’apprendimento.

Gli stati mentali piacevoli sono stati troppo spesso descritti in psicoanalisi come passivi, usando immagini di adattamento, gratificazione, simbiosi che possono implicare uno stato mentale quieto, sonnolento (Mahler, 1968; Winnicott, 1960). Tuttavia per un bambino che è abituato a una dieta quotidiana di stati negativi, le esperienze nuove costituite dal ritorno dello psicoterapeuta, dalla sua costanza, affidabilità, durevolezza, possono avere un ruolo attivante, suscitatore di interesse e di pensieri. Queste esperienze hanno luogo in presenza di un oggetto. Quando questi stati possono essere digeriti, essi promuovo lo sviluppo mentale e l’apprendimento. Melanie Klein scrisse su quanto sia importante per la vita emotiva la costruzione di un oggetto buono, ma è chiaro, penso, che combinando questa idea col concetto bioniano di “realizzazione” siamo condotti alla conclusione che le esperienze positive sono essenziali per la vita mentale ed emotiva. Melaine Klein stessa disse che il bambino assume il comprendere insieme col latte (Klein, 1952).

Io vado oltre Bion ed affermo che le esperienze positive di un oggetto vivo non sono meramente “realizzazioni” nel senso gratificante o simbiotico. Esse fanno “sentire bene”, ma in un modo vitalizzante, non in un modo che induce il sonno. (Siccome Bion ha scritto così poco su questa parte della sua teoria, non sono sicura che egli intendesse una perfetta corrispondenza e una gratificazione quieta, ma mi pare che il suo concetto dell’accoppiamento fra preconcezione e realizzazione si riferisca appunto a una perfetta corrispondenza, per cui la realtà e il pensiero sopraggiungono soltanto quando compaiono la frustrazione e l’assenza). Tuttavia fattori positivi possono porre in uno stato di vigilanza proprio in quanto sono interessanti. Sebbene Bion abbia collocato “K”, il desiderio di giungere a conoscere qualcuno, accanto a “L”, il bisogno di amare, e a “H”, l’odio – forse dovremmo considerare “K” come una parte di “L”, oltre che di “H” (Bion, 1962). Nello sviluppo normali, le sorprese piacevoli pongono in uno stato di vigilanza altrettanto che le sorprese sgradevoli. E’ l’elemento della sorpresa, dell’inaspettato che evoca gioia, riflessione e meta-riflessione. E questo processo può aver luogo alla presenza di un oggetto che sia umano e vivo. L’infant observation e l’infant research (oltre alla teoria kleiniana) ci insegnano che ci sono ben pochi appagamenti totali, anche quando gli oggetti sono presenti e gratificanti. Poichè l’oggetto è vivo e mutevole, la sua presenza è altrettanto impegnativa e risvegliante quanto la sua partenza e la sua assenza.

li arrivi e i ritorni suscitano vigilanza, ma essa è altrettanto suscitata dal guardare la faccia della madre o del padre durante una proto-conversazione. I tratti mutevoli ed espressivi, gli occhi che si aprono pienamente o che si socchiudono, che brillano o che si appannano, il cambiamento del tono quando il genitore parla e risponde: tutto richiede attenzione. Come hanno mostrato Stern (1985), Trevarthen (1978) e Beebe e Lachmann (1994), un essere umano vivente quando è presente offre una presenza in continuo cambiamento, complessa, variata, piena di flussi dinamici e forme temporali. è sì piacevole, ma anche impegnativa. I bambini pensano gli oggetti presenti quando, per esempio, studiano la faccia sorridente del caregiver, o assaporano il gusto del latte e la sensazione della mano sul seno. E’ un momento affascinante quando i bambini cominciano ad esplorare con gli occhi e con la mano il seno reale che hanno precedentemente conosciuto soltanto con la bocca. Una bambina adottata di 10 anni, che era stata prelevata da un orfanotrofio di un paese del terzo mondo, disse con un atteggiamento pensoso alla sua terapeuta, alla quale stava diventando molto attaccata: “perchè ti chiami Jane?”; poco dopo, battè brevemente sulla spalla il lanuginoso cardigan della terapeuta e teneramente chiese: “perchè è così lanuginoso?”.

Il linguaggio che stava usando e la domanda “perchè?” erano quelli di una bambina di 10 anni, ma in realtà io penso che stesse facendo quel che fa il bambino piccolo quando esplora la faccia della mamma (o del babbo) con gli occhi o con le mani, giungendo a conoscere, riflessivamente, cognitivamente ed emotivamente, non il “perchè” dei suoi genitori, ma il “che cosa”. Vi sono molte versioni dell’oggetto presente, e questo fatto di per sè è estremamente impegnativo. Wolff (1965) ha notato che i bambini mostrano curiosità intellettuale non quando sono affamati o stanchi, ma quando sono sazi, riposati e a proprio agio. La loro curiosità non è stimolata dalla frustrazione, bensì è liberata per mezzo del soddisfacimento e delle buone interiorizzazioni. Io sostengo che la funzione alfa opera su oggetti presenti e piacevoli, e il concetto di Bion è molto utile per lavorare a questo livello.

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