Film
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Marina di Stijn Coninx

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Elisabetta Marchiori

Con il cinema … “Alla ricerca della felicità: Marina”

Dalla rassegna “Buio in sala. Il cinema incontra la psicoanalisi”, Firenze 2014.

Il termine ‘cercare’ deriva dal greco kirkòs, cerchio, in riferimento al ‘girare’ per trovare qualcosa.

I curatori della rassegna di Firenze ‘Buio in sala. Il cinema incontra la psicoanalisi”, Stefania Nicasi per il Centro Psicoanalitico di Firenze e Michele Crocchiola per la Stensen Cinema, ci hanno fatto trovare il film Marina (1913), del regista belga Stijn Coninx, che in Italia non ha avuto la distribuzione nelle sale che avrebbe meritato adeguata (è uscito in DVD).

Marina è un film che s’intona perfettamente al tema ‘Alla ricerca della felicità’, che celebra il decimo anniversario di una rassegna dal titolo che sintetizza, con l’idea di ‘incontro’ il rapporto creativo che attualmente intercorre tra cinema e psicoanalisi. Superata la tendenza ad ‘interpretare i film, ci si predispone ad incontrarlo, accogliendo gli stimoli che ci offre e utilizzando immagini, storie, musiche come strumenti che facilitano l’esplorazione dei territori sconfinati della psiche.

Il poeta Vinicio de Moraes diceva che la vita – come, aggiungo io, il cinema – è ‘l’arte dell’incontro’. Sono gli incontri – tra persone, tra analista e paziente, tra un film e il suo spettatore -che danno senso e valore alla vita di ognuno di noi e ne determinano le svolte e i destini.

Si dice che lo spettatore “assiste alla proiezione di un film”, come l’ostetrica ad un parto: è presente al film come testimone e come aiutante, lo aiuta a venire alla luce ed è solo grazie allo sguardo e all’attenzione che gli rivolge che rimane in vita (Metz, 1980).

Allo stesso modo, si può dire che nessuno esiste se non c’è qualcuno che lo vede, che nulla si può dire se non c’è qualcuno che ascolta, che non nasce un pensiero se non si è presenti nella mente di un altro.

Questi elementi sono ben presenti in questo film e coinvolgono profondamente ogni spettatore, a sua volta teso alla ricerca della propria felicità.

Trama 

Marina, coprodotto dai fratelli Dardenne, è stato presentato al Festival del Cinema di Roma ed è stato vincitore del Festival del Cinema Indipendente di Foggia.

Ispirato alla storia di Rocco Granata, cantante famoso in tutto il mondo per la canzone Marina, figlio di emigrati italiani in Belgio, è un film in cui sono mescolati con maestria storia reale e elementi di fiction.

Il regista (candidato all’Oscar per il miglior film straniero nel 1993 con Padre Daens), presente in sala e generoso nel raccontare del film, ha detto di essere stato contattato da Rocco Granata stesso (che partecipa al film con un cameo), intenzionato a celebrare i cinquant’anni della canzone, incerto tra un libro e un film. Sedotto dalla storia, Conijx ha lottato strenuamente per realizzarla. È riuscito a trasformare i limiti di budget imposti dalla produzione in punti di forza del film, concentrandosi sull’essenziale, lavorando sulla consistenza psicologica dei personaggi e giocando sulla resa delle dinamiche relazionali.

Il protagonista, l’attore Matteo Simoni, il cui nonno a sua volta era un emigrante, si è imposto per la parte, interpretata in modo impeccabile, impegnandosi a imparare l’italiano, a cantare e suonare la fisarmonica, con una caparbietà assimilabile a quella di Rocco.

Il padre di Rocco, Salvatore, un Luigi Lo Cascio che lo incarna con convinzione, è uno dei tanti italiani partiti per lavorare nelle miniere di carbone dopo l’accordo stipulato nel 1946 tra Italia e Belgio, che prevedeva la garanzia da parte dell’Italia di forza lavoro in cambio di carbone. L’afflusso migratorio cesserà nel 1956 dopo tragedia di Marcinelle, dove persero la vita duecentosessantadue minatori, di cui centotrentasei italiani.

Da ‘lupaese’ della Calabria, soleggiato e pieno di vitalità, la famiglia di Rocco, ancora ragazzino, si trasferisce nel paese immaginato come il più ricco del mondo, quel ‘lubelgio’ che si rivelerà piovoso, grigio e ostile, a vivere in una di quelle baracche già abitate dai prigionieri di guerra, in condizioni di vita pessime. Vengono in mente altri film che trattano il tema, con titoli in cui si fondono le parole, che diventano altre, a nominare paesi lontani e fantasticati, come Lamerica (Gianni Amelio) e Nuovomondo (Giuseppe Crialese).

Rocco comprende presto che, per non soccombere ai soprusi razzisti e sviluppare la propria identità, deve imparare a padroneggiare il fiammingo e ‘farsi vedere’, imponendosi con la sua musica.. Nonostante la ferma opposizione del padre, che lo esorta a dedicarsi ad un ‘lavoro vero’, Rocco è determinato a fare della sua passione, quella di suonare la fisarmonica e cantare, la propria professione. Intanto fa il meccanico e, con il sostegno della madre Ida, interpretata da Angela Finocchiaro, riesce a mettere insieme una band, esibirsi nei locali e vincere un concorso canoro, che farà da trampolino di lancio per il futuro successo e il riscatto personale.

Queste vicende s’intrecciano con la storia d’amore ‘impossibile’ con Helena, una ragazza belga: non è un dato biografico, ma risulta necessario alla fluidità del racconto filmico, di cui è il filo conduttore.

Elementi di incontro tra cinema e psicoanalisi 

Il film tocca diversi temi ‘psicoanalitici’, fin dal suo incipit.

Marina inizia, infatti, con un prologo inusualmente lungo prima dei titoli di testa, una sorta di prequel, che contiene in nuce tutti gli argomenti che si sviluppano nel corso dello svolgimento del film. Così come nella prima seduta di analisi o nel primo sogno di un paziente si possono rintracciare, in après coup, la maggior parte degli elementi che emergeranno e saranno elaborati nel corso dell’analisi.

Tutto il film è intriso dalla questione della ‘ricerca della felicità’, sia a livello della storia individuale di Rocco, sia a quello della storia, universale, dell’emigrazione.

Per quanto concerne l’aspetto soggettivo secondo Freud (1929) le nostre possibilità di essere felici sono limitate, ma ‘ognuno di noi deve trovare da sé la maniera particolare in cui può essere felice’. ‘Il programma impostoci dal principio di piacere (il raggiungimento della ‘felicità’) è irrealizzabile; tuttavia non dobbiamo, anzi non possiamo, abbandonare il tentativo di accostarci a questo adempimento’. Ma la felicità non è la stessa per tutti, ognuno dovrebbe poterla forgiare in armonia con sé stesso.

Riguardo il fenomeno dell’emigrazione, che ci riguarda profondamente nei suoi sviluppi attuali, sussiste una mancanza di memoria che questo film ci aiuta a ravvivare.

C’è un’intervista-documentario di Melania Mazzucco che s’intitola proprio ‘Emigranti: alla ricerca della felicità’. Il nonno della scrittrice è stato tra i milioni d’italiani partiti alla ricerca di fortuna oltreoceano e lei interpreta la decisione di emigrare come di ‘un atto di libertà, un gesto di liberazione, di rivolta’, che rappresenta la speranza di conquistare un’identità e una vita.

Tuttavia, l’emigrazione significa anche lutto, perdita, distacco, separazione, razzismo, solitudine, alienazione, estraniazione.

Marina ci fa vedere che dalle viscere della terra, dove lavora ammazzandosi Salvatore, si può e si deve risalire, farsi vedere, farsi ascoltare, per conquistare il diritto ad esistere pienamente: nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, sono citati come Diritti inalienabili dell’Uomo la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità.

Questo film ci propone una serie di quesiti sull’Edipo, sul rapporto tra padre e figlio e sulla funzione paterna.

In una delle prime scene è rappresentata ‘la scena primaria’, un rapporto sessuale tra i genitori che Rocco e la sorellina osservano tenendosi per mano. Nello svolgimento del film, si sviluppa la risoluzione dell’Edipo da parte di Rocco: il padre e la madre assumono le loro funzioni genitoriali in modo adeguato, pur nei loro limiti (ogni tanto accade anche nei film!).

Come scrive efficacemente Recalcati (2012) il puro istinto di paternità, come quello di maternità, non esiste, il legame non è un evento biologico ma richiede il desiderio, un’assunzione simbolica di riconoscimento del figlio e della sua esistenza. Salvatore ha un sogno: diventare qualcuno, tornare al paese ‘conosciuti e adorati’. Con la sua esistenza, con la sua caparbietà e in parte con la sua ottusità, testimonia che cosa significa vivere eticamente il proprio desiderio come un dovere.

Rocco d’altra parte sembra incarnare la citazione di Goethe fatta da Freud nel suo testo-testamento (1938): “Quello che hai ereditato dai padri riconquistalo, se vuoi possederlo veramente”.

Questo vuol dire che per servirsi del padre bisogna ‘ucciderlo’ in quanto figura idealizzata, riconoscerne i limiti e l’umanità, poter entrare in quell’autentico e vivibile conflitto che diventa fattore evolutivo.

Rocco eredita il desiderio del padre e se ne serve per svilupparne uno proprio: concretamente, del padre rifiuta il piccone e sceglie la fisarmonica, che rappresenta quelle radici da cui non si può prescindere per diventare qualcuno: “Non fu inutile”, riconosce Rocco nella struggente scena finale del film.

Ida è una moglie che vive nel paradosso di essere al contempo fedele e infedele al marito, una madre che riesce a stare dalla parte del figlio senza svalutare la figura del padre.

La capacità della madre di valorizzare la funzione e l’autorevolezza paterna è fondamentale per consolidare nel figlio la fiducia nell’affidabilità della coppia genitoriale.

Ida incarna anche la donna nel suo ruolo fondamentale nella storia dell’emigrazione: custode della casa, dell’alleanza familiare, delle radici. È grazie alla donna che ‘lacasa’ (del paese d’origine) può essere sostituita dalla nuova casa (del paese di emigrazione): Lei sa che non si può più tornare indietro, solo sradicarsi per radicarsi di nuovo.

L’altra donna del film, la bionda innamorata Helena, con le sue modalità seduttive, sembra rappresentare, da un lato, l’ambivalenza nei confronti dello straniero-sconosciuto, che attrae e spaventa, dall’altra la spinta pulsionale verso la conoscenza e la vita. Lo straniero diventa, quindi, qualcuno che si può incontrare, conoscere e amare.

La musica, che viene ‘prima della parola’ (Di Benedetto, 2000), è il primo veicolo di contatto. Non solo ha aggregato gli italiani all’estero, che non si capivano, divisi da una una babele di dialetti, ma abbatte confini e barriere tra lingue straniere, grazie anche alla diffusione alla radio.

Salvatore ama la musica, e solo attraverso la radio, per la prima volta, riesce ad ascoltare il figlio che canta ‘Marina’ dagli Stati Uniti e dirgli, forse perché non può sentirlo: “Ce la facesti, bravo!”

Rocco supera lo stereotipo dell’italiano suonatore di strada, comprende che è un mezzo per ‘essere visto’ e ‘ascoltato’ per trasmettere affetti e sensazioni bisogno di traduzioni.

Coninx riesce a dirigere un film essenziale, con pochi strumenti, ma, come un bravo direttore d’orchestra, non li fa mai stonare.

Sembra realizzare la speranza di felicità di tre generazioni: quella di Rocco Granata, la propria, quella del giovane Matteo Simoni.

“Passato, presente, futuro, legati al filo del desiderio che li attraversa” (Freud, 1907).

Novembre 2014

Pubblicato anche sul sito www.spiweb.it

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