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Meucci P. (2013). Essere genitori di bambini con disturbi mentali.

Relazione presentata nella Tavola Rotonda del Seminario AFPP CSMH – AMHPPIA SIPP SPI “Diventare genitori e aver bisogno di aiuto”.

7 Dicembre 2013, ore 8.30 – Istituto Stensen, Viale Don Minzoni, 25/a – Firenze

Intervento pubblicato per gentile concessione dell’Autore

 

Premessa

È stato ampiamente sottolineato nell’ultimo ventennio, come la teoria e la tecnica della psicoanalisi infantile fossero mancanti rispetto al ruolo e alla collocazione da dare ai genitori.

Nei primi decenni della psicoanalisi infantile, in cui prevaleva una visione essenzialmente mono-personale, i genitori rimanevano sullo sfondo, perlopiù ignorati, sia da un punto di vista teorico che tecnico. Quando poi è andata prendendo campo una visione di tipo bi-personale, si è prestata molta più attenzione alle relazioni dei bambini con i loro genitori reali e sono stati individuati fattori importanti dello sviluppo psicopatologico all’interno delle relazioni figli – genitori.

Abbiamo imparato a conoscere la forza dei fantasmi trans-generazionali, gli effetti devastanti della mancanza di accudimento e di un comportamento non responsivo da parte dei genitori, conosciamo gli effetti dell’uso dei figli come protesi narcisistiche o delle massicce identificazioni proiettive sul figlio o ancora dell’inversione contenitore – contenuto.

È quindi comprensibile che gli analisti che si sono occupati di trattamento individuale dei bambini possano avere pensato i genitori non solo come incapaci nell’aiutare il figlio, ma anche come fattori di distorsione nel suo sviluppo e da qui passare a considerarli la causa del suo disagio mentale.

Questa visione riduzionistica è un comprensibile vissuto contro-transferale dell’analista al lavoro con il proprio paziente-bambino, ma non è assolutamente giustificata a livello teorico, tanto meno a livello tecnico. Sappiamo che la realtà è molto più complessa, sappiamo dell’importanza dei fattori biologici e delle vulnerabilità individuali nello sviluppo della psicopatologia. Sappiamo anche dell’importanza dei fattori sociali e culturali, all’interno dei quali vivono le famiglie.

Ma la cosa più rilevante è l’acquisizione -ormai ampiamente condivisa- di un punto di vista sistemico, che porta a considerare genitori e figli come sistemi interdipendenti che costituiscono un campo interattivo co-creato.

È all’interno di tale ottica che voglio cercare adesso di fermare l’attenzione su una parte di questo sistema: i genitori con i loro stati affettivi, perché è dai loro affetti che dobbiamo iniziare, quando si pensa ad un qualsiasi tipo di intervento che li coinvolga.

 

Vissuti dei genitori di bambini con disturbi mentali

È difficile parlare in modo generale del vissuto affettivo dei genitori. Fa un’enorme differenza essere genitore di un bambino nevrotico oppure di un bambino autistico, per cui successivamente mi soffermerò sui genitori di bambini con gravi disturbi mentali, adesso invece cercherò di mettere a fuoco gli stati emotivi abbastanza ricorrenti che si attivano nel genitore con un figlio che presenta un qualche disagio di ordine psicologico o emotivo o relazionale, che dir si voglia.

Partiamo dagli affetti rispetto al figlio:

  • innanzitutto c’è preoccupazione, nel chiedersi cosa il figlio abbia e disorientamento per il non sapere cosa fare, non capire cosa sia accaduto. Con il passare del tempo tutto questo diventa angoscia per qualcosa che non rientra, per un disagio che non si placa. Angoscia che diventa terrore se il disturbo diventa più acuto, se emerge il senso che la situazione stia precipitando
  • e poi dolore nel vedere il figlio sofferente, infelice
  • dolore anche nel sentire che il figlio è inarrivabile, c’è qualcosa che non si riesce a vedere, a capire
  • senso di perdita e tristezza per quel bambino desiderato che non c’è, che non si è realizzato
  • rabbia nei confronti di un figlio che fa sentire impotenti, che mette in difficoltà, che non risponde ai tentativi di cambiamento
  • ancora terrore nel vedere emergere nel figlio qualcosa che è del tutto incomprensibile, qualcosa che viene percepito come alieno; in questo caso allora, è facile provare anche odio, in quanto il figlio diventa una minaccia alla propria sopravvivenza psicologica
  • spesso, sul lungo periodo, emerge anche il senso di essere parassitati, sfruttati da un figlio che assorbe tantissime energie e non dà niente in cambio

Oltre gli affetti rispetto al figlio, vi sono quelli che si attivano rispetto a sé stessi:

  • innanzitutto il senso di colpa, che mi sembra una reazione fisiologica dei genitori che si attiva ogni qual volta un figlio stia male (stato affettivo che ha sicuramente una funzione evolutiva, in quanto sollecita i genitori a trovare soluzioni per lo stato di sofferenza del bambino); senso di colpa che si amplifica quando il disturbo del figlio è di tipo psicologico perché intuitivamente i genitori sanno di costituire con lui un sistema dinamico, sanno che il loro stato interno ed il comportamento connesso influenzano quello del figlio; senso di colpa quindi, non solo per non riuscire ad aiutarlo, ma soprattutto per sentirsi la causa del suo disturbo
  • e poi impotenza nel realizzare che il disturbo non passa e non sapere cosa fare
  • senso di perdita e tristezza per quel genitore che si era desiderato essere e che non si è
  • disperazione, quando si realizza che la situazione non muta, si aggrava e la speranza è ormai abbandonata (Meltzer, Harris 1983)
  • senso di essere schiacciati da eventi che li stanno travolgendo, paura per ciò che li attende
  • angoscia al pensiero di dovere sostenere a vita il peso di un figlio che non guarirà
  • dolore nel sentirsi non riconosciuti dal figlio nelle proprie funzioni genitoriali. Allora diventa facile interpretare il disturbo del bambino (ad es. le sue urla od il suo mutismo) come un rimprovero, l’accusa di non essere degno di fare il genitore
  • tutto questo rischia infine di cristallizzarsi nel senso di avere subito un danno irreparabile rispetto alla propria funzione genitoriale

Nel momento in cui il genitore si rivolge agli esperti, si attivano altri affetti ancora:

  • vergogna per essere loro genitori e/o il figlio non adeguati, difettosi
  • senso di essere offesi da un giudizio sociale a cui si sentono esposti
  • invidia verso operatori che possono essere avvertiti come quelli che hanno tutto ciò che a loro genitori manca
  • odio verso operatori sentiti comunque distanti o giudicanti
  • da una parte paura di essere espropriati delle proprie funzioni di genitori, dall’altra desiderio di disfarsi di un figlio così difficile
  • ed infine può anche emergere il desiderio che l’operatore patisca quello che loro genitori stanno patendo; fenomeno che può essere il risultato dell’invidia ma anche della fantasia che solo così l’altro viene reso partecipe al proprio dramma.

Oltre a queste vi possono essere reazioni emotive anche francamente patologiche, reazioni di genitori disturbati e disturbanti, che però non prendo in considerazione.

Quelle indicate sin qui le considero tutte reazioni emotive fisiologiche, non di per sé patologiche, ma che tali possono diventare nella misura in cui non riescono ad essere filtrate, elaborate ed entrano quindi nella dinamica con i figli allo stato grezzo, puramente reattivo. Stati emotivi dei genitori che vengano allora percepiti dal figlio in modo amplificato e distorto, intrecciandosi con i suoi vissuti emotivi, con le sue conflittualità, creando -nel campo interattivo- stati affettivi e relazionali estremamente densi, disturbanti con il rischio di derive collusive patologiche.

Per riprendere quanto dicono Meltzer ed Harris (1983) -rispetto alle funzioni introiettive della coppia genitoriale- nelle penose situazioni appena descritte, mentre la funzione riferita al generare amore può essere probabilmente preservata, le altre sono messe a dura prova; con vissuti così pesanti è estremamente difficile infondere speranza, contenere la sofferenza e aiutare a pensare.

Manca in questi genitori l’esperienza rigenerante di un figlio che sta bene e che affronta le difficoltà della crescita in modo sostanzialmente sereno, condizione che permette normalmente al genitore non solo di godere del benessere del figlio, ma anche di farlo sentire un “genitore abbastanza buono”, consentendogli quel rifornimento narcisistico che aiuta ad affrontare le normali fatiche e frustrazioni dell’essere genitori.

 

Essere genitori di figli autistici

Mi voglio adesso soffermare su cosa possa comportare l’avere un figlio che presenta gravi disturbi mentali.

Vi sono ormai tantissimi studi sull’effetto che ha sui genitori il vivere con figli autistici e presiedere alla loro crescita. Sono stati recentemente pubblicati (Harper et al., 2013) i risultati di una ricerca fatta su più di cento coppie di genitori di figli autistici, ed i risultati sono abbastanza prevedibili: questi genitori presentano livelli elevati di stress -con rischi per la loro salute- e deterioramento nella qualità della vita coniugale.

Da un’altra ricerca (Kuusikko-Gauffin et al., 2013), emerge che le madri di bambini con ASD presentano punteggi significativamente più alti (rispetto al gruppo delle madri di controllo) su tutte le scale che misurano ansia e fobia sociale, mentre i padri hanno punteggi significativamente più alti (rispetto ai padri di controllo) solo su alcune scale, in particolare quelle che misurano l’evitamento ed i sintomi agorafobici

Da altre ricerche ancora emerge che vi sono elevati rischi per queste madri di sviluppare una depressione (Zablotsky et al., Aug 2013), tali rischi però diminuiscano se le madri vengono inserite in un programma di sostegno alla parentalità (Zablotsky et al. Jun 2013).

In altre ricerche infine, si mette in evidenza come anche in questi casi così gravi l’emergere del disturbo sia il risulto di vari fattori in interazione. Ad es. il più alto tasso di depressione trovato nelle madri di bambini con ASD può essere attribuito sia al maggiore stress determinato dal far crescere un bambino con un disturbo così grave, sia al maggior numero di tratti autistici presenti in queste madri, tratti che le mettono a rischio di sviluppare la depressione (Ingersoll et al., 2011). Vengono inoltre segnalati gli intrecci tra storia dei genitori e sviluppo del disturbo nei figli: una ricerca (Vasa et al., 2012) suggerisce l’associazione tra disturbi -precedenti alla gravidanza- dell’umore nella madre e fenotipo ASD nella prole.

Passando dal linguaggio della ricerca a quello del vissuto materno, riporto quanto racconta la madre di un bambino autistico, la scrittrice Francoise Lefévre (1990).

Mi viene la nausea e il capogiro quando ricordo alcune di quelle ore caotiche in cui ho creduto di perdere la vita a furia di infonderti tutta la mia energia. Ho creduto di perdere la testa a lottare contro la tua forza di opposizione, i tuoi rifiuti, le tue ire e soprattutto le tue grida. Le grida mi trafiggevano il cervello. A volte ti avrei ucciso per avermi fatto così male, per aver aspirato con le tua urla tutta la mia poesia. I miei pensieri. La mia buona volontà. Tutto il mio amore. Il mio instancabile amore. Prendevi tutto e non davi niente. Mettevi tutta la tua energia a non dare niente.

Esperienze di questo tipo credo che l’abbiano vissute, a momenti, gran parte dei genitori di figli autistici, ma è soprattutto sugli stati iniziali del disturbo, che mi sembra utile fermare adesso l’attenzione, sugli effetti traumatici che ha sulla mente dei genitori, il realizzare che il proprio figlio soffre di autismo.

Tanto è stato detto sugli effetti traumatici della patologia dei genitori sui figli. In maniera analoga possiamo pensare agli effetti traumatici dei disturbi dei figli sulla mente dei genitori.

Credo che sia nell’esperienza di chi ha lavorato con questi genitori, soprattutto dopo che è stata comunicata la diagnosi, l’impressione di avere a che fare con persone che oscillano tra uno stato di simil-collasso mentale ed uno stato di ipo-maniacalità. (Una condizione molto simile la si può osservare in genitori di bambini che hanno subito gravi traumi).

In questi casi le funzioni mentali vengano facilmente sopraffatte dal terrore, determinato dalla consapevolezza di avere perso o stare rapidamente perdendo qualcosa che non ci sarà irrimediabilmente più: l’integrità fisica e/o mentale del proprio figlio. Al terrore si accompagna il grave disorientamento determinato dal devastante impatto con la mente non-relazionale del figlio, a cui manca la vitale spinta all’intersoggettività. Al disorientamento si sovrappone poi la totale impotenza nel non riuscire a sintonizzarsi con il proprio bambino. In seguito a tutto questo può allora emergere un collasso comunicativo tra genitori e figlio autistico.

In questi casi, al senso di sgretolamento dell’immagine del figlio si accompagna lo sgretolarsi della propria identità genitoriale, che mina anche la propria identità generale.

Possiamo quindi osservare l’attivarsi di meccanismi difensivi primitivi, quali evitamento del problema, aggressività, congelamento emotivo ed in alcuni casi una vera e propria dissociazione della propria sofferenza; a tutto questo si accompagna spesso un attivismo di tipo ipo-maniacale.

Sappiamo che in seguito ad esperienze traumatiche si possono rilevare deficit di mentalizzazione nelle persone traumatizzate, un’incapacità a stabilire un contatto emotivo con la propria esperienza; in modo analogo anche i genitori di bambini autistici –se non aiutati ad elaborare il trauma- rischiano di non sviluppare una competenza riflessiva rispetto alla propria esperienza di genitore di un figlio autistico.

Sappiamo come sia vitale per chi ha subito un trauma potere essere riconosciuto nel proprio dramma, nel proprio disorientamento e di come sia altrettanto vitale potere reagire all’impotenza.

Riporto il brano di una intervista in cui la scrittrice Clara Sereni, madre di un ragazzo autistico, in una intervista a cura di Neri e Latmiral (2004), racconta il proprio impatto con la proposta di psicoterapia al figlio.

[Nonostante] tutta la mia disponibilità a tener conto degli strumenti [ psicologici e psicoanalitici], quando ti dicono che tuo figlio, che ha tre anni, deve andare in analisi, è una delega talmente forte che non è semplice da mandare giù. A quel punto lì, pur non essendo impreparata a pensarlo, mi sono proprio sbarellata, mi venivano le visioni, me le ricordo ancora quelle visioni lì.

Credo allora che l’esperienza di questi genitori possa diventare doppiamente traumatica: primariamente a causa dell’impatto su di loro del disturbo del figlio, e secondariamente per l’impatto con gli operatori a cui si rivolgono per essere aiutati.

A questo riguardo, mi sembra utile fare alcune considerazioni sulle diverse associazioni di genitori di persone autistiche che esprimono una particolare virulenza nei confronti della psicoanalisi.

Credo che all’origine di tante incomprensioni tra queste associazioni di genitori e gli psicoanalisti, ci sia l’esperienza traumatica, vissuta alcuni decenni fa (negli anni ’70 e ’80) da molti genitori di figli autistici, durante la ricerca di aiuto presso gli esperti di autismo dell’epoca, i quali si rifacevano perlopiù a teorie eziopatogenetiche di ispirazione psicodinamica (più o meno pertinente).

All’esperienza traumatica di avere un figlio autistico credo si sia sovrapposta, in tanti casi, una ulteriore esperienza traumatica, determinata:

  • dal non essere riconosciuti nella loro soggettività di persone che vivono una situazione drammatica, tutti protesi alla spasmodica ricerca di una soluzione che li liberi dal terrore,
  • ed inoltre dal sentirsi considerati (in modo più o meno esplicito) dagli psicoanalisti dell’epoca come causa del disturbo dei loro figli, espropriati quindi della propria identità genitoriale ad opera di tecnici a cui veniva delegata la guarigione del figlio.

È questo a mio giudizio l’humus in cui sono cresciute alcune associazioni di genitori, all’interno delle quali –analogamente a quanto accade nelle famiglie- i fantasmi legati all’esperienza traumatica continuano ad essere trasmessi alle generazioni successive.

L’odio nei confronti della psicoanalisi assolve per altro anche a funzioni difensive, permette di affrancarsi dai sensi di colpa, di liberarsi dalle proprie impotenze, dal senso di intrattabilità e parallelamente di aggrapparsi alle certezze ed alla potenza degli interventi psico-educativi. Con il rifiuto della psicoanalisi si elimina tutto quanto rimanda al mondo interno, il dolore mentale -proprio e del figlio- viene dissociato e ci si può attestare su una posizione in cui non è più necessario pensare ma basta programmare e fare.

Sappiamo che una efficace modalità per affrontare il trauma –oltre al poter tradurre in parole la propria sofferenza- è quella di co-creare, insieme ad altri che hanno condiviso la stessa esperienza, delle narrazioni corali condivise. Le associazioni anti-psicoanalisi hanno trovato in Bettelheim -e per estensione nella psicoanalisi- un modo di narrare il trauma originario di loro genitori; l’esperienza traumatica di non riuscire a capire e non essere capiti dal proprio bambino prende la forma di una narrazione socialmente condivisa in cui c’è qualcuno che li ha fatti precipitare nel baratro ed ha impedito loro di capire ed aiutare il figlio.

 

Che fare?

Alcune brevi considerazioni finali su come coinvolgere i genitori all’interno di un intervento più globale con il figlio.

Dice Arietta Slade (2008)

Restaurare il legame mentale nella famiglia è il compito psicoanalitico fondamentale che si esercita attivando la comunicazione tra le menti dei genitori e del bambino.

I genitori necessitano di essere aiutati dagli psicoanalisti a sentire, a tollerare, ed elaborare i propri stati affettivi e le proprie fantasie nei confronti del figlio, quindi aiutati a comprendere che il proprio stato mentale ed il proprio comportamento hanno un effetto su di lui, sia in senso negativo, che positivo. Parallelamente i genitori hanno bisogno di essere aiutati a pensare la mente del bambino (con i sui desideri, angosce e bisogni), rimanendo comunque in contatto con la propria mente. Per arrivare a questo i genitori devono capire innanzitutto di cosa soffre il figlio, che disturbo abbia.

È sicuramente difficile comunicare una diagnosi ai genitori, sappiamo che può avere un impatto traumatico, ma la mancanza di chiarezza genera inevitabilmente   ambiguità e sfiducia negli operatori.

Oltre a capire di cosa soffre il figlio e come funziona la sua mente, i genitori debbono essere aiutati a pensare al disturbo del figlio come un fenomeno che ha un qualche senso, che è cioè il risultato di particolari stati mentali, di particolari suoi vissuti.

Come dice A. Slade (2009) “Nel lavoro clinico con i genitori non si tratta di rendere “conscio l’inconscio”, ma piuttosto di rendere conoscibile l’inconoscibile”.

Questo non vuol dire capire tutto, anzi si tratta di sopportare di non potere avere accesso pieno alla mente del figlio, il quale -da parte sua- necessita di genitori che riescano a recuperare un contatto con lui nella sua globalità e non solo nei suoi problemi.

Nel tentativo di aiutare i genitori ed i loro figli, da più parti è stato segnalato l’errore di mettere i genitori fuori dalla terapia del figlio, di allontanarli, di rimbalzarli da colleghi, che proteggessero così la terapia del bambino.

Dina Vallino (2004) ha descritto questa modalità come

una “difesa” degli analisti che ha imposto di realizzare da subito un’intimità col bambino, certo necessaria nella terapia ma assolutamente fuori tempo all’inizio del trattamento. La razionalizzazione secondaria che l’analisi dei bambini funzionasse come quella degli adulti nevrotici, giustificava il lasciare i genitori fuori della stanza dell’analisi. La conseguenza era che spesso i genitori si sentivano esautorati, esclusi ed erano portati ad interrompere la terapia … propongo una via di approccio che prevede la consultazione prolungata

Le modalità di lavoro con i genitori sono varie; oltre alla proposta di consultazione partecipata e prolungata della Vallino, mi sembrano interessanti il modello proposto dalla Slade (2010) così come quello proposto dai Novick (2005), modelli che prevedono da parte dello stesso terapeuta un lavoro parallelo sia con il bambino che con i genitori.

Ma queste sono considerazioni che esulano dalla presente relazione, in cui ho voluto focalizzare l’attenzione essenzialmente sui vissuti affettivi dei genitori.

 

Bibliografia

Harper et Al. (2013), Respite Care, Marital Quality, and Stress in Parents of Children with Autism Spectrum Disorders, in “Journal of Autism and Developmental Disorder”, March 2013, Vol.43.

Ingersoll et al. (2011), Increased rates of depressed mood in mothers of children with ASD associated with the presence of the broader autism phenotype, in “Autism Research and Treatment”, Apr 2011.

Lefévre F. (1990), Il piccolo principe cannibale, Tr. it. Franco Muzio Editore, Padova 1993.

Kuusikko-Gauffin et al. (2013), Social Anxiety in Parents of High-Functioning Children with Autism and Asperger Syndrome, in “Journal of Autism and Developmental Disorder”, March 2013, Vol.43.

Meltzer D., Harris M. (1983), Il ruolo educativo della famiglia. Tr. it. Centro Scientifico Torinese, Torino 1986.

Neri N, Latmiral S. (2004), L’insostenibilità della speranza. Intervista a Clara Sereni, in “Quaderni di Psicoterapia Infantile”, 48, 2004.

Novick K. K., Novick J. (2005), Il lavoro con i genitori. Tr. it. Franco Angeli, Milano 2009.

Slade A. (2008), Working with Parents for Child Psychotherapy. Engaging the Reflective Function, Tr. it. in: Slade A. (2010), op. cit.

Slade A. (2009), Mentalizing the Unmentalizable, Tr. it. in: Slade A. (2010), op. cit.

Slade A. (2010) , Relazione genitoriale e funzione riflessiva, Astrolabio, Roma.

Vallino D. (2004), La Consultazione Partecipata: figli e genitori nella stanza d’analisi, in “Quaderni di Psicoterapia Infantile”, 48, 2004.

Zablotsky et al. (2013a), The association between child autism symptomatology, maternal quality of life, and risk for depression, in “Journal of Autism and Developmental Disorder”, Aug 2013, Vol.43.

Zablotsky et al. (2013b), The association between mental health, stress, and coping supports in mothers of children with autism spectrum disorders, in “Journal of Autism and Developmental Disorder”, Jun 2013, Vol.43.

Vasa et al., (2012), Mood disorders in mothers of children on the autism spectrum are associated with higher functioning autism, in “Autism Research and Treatment”, Aug 2012.

 

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