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Narracci A. (2013). Quando il multifamiliare diventa possibilità di esperienza e di pensiero.

 

Testo della relazione presentata nel terzo seminario del ciclo ASL-SPI “Claustrofilia-claustrofobia: quando la relazione di cura non si trasforma” (8 Nov, 22 Nov, 06 Dic 013) che pubblichiamo per gentile concessione dell’autore

Sala del Giardino d’Inverno, Istituto Montedomini, Via de’ Malcontenti 6 Firenze

 Tre ipotesi

La minorità non è un fatto anagrafico: consiste piuttosto in una carenza decisiva quale è “l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro”. La si può superare soltanto rifiutando la tipica subordinazione filiale. ( Immanuel Kant – Berlinische Monatsschrift, 1784)

 

Ipotesi teorica: l’assunzione di una ipotesi teorica psicoanalitica permette di reimpostare dalle fondamenta la ricostruzione degli eventi che hanno preceduto l’insorgere della patologia psichiatrica grave e, quindi, il loro significato.

 

Vedendo all’opera giovani psichiatri, appare chiaro che essi osservano la realtà attraverso un filtro che è costituito dalla convinzione di dover prendere un atteggiamento di dubbio e di critica nei confronti delle opinioni dei pazienti e dei loro familiari, anche se in misura minore nei confronti di questi ultimi.

Sembra che siano convinti, in cuor loro, di non potersi fidare di quello che dicono i pazienti: quello che dicono va soppesato ma, tendenzialmente, non può essere creduto.

E’ come se gli psichiatri sentissero di dover rendere conto ad un implacabile interlocutore interno che, mentre assiste al colloquio tra lo psichiatra e il paziente, non fa altro che mandargli messaggi di disconferma rispetto alla sua credulità.

Uno psichiatra degno di questo nome non abbocca alla verità “fantastica” che gli viene propinata. Al massimo fa finta di abboccare per acquisire la fiducia del paziente nei propri confronti, perché, in cuor suo, sa bene che l’altro lo sta “raggirando” in uno dei tanti modi di cui i pazienti sono “grandi esperti”.

Si tratta di fare i conti con un Oggetto Interno che viene introdotto nella mente di chi vive un processo di formazione per divenire psichiatra, un Oggetto Interno che tende a rifrangere in maniera distorta tutti i raggi comunicativi che passano attraverso di lui.

E’ molto difficile togliere dal proprio Sé la necessità di utilizzare questo complesso sistema di rifrazione deformante interna.

Jorge Garcia Badaracco, con il suo atteggiamento un po’ naif e un po’ da antropologo, ricercatore “de lo mental”, c’era riuscito ed ha cercato disperatamente di trasmettere, fino all’ultimo giorno della sua lunga vita, la vertiginosa profondità delle sue scoperte.

Egli era, ormai, libero di incontrare l’altro: la PM è la disciplina che insegna a sentirsi liberi di incontrare l’altro.

Il contesto del grande gruppo, in cui sono presenti almeno due generazioni appartenenti a tanti nuclei familiari e parecchi operatori, è il “luogo” in cui questo obiettivo può essere perseguito.

Il gruppo, della durata di due ore, è il “tempo” in cui questa disciplina può essere insegnata ed imparata a patto che, successivamente, gli operatori abbiano la pazienza di fermarsi, almeno mezz’ora, a commentare l’accaduto.

La riunione post gruppo che JGB definiva ”Ateneo” è importante quanto il gruppo perché permette agli operatori di sperimentare l’”antidoto”, la meta comunicazione, dopo aver assunto il “veleno”, la comunicazione basata sul funzionamento “primario” del pensiero del gruppo, che scorre per libere associazioni.

In esso, “sani” e “folli” sono finalmente pari, cioè sia le persone in cui sono meno presenti elementi dissociati, sia le persone in cui sono più presenti e tendono a prevalere sul funzionamento meno malato della mente, possono esprimere le loro opinioni e i loro punti di vista in forma paritaria.

La PM è il luogo delle verità, non della verità e della disponibilità a tollerare la diversità che può trasformarsi, con il lavoro, nel tempo, nell’apprezzamento delle diverse opinioni presenti.

Anche gli operatori, rispetto alla loro azione terapeutica, possono imparare a sentirsi parti differenti di un insieme (sistema) terapeutico al lavoro.

D’altronde, se per definizione bisogna imparare a diffidare dell’altro, il paziente, come si fa , poi, a confidare nel proprio compagno di lavoro?

Tanto è che abbiamo assistito all’erigersi di barriere insuperabili tra operatori con professionalità simili e diverse all’interno dello stesso servizio e tra operatori appartenenti a servizi diversi, ognuno di essi concepito come un fortino da non far espugnare agli altri..

Gli operatori, al contrario, partecipando regolarmente ad un gruppo di PM, possono riuscire a condividere la profondità degli scambi comunicativi tra pazienti, genitori e operatori e, quindi, avere un confronto, in diretta, con gli altri operatori.

Tale condivisione permette agli operatori di amministrare in maniera meno pronunciata quel tendenziale senso di dubbio rispetto a quello che dicono tutti e, forse, soprattutto, imparare a confidare sia nei propri colleghi, sia negli operatori con professionalità differente, con i quali condividono il servizio di appartenenza, sia negli operatori che militano in servizi diversi dal proprio.

Anche negli altri operatori si può tornare ad avere fiducia o si può incominciare ad averne, oltre che nei pazienti e nei familiari.

La necessità di dover presupporre che, ad un altro livello, quello che viene detto al primo livello, o livello apparente della comunicazione, debba per forza essere contraddetto, corrisponde alla struttura del funzionamento della mente all’interno del “doppio legame”.

Il pensiero psichiatrico ha adottato tale modo di funzionare e non si rende più conto che ciò avviene.

I problemi nascono sempre dai “non detti”, da quelle parti di cui si compone il nostro pensiero che sono i “postulati non detti”.

Il pensiero di JGB o della PM, cioè che si articola nella PM, mette in discussione tale convinzione interna, profonda, non detta della Psichiatria.

Non è, si badi bene, che stia dicendo: è tutto vero quello che viene detto. No. La PM suggerisce che l’operatore possa lasciarsi la possibilità di valutare se tutto quello che viene detto vada preso con beneficio d’inventario, presupponendo che, ad un altro livello, difficilmente sarà confermato, oppure che può essere vero o falso, in contraddizione o meno con quello che viene pensato ad un altro livello, magari inconscio.

Non si tratta di cancellare la propria preparazione psicopatologica. Dobbiamo seguitare ad avere la capacità di riconoscere i “segni” che la psicopatologia ha scoperto e che sono in grado di indirizzarci verso una diagnosi che, comunque, rimane fondamentale.

La diagnosi, però, non va più considerata il punto di arrivo del processo di intervento ma uno dei vari strumenti di cui si compone l’intervento.

La diagnosi e la terapia farmacologica (stiamo parlando di psicosi) rimangono utili all’interno di un contesto d’intervento in cui, però, l’ipotesi originaria dei problemi è che qualcuno appartenente ad una generazione precedente, un genitore, si è insediato nella mente di qualcuno della generazione successiva, il figlio e che quest’ultimo lo abbia lasciato insediare o non sia stato in grado di contrastarne l’insediamento dentro di sé.

In seguito, nel corso dell’esistenza, tale operazione, di vivere l’uno nell’altro, che la prima volta si verifica con il venirsi a costituire di uno stato, in cui il più grande e già formato prevale sul più piccolo, che si dovrebbe formare fino a costituire una propria identità che, invece, non riesce a costituire, viene assimilato, come stile di vita e di concepire le relazioni , daltronde si parla di Interdipendenze Patologiche e Patogene, dal figlio.

Quest’ultimo tende, in una fase successiva della vita, dopo l’instaurarsi ufficiale della patologa, cioè dopo che, erroneamente, tutta la patologia viene riconosciuta come presente soltanto nel paziente, a instaurare, nei confronti del genitore da cui era stato occupato, la stessa occupazione dell’altro in una forma assolutamente speculare.

Osservata da questo punto di vista, la patologia riguarda sempre almeno due persone che “si occupano” a vicenda, con la primitiva prevalenza dell’uno sull’altro che, in seguito, viene ribaltata.

Per cura si intende, allora, la messa in discussione di questo stato di cose, in un contesto che contenga tanti nuclei familiari, anche se non rappresentati al competo e, nella misura in cui, in ogni situazione, si verifichi che ciò risulti possibile e il suo ridimensionamento o, addirittura il suo superamento, in maniera che ognuno possa accedere alla propria “virtualità sana”: figli, genitori e operatori.

Non è che non sia importante seguitare a ricercare e scoprire tutti i meandri interiori in cui si è organizzato lo stato patologico, sia che siano inquadrabili in termini psicopatologici o psicoanalitici ma, forse, non è l’unica cosa da fare e, per certi versi, non è nemmeno la prioritaria.

Il grado di modificabilità di tutto ciò che si è sclerotizzato all’interno di un individuo e che, faticosamente, può essere ricostruito e ripercorso, non è alto, quando parliamo di psicosi, attraverso un lavoro individuale.

Il paziente si presenta come una struttura piena di buchi, le parti che non rispondono e che sono state rese non utilizzabili perché scisse e rese dissociate e quello che viene messo in comune, dal paziente, il più delle volte non è molto significativo.

Non perché il paziente non voglia, né che il terapeuta sia sempre non interessato ad interagire con lui, anche se la maggior parte delle volte, in psichiatria, lo è, ma anche perché è molto difficile.

E’ difficile avvicinare e lasciar avvicinare un paziente. Tutte le strategie inconsce di difesa della sopravvivenza del Sé, basate sulla scissione, spingono il paziente a tenersi a distanza dalla possibilità di sentire nuovamente qualcosa e, quindi, a distanza anche dal terapeuta.

Ma se non ci si avvicina e non si interagisce, nulla può cambiare. E, d’altronde, in Psichiatria, quando nulla succede in una situazione psicotica, cioè il paziente non va mai in crisi, allora lo psichiatra è tranquillo. Ma è anche vero che se non succede mai nulla, allora ha vinto la psicosi, che è un ritorno allo stato di quiete assoluta, di morte in vita.

Quindi, pur ribadendo che non è certo l’ideale che le persone stiano peggio, è pur vero che se la tensione non sale almeno un po’, alla fine perdiamo ogni speranza.

Ma se sale e, ogni tanto, sale allora dobbiamo essere pronti prima di tutto con un pensiero.

Ricapitoliamo: il problema è che uno dei due è abitato dall’altro e che, di tanto in tanto, quello che sente di non riuscire a vivere la sua vita ma che, per la prima volta, nelle fasi che precedono la prima crisi e, allo stesso modo, anche quando le crisi si innescano di nuovo, e questo non accade soltanto ai figli psicotici ma anche ai genitori che, di tanto in tanto, quando sono totalmente invasi, non ce la fanno più, entra in contatto con qualcosa di suo, dentro di sé, che, sulle prime, non sa che è suo, ma che poi capisce che è suo, mentre si accorge che sono meno sue le parti di sé che abitualmente usa, che sono quelle parti di sé occupate abitualmente dall’altro.

In quel momento la crisi esplode: il paziente vive disordinatamente la crisi e lui non sa che cosa è più suo e che cosa lo è di meno. Spesso gli altri gli rimandano un’idea inversa a quella che lui sente e questo acuisce la sua confusione.

Lo psichiatra, in genere, è tra questi poiché, dopo aver ascoltato il genitore che gli dice che il figlio non è più lui, conclude che ciò è vero e ciò per certi versi è vero; però lo è nel senso che il figlio, fino a quel momento, era stato quello che l’altro lo aveva indotto a essere e non sé stesso.

Lo psichiatra, in genere, dà credito solo ai genitori e ai familiari e non si sforza di capire cosa sta dicendo di sé il paziente, anche stando male. D’altronde sta male perché sente che nessuno lo aiuta a cercare di capire quello che gli sta accadendo e che, tanto meno lui, sa che cosa sia. Anzi ne è terrorizzato e come potrebbe essere altrimenti, visto che non sa quale è il suo Vero Sé, quello di prima o quello di adesso che appena si intravede in malo modo.

Ma se incontra qualcuno che è in grado di ipotizzare che quello che dice, per quanto apparentemente molto assurdo e detto male, non è del tutto senza senso ma un senso lo potrebbe avere, allora le cose cambiano.

Per avere questa capacità, l‘operatore ha bisogno di poter pensare che il paziente stava male prima della prima crisi e peggio nei periodi intercritici perché prevalgono le parti occupate di sé e che, invece, nelle crisi, oltre ad esprimere sofferenze profonde, a volte intollerabili e che vanno rese tollerabili, i pazienti esprimono qualcosa di proprio che fino a quel momento non erano mai riusciti ad esprimere.

E’ durante queste fasi critiche che un paziente, con l’aiuto dei terapeuti e anche dei suoi familiari, può cominciare a capire di avere una virtualità sana che, prima, non sapeva di avere e, con lui, lo stesso può assaporare il genitore che lo occupava.

Ma questo modo di pensare riformula tutto l’impianto speculativo della Psichiatria: le persone iniziano a stare male da molto presto, in relazione alla incapacità di tollerare, da parte del genitore, che un figlio acquisisca una sua identità in seguito ad un accettabile processo di identificazione e all’incapacità del figlio di viverlo.

Per molti anni, in seguito, le cose vanno apparentemente bene: il figlio è come il genitore avrebbe voluto che fosse.

Finché succede qualcosa: il figlio percepisce che quello che desidera essere è leggermente o molto diverso da quello che gli è stato proposto-imposto di essere. Sente che a qualcosa che desidera e che appare in contrasto con quello che è stato fino al giorno prima, tiene in maniera molto particolare.

Coglie che ad alcuni aspetti di sé che intravede, anche se ancora poco o, comunque, non del tutto chiaramente, sente di non poter rinunciare anche se, perseguendone la sussistenza, sa che entrerà in conflitto con gli elementi precedenti della propria identità e, soprattutto, con le aspettative del genitore a cui è più legato.

E, allora, non sa più che fare: entra in crisi proprio in relazione alla ricomparsa, dentro di sé, di elementi scissi e tenuti a lungo dissociati e, quindi, fino a poco tempo fa, irraggiungibili, proprio perché legati ad un proprio modo di sentire a cui aveva dovuto-voluto rinunciare e che non si era mai sviluppato.

Ora questi tratti più personali emergono anche sotto forma di allucinazioni e deliri apparentemente inspiegabili e, “comunque incomprensibili”.

Non si tratta di un “ritorno del rimosso”, si tratta dell’irruzione del dissociato, di una serie di elementi incompatibili con la visione della vita in cui la coppia simbiotica era stata immersa fino a quel momento.

Improvvisamente, egli può percepire “l’invasione del proprio spazio mentale e la sua occupazione da parte del genitore” e, allora, può nascere in lui un senso di ribellione, spesso cieco.

Comincia ad intuire, ad intravedere che, per essere sé stesso, deve liberarsi dal “giogo identificativo” nel quale si è trovato vivere. E lo fa confusamente, affidandosi a qualcosa di suo ma anche a qualcosa di “qualcun altro che, da quando lo frequenta, gli ha cambiato il cervello”.

A volte è consapevole di correre dei rischi, altre volte no: è così disperato che preferisce prendere dei rischi anche gravi, in quello che fa fuori degli schemi precedenti e che, comunque, lo fa sentire vivo; magari non è nemmeno bello ma è appassionatamente suo.

Molto del futuro dei pazienti si gioca qui, in queste fasi.

Riconoscere che può esserci qualcosa di buono può essere fondamentale e fondante di una loro nuova personalità, la “virtualità sana di JGB” (Jorge Garcia Badaracco), che può finalmente emergere.

E la virtualità sana può essere una nuova dimensione di sé non solo per il paziente identificato come tale, ma anche per il genitore a lui più legato che può, improvvisamente iniziare a rendersi conto di aver dedicato gli ultimi venti anni della propria vita al recupero di aspetti di sé non vissuti, cioè che non era riuscito a vivere, attraverso il figlio e all’instaurazione di un rapporto confusivo per entrambi, privo di confini e della possibilità, per ognuno di loro, di riconoscere sé stesso come separato e autonomo dall’altro.

In questa fase può iniziare la carriera psichiatrica di un paziente o un processo di emancipazione e di crescita per i due attori del legame di interdipendenza patologica e patogena.

Quest’ultimo è un cammino lungo, doloroso, pieno di incertezze, caratterizzato dalla necessità di rimettere in discussione tutte le certezze del passato: è un po’ come se si dovesse riuscire a vedere lo stesso panorama da un punto di vista, anzi da due punti di vista diversi dal precedente.

A volte ci si può accorgere di vedere due realtà non troppo differenti ma due realtà molto differenti e bisogna anche stare attenti a che la “virtualità sana” del più giovane non sia fondata solo sul rifiuto di quella del più grande. La virtualità sana, diciamo vera, deve essere in grado di scegliere e di prendere quello che ritiene utile, sia che non appartenga al passato, sia che vi appartenga.

Lo stesso vale per il “grande”: è importante che impari a tollerare che l’altro a cui era così legato abbia il diritto e il dovere di scegliere la strada che vuole percorrere, anche se diversa da quella che lui gli ha indicato fino a ieri.

A quel punto, se ci riuscirà, il genitore potrà tornare a pensare al proprio modo di essere figlio, alla mancata capacità di emanciparsi dal proprio genitore, il nonno, che lo ha tenuto in suo potere e che lui, il genitore, non ha mai nemmeno preso in considerazione di affrontare e da cui cercare di emanciparsi.

Come già ricordato, l’ipotesi consisterebbe nel fatto che il genitore, che non è riuscito ad emanciparsi dal nonno, attui con il figlio, ritenendolo normale, lo stesso tipo di rapporto che aveva vissuto da figlio e, quando il figlio si ribella, inizi a non distinguere più il suo Sé da quello del figlio, di cui sente “proprie”, anche se mai vissute, le parti in cui il figlio si ribella.

Il padre non era mai riuscito a ribellarsi, aveva scisso e tenute dissociate quelle parti. E quando ricompaiono nel figlio, a questo punto nei suoi confronti come genitore, le vive come proprie e il senso di confusione e di assenza di limiti fra il suo Sé e quello del figlio, già presente, aumenta.

Il genitore diviene quello che sente, pensa dice e fa, meglio del figlio quello che il figlio sentirebbe ma non riesce a sentire, penserebbe ma non riesce a pensare, direbbe ma non riesce a dire e farebbe ma non riesce a fare e qui ci appare la diade psicotica.

Quali possono essere le ripercussioni pratiche che avvengono sul funzionamento della mente degli operatori in relazione all’assunzione del modello d’intervento di Jorge Garcia Badaracco?

E’ possibile ipotizzare attraverso quali meccanismi la partecipazione sistematica ad un GPMF sia in grado di riformulare l’utilizzazione dei modelli d’intervento psichiatrico e psicoterapeutico da parte degli operatori?

Ipotesi esperienziale: nel Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare si può sperimentare (ciò è possibile per ogni operatore) la convivenza al proprio interno dei parametri di riferimento legati al modello psichiatrico e di quelli legati al modello psicoterapeutico.

Come già accennato, il problema principale degli operatori dei Servizi di Salute Mentale, che lavorano in servizi residenziali diurni e residenziali sulle 24 ore, in servizi ambulatoriali e in servizi ospedalieri, è costituito dalla necessità di ricorrere a due differenti forme di pensiero che tendono ad essere organizzate da differenti concezioni del disturbo: quello psichiatrico e quello psicoterapeutico.

Il pensiero psichiatrico ha in sé due obiettivi: di ridurre lo spessore dei sintomi e di far raggiungere alla vita dei pazienti un accettabile livello di stabilità.

Il pensiero psicoterapeutico considera il disturbo l’espressione di difficoltà, più o meno precoci e più o meno gravi, incontrate dai pazienti nel corso del loro processo di crescita.

E’ molto difficile, come diceva Paolo Boccara in occasione della presentazione del libro di A. Ferruta e P. Zanotti dal titolo “Un’esistenza murata”, che si è tenuta a Roma il 15 febbraio scorso, conciliare questi due sostanziali punti di riferimento.

Rimangono, soprattutto, inconciliabili le lenti attraverso cui si guardano le crisi e, di conseguenza, tutto il resto: per la psichiatria vanno ridimensionate e silenziate, essendo soltanto l’espressione di un processo patologico, per quanto possibile da estirpare, mentre per la visione psicoterapica sono un fenomeno drammatico ma significativo, in cui la cosa più importante è capire fino in fondo che cosa sta cercando di dire il paziente di sé che, fino a quel momento, “non si sapeva” e che è venuto fuori solo in quel momento.

Il problema, si diceva, è costituito dalla difficoltà di far coesistere questi due tipi di pensiero, sia nelle fasi critiche che in quelle intercritiche.

Boccara, in quella occasione, citava anche Morpurgo che diceva che la vera difficoltà era, nell’incontro con l’altro, tollerare la sua alterità e che, di fronte all’incapacità di tollerarla, la cosa più facile da fare è definirlo alieno e, quindi, malato e che, quindi, il vero problema è costruire una situazione nella quale il confronto con l’altro non susciti terrore per la sua alterità e, quindi, il ricorso al parametro della malattia come contenitore della sua diversità irraggiungibile.

Prima dell’intervento di Boccara, era intervenuto Angelo Campora che si era chiesto, al momento delle conclusioni, se e come fosse possibile trasformare un equipe di operatori, spesso poco coesi e, talvolta, affatto coesi, in un “gruppo di lavoro” in senso bioniano.

Boccara stesso, più tardi, durante il suo intervento, aveva citato come tra i momenti più ricchi vissuti dalla equipe, ci fossero quelli in cui, nel corso di una supervisione, ognuno dei componenti dell’equipe si ritrovasse a proporre l’interpretazione di una parte evocata dall’interazione con uno dei tanti aspetti del paziente.

Faceva, evidentemente, riferimento al ben noto fenomeno secondo cui un paziente con aspetti dissociati riesce ad evocare in ognuno dei componenti dell’equipe un’interazione con ognuna delle sue parti differenti.

Oltre a questi ci sono stati, a parte quelli particolarmente avvincenti delle due Autrici, altri pregevoli contributi. In particolare di Pino Riefolo, che ha proposto di riflettere sulla contemporaneità della presenza di culture diverse dell’intervento all’interno di ogni operatore e di Rinaldo De Santis, sul problema della necessità di riconoscere l’esistenza del “limite” e di dovere imparare a “fare i conti” con la sua esistenza.

Mentre assistevo a questa discussione così stimolante, ho cominciato a pensare ad uno dei fenomeni che si verificano nel corso dei GPMF e, cioè, al fatto che due pareri profondamente divergenti, anzi, a volte, assolutamente antitetici, trovino comunque ascolto nel corso del gruppo. E che, mano a mano che il gruppo si svolge, in quella seduta ma anche nel corso delle sedute successive, quei due pareri, apparentemente del tutto inconciliabili, divengano dapprima tollerabili l’uno per l’altro e, pian pianino, meno estranei e inconciliabili.

Mi è subito venuta in mente la citazione di Morpurgo a proposito del fatto che la difficoltà vera consiste nel riuscire a tollerare l’alterità dell’altro e di come, nel GPMF, si facesse continua esperienza di come riuscire ad imparare a tollerare l’alterità dell’altro.

Ma mi sono anche chiesto se questo non dipendesse dal particolare contesto nel quale si verificava “questo esercizio di ricerca, dentro di sé, continuo, della capacità di tollerare l’altro”.

E mi è venuto in mente una riflessione condivisa con Jorge Garcia Badaracco, consistente nel considerare che anche nel GPMF, come negli altri gruppi, tipicamente in quelli con pazienti gravi, mano a mano che il gruppo si sviluppa, nel corso di una seduta, nelle menti dei partecipanti, vengono meno i legami con lo schema di funzionamento del pensiero di tipo secondario e si inizia, tendenzialmente, a far riferimento a schemi di funzionamento di tipo primario.

Nel senso che gli interventi iniziano a susseguirsi in relazione all’emergere, nella mente di ognuno, di associazioni libere che, mano a mano che il gruppo si svolge, ci si rende conto che sono organizzate, l’una nei confronti dell’altra, come parti di un unico discorso, sviluppato da una “mente ampliada”, cioè da un’unica grande mente gruppale, che inizia a funzionare contemporaneamente e non in contraddizione con il funzionamento di ogni mente, bensì con il contributo di ognuna delle menti presenti le quali, però, per fornire il proprio contributo, devono far ricorso al processo primario e muoversi per libere associazioni.

E, allora, mi sono detto che c’era un legame tra questo fenomeno che rende conciliabili, cioè contemporaneamente presenti e tollerabili tra loro, in un gruppo che funziona come una “mente ampliada”, cioè come un’unica grande mente, per cui il gruppo può essere visto come un unico grande cervello (1), due pareri espressi da due persone, che fuori dal gruppo tornerebbero ad essere inconciliabili e intollerabili, così come “due pareri interni”, cioè “espressi internamente” dalla stessa persona.

(1) A mio parere, Garcia Badaracco probabilmente pensava che il gruppo fosse una mente e funzionasse come una mente costituita dalle menti che funzionano per associazioni libere. Pensava anche di poter studiare come funziona una mente studiando come funziona un “gruppo-mente.

La mente gruppale è un concetto affascinante per cui ogni mente ha al suo interno più punti di vista, di cui prende in considerazione /e nel quale si riconosce, cioè attraverso il quale riconosce la sua identità in quel momento/ quello che le sembra più utile. L’insieme di tutti gli aspetti di ogni mente formano un organo equilibrato e complesso che, nel suo funzionamento, rassomiglia al funzionamento del gruppo.

Allora quello che prevale è l’insieme e non i singoli pareri, tra due persone, nel gruppo, o all’interno di ogni persona, sempre nel gruppo.

Partecipare regolarmente ad un gruppo, allora, insieme a quegli stessi operatori con i quali, in precedenza, magari, non riusciva mai a trovare un accordo, perché si ritrovavano sempre ad esprimere due pareri inconciliabili, può insegnare ad un operatore che due pareri inconciliabili espressi da due persone in una equipe, in cui le menti dei partecipanti funzionano prevalentemente secondo il processo secondario e quindi non rinunciano al principio di non contraddizione (in “latino”) non sono come due pareri inconciliabili espressi in un gruppo, in cui le menti delle persone che vi partecipano funzionano, soprattutto in alcune fasi, in genere quelle che si verificano dopo che il gruppo ha vissuto una sorta di “processo di riscaldamento”, seguendo, almeno in parte, il processo primario, per libere associazioni e quindi riuscendo a tollerare gli opposti (in “greco”).

Ma se questo è vero, allora è vero anche che quei due pareri interni inconciliabili, espressi all’interno dello stesso operatore, uno esprimente il punto di vista psichiatrico su quel paziente ed uno esprimente il punto di vista psicoterapico, potranno essere tollerati nella loro apparente inconciliabilità.

Pian piano, si potrà imparare a capire che quello che conta è, seguitando a partecipare al processo di rielaborazione continua che avviene nel gruppo, accorgersi che entrambi quei due differenti e apparentemente inconciliabili pareri interni, presenti in ogni operatore, in realtà fanno parte di un’unica visione di quel determinato paziente in quella determinata situazione.

Potrebbe così venirsi a costituire una specie di riunificazione dei paradigmi di intervento presenti in ogni operatore, all’interno di un processo che è basato sull’aiutare le persone che partecipano al gruppo, a cercare e a trovare, dentro di sé, la capacità di non girarsi terrorizzati dall’altro lato di fronte all’emergere dell’alterità apparentemente insostenibile dell’altro

Questo processo, che potremmo definire “processo di gruppalizzazione della mente dell’operatore”, va sperimentato in un gruppo e lì, infatti, viene abitualmente sperimentato da un operatore in formazione e imparato.

Il problema è che viene imparato come una delle tecniche psicoterapeutiche di gruppo che possono essere utilizzate da chi crede a quelle determinate tecniche all’interno di una servizio. E, spesso, questo non comporta una rimessa in discussione dei parametri di fondo dell’intervento che rimangono tragicamente separati tra chi deve pur sempre intervenire psichiatricamente e chi, bontà sua, può pure permettersi di fare lo psicoterapeuta, in questo caso di gruppo.

Il GPMF, prevedendo al suo interno la presenza di figli patologici, genitori o, comunque, parenti e operatori di tutte le professionalità presenti in un servizio e, addirittura operatori appartenenti a servizi diversi, permette la costruzione di un modo nuovo e condiviso di vedere il disturbo che tenga conto al suo interno dei due differenti punti di vista, quello psichiatrico e quello psicoterapico.

Forse è veramente un modo per riunificare questi due paradigmi altrimenti difficilmente conciliabili, a patto, però, che vi partecipi il maggior numero di operatori possibile presente in un servizio.

Tale difficoltà è più sentita nei Servizi Psichiatrici Diagnosi e Cura ospedalieri, in cui i tempi dell’intervento sono molto rapidi, visto che c’è un grande turn-over di pazienti, un po’ meno, ma sempre in forma abbastanza consistente, nei servizi territoriali ambulatoriali, dove i pazienti vengono seguiti più a lungo ma lo sono in un numero tale da non consentire la necessaria assiduità nei trattamenti e meno ancora nelle strutture residenziali, diurne e sulle 24 ore, dove i pazienti sono pochi o, comunque, sempre meno e sono seguiti per più tempo.

Più si costituisce una situazione in cui si possono confrontare stabilmente due gruppi, i pazienti da un lato e gli operatori dall’altro, più si creano le condizioni perché divenga possibile l’instaurazione di un processo di “gruppalizzazione” della mente degli operatori, anche se questa condizione, da sola non basta.

Ma perché è importante instaurare il processo di “gruppalizzazione” della mente degli operatori?

Proprio per imparare a tollerare le alterità . Ma per farlo è necessario costituire un contenitore che consenta agli operatori di non terrorizzarsi né dell’alterità dell’altro (il paziente), né delle apparenti inconciliabilità di due pareri altrui (quello del figlio e quello del genitore o quelli di due differenti operatori), né dell’apparente inconciliabilità di due pareri interni di un unico operatore.

E’ necessario per permettere agli operatori di non rimanere prigionieri della contraddizione secca: ragionando in termini psichiatrici vedo la situazione in un modo, utilizzando il modello psicoterapeutico in un altro. E le due visoni non sono così conciliabili, perché da ognuna di esse derivano una serie di conseguenze mentali e operative.

Ma, soprattutto, utilizzando prevalentemente il cosiddetto processo secondario, in cui prevale un’impostazione cognitiva, questi due pareri, spesso opposti, risulteranno inconciliabili.

L’innesco di un processo di gruppalizzazione stabile della mente degli operatori è legato alla partecipazione settimanale ad un GPMF, che può essere tenuto in ognuna delle agenzie di cui si faceva cenno.

Lavorando settimana dopo settimana a contatto di pazienti e genitori appartenenti a nuclei caratterizzati dalla presenza di patologia grave, gli operatori di un servizio sperimentano che è possibile che, all’interno del gruppo, due pareri inconciliabili, “esterni” o “interni”, possano divenire se non conciliabili, almeno tollerabili.

Una ultima serie di riflessioni riguarda il contesto complessivo nel quale si svolge l’attività degli operatori psichiatrici dei servizi pubblici, quelli che, volenti o nolenti, hanno messo a punto, negli ultimi trentacinque anni, una serie di strategie d’intervento, nei confronti della patologia mentale grave, da cui difficilmente si può prescindere.

Mi riferisco a tutti quegli operatori che, divenuti consapevoli di costituire lo strumento principe dell’intervento stesso, hanno iniziato a portare avanti un difficile lavoro di riflessione sul proprio operato e, quindi, di provare ad imparare dai propri errori.

Non andrebbe, infatti, dimenticato che, come ci ha ricordato recentemente Michele Tansella, citando Fiberger, negli ultimi trenta anni non è stato prodotto, in Psichiatria, un solo nuovo principio farmacologico attivo e che le grandi case farmaceutiche hanno “momentaneamente” abbandonato i progetti di ricerca precedentemente avviati perché ritenuti difficilmente remunerativi in assenza di una formulazione adeguata del funzionamento cerebrale.

Ipotesi trasformativa: se si viene a costituire un GPMF all’interno di ogni servizio di cui si compone ogni UOC da cui è costituito un DSM o, meglio ancora, se si costituiscono dei GPMF che contengono famiglie e operatori afferenti a servizi contigui, ciò può permettere, utilizzando il minimo denominatore comune “teorico” ed “esperienziale” suesposto, la costituzione di un DSM a struttura multifamiliare.

Come si forma un DSM che rassomigli ad un gruppo di lavoro? O che sia costituito da un insieme di gruppi di lavoro tra loro comunicanti e cooperanti nel perseguire un fine unico?

Parafrasando ancora il già citato quesito del dott. Angelo Campora, “come si trasforma un’equipe non sufficientemente coesa in un gruppo di lavoro?”, proverò a chiedermi se e come è possibile fare delle ipotesi organizzative che conducano al raggiungimento di questo obiettivo o, per lo meno, permettano la messa a fuoco di un cammino che sia in grado di lasciar intravedere la mèta.

Penso che vada fatta una premessa, e cioè che io ritengo che la difficoltà principale che si oppone ad un appropriato funzionamento del DSM sia costituita dall’oggetto dell’intervento, la psicosi, che è in grado di produrre effetti molto forti e, a mio parere, generalmente sottovalutati sugli operatori e sulle organizzazioni che dovrebbero pianificarne gli sforzi operativi.

La psicosi, i cui effetti potremmo sintetizzare nella induzione di una perdita, progressiva o per crisi subentranti, di un senso da dare alla vita e, quindi, di una sostanziale devitalizzazione delle persone che ne vengono colpite in prima persona e dei loro familiari, produce, lentamente ma inesorabilmente gli stessi effetti sugli operatori e sulle organizzazioni che dovrebbero aiutare pazienti e familiari a fronteggiarne gli effetti.

Il prodotto più tipico di uno scontro impari o, comunque, non sufficientemente meditato tra la psicosi e il suo contesto e gli operatori, produce, anche se in contesti di cura diversi attraverso modalità apparentemente differenti ma, sostanzialmente, analoghe, gli stessi risultati: che l’operatore, se viene lasciato solo per via delle carenze organizzative che, in psichiatria, dovrebbero mirare, sostanzialmente, a “non farlo rimanere solo”, risulti terrorizzato per il contatto con “l’inconoscibile” e reagisca ponendosi in una posizione difensiva che gli rende sempre più difficile la possibilità di capire il fenomeno che si trova di fronte.

Meno viene aiutato dall’organizzazione a trovarsi nella posizione di essere in grado di comprendere (posizione psicoterapeutica), cioè non da solo nell’impatto quotidiano con la psicosi, più tenderà prevalentemente a contenere (posizione psichiatrica).

L’organizzazione di cui fa parte l’operatore ( per es. il Centro di Salute Mentale), a sua volta, se non si dà degli strumenti per interpretare quello che accade che, in qualche modo, dovrebbe permetterle di porsi, almeno per un momento, nei panni dell’altra organizzazione adiacente (il Centro Diurno o la Riabilitazione Diffusa o il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura o la Comunità Terapeutica) per comprenderne le necessità , tende a reagire nello stesso modo: si mette nella stessa posizione difensiva, cioè inizia a pensare che la cosa giusta da fare sia quella che torni utile a sé stessa, dimenticandosi di fare parte di una rete di servizi e che il benessere del paziente può essere perseguito soltanto se tutte le organizzazioni dello stesso distretto o, addirittura, dello stesso dipartimento, viceversa, iniziassero a funzionare in rete, cioè costituendo ognuna una tappa significativa di un lungo e articolato percorso terapeutico per il paziente e per la sua famiglia.

Già, la psicosi e il suo contesto, perché una precondizione indispensabile è quella di partire dal presupposto che la psicosi non è costituita soltanto dal paziente, ma dal paziente e dalla sua famiglia, indipendentemente dal fatto se è presente, se è in vita o se ne è rimasto solo il ricordo, perché la patologia psicotica si basa sull’esistenza di relazioni patologiche, originatesi nel passato ma tuttora intercorrenti, sia tra il paziente e i suoi familiari più stretti, in primis i genitori, esterni, cioè reali, sia tra il paziente e i suoi genitori interni. Pertanto, a mio parere, è assolutamente essenziale prendere in considerazione, magari anche per decidere di non convocarli mai, i familiari stretti del paziente e, sempre e comunque, quelli interni.

Ma torniamo alla psicosi presa in considerazione in un contesto di paura e di difesa.

Il paziente viene preso in considerazione da solo, viene fatta una diagnosi sulla base dei segni psicopatologici presenti e viene formulata una terapia farmacologica che poi sarà controllata di tanto in tanto. Il paziente psicotico viene messo in una posizione di “lontananza”, dove non possa nuocere più di tanto. Viene preso in carico sostanzialmente da uno psichiatra, al massimo coadiuvato da un infermiere per la terapia farmacologica e da un’assistente sociale per il sussidio o per la pensione. A volte, dove sono sopravvissuti, cioè non sono stati falciati dal blocco del turn over, intervengono anche psicologi psicoterapeuti, ma il loro intervento soltanto raramente può andare oltre un seppur apprezzabile intervento di sostegno psicoterapeutico.

L’obiettivo dell’intervento è di non far avvenire delle nuove crisi (obiett. psichiatrico), non di far riprendere il processo di sviluppo interrotto (obiett. psicoterapeutico). Per non fare avvenire nuove crisi è opportuno non sollecitare troppo il paziente. Così, per qualche anno il paziente vede questi tre o quattro personaggi del servizio e, finché non ha una nuova crisi, sono tutti contenti.

Anche io mi sono ritrovato, a lungo, nel ruolo dello psichiatra che si comporta così: l’ho fatto per tanto tempo e trovo che non ci sia niente di male; solo che, inquadrata da questa prospettiva, la psicosi non passa, rimane lì immobile. Cioè raggiunge esattamente l’obiettivo perseguito dalla “malattia” e non sufficientemente contrastato dagli operatori e dalle organizzazioni di cui gli operatori fanno parte: congelare la storia della evoluzione dei rapporti di quella famiglia e, conseguentemente, dell’individuo che apparirà, da allora in poi, come l’unico portatore del disturbo e degli altri membri del nucleo. Nessuno crescerà più. Ma la vita della famiglia a transazione psicotica e delle persone che la compongono è come l’Impero di Roma: se non cresce più, inizia a decadere e poi muore mentre, apparentemente, ancora vive.

Ben presto lo psichiatra inizia ad avere cento o anche cento cinquanta di queste situazioni da “tenere a bada” e si convince sempre più che il bene del paziente è che lui sia ragionevole e sottomesso ai desideri di uno o di entrambi i genitori a cui non pare vero di poter tornare a fare il genitore invece di dover cominciare ad imparare, piano piano, a fare a meno di pensare prima ai figli o al figlio che a sé. Anche perché di tornare a pensare a sé è talmente tanto tempo che non lo fa che, forse, un po’ lo angoscia e, viceversa, di seguitare a sacrificarsi per il bene del figlio non vede l’ora.

Parlo di queste cose perché questa è l’ideologia prevalente, anche se non detta, presente nei servizi di salute mentale e anche se iniziano ad esserci delle eccezioni.

L’operatore, sostanzialmente solo, schiacciato in questa posizione impossibile, finisce per fare quello che fa il paziente: si chiude nel suo mondo professionale fatto prevalentemente di sforzi di contenimento della follia del paziente e delle “pretese di attenzione e cura” non sempre facilmente gestibili dei familiari. Alla fine si sente assediato, come il servizio di cui fa parte.

L’effetto devastante di questo assedio è che il paziente si blocca, la famiglia si blocca e torna indietro e all’operatore, che fin dall’inizio aveva contingentato al minimo la sua partecipazione emotiva, mano a mano si paralizza il pensiero, così come al servizio di cui fa parte. Nessuno spera più in una evoluzione. Diventiamo tutte persone che assistono ad un destino ineluttabile: la schizofrenia ha colpito la sua preda e, sostanzialmente, non c’è più nulla da fare. Al massimo si può assistere, nella maniera più civile, a questa lunga agonia.

Mediamente dopo cinque anni che va avanti tutto ciò, improvvisamente qualcuno si sveglia dal torpore e il paziente viene inviato al Centro Diurno.

In realtà è la seconda volta che si verifica questo soprassalto: la prima era avvenuta cinque anni prima, poco prima dell’arrivo al Centro di Salute Mentale, che è già la seconda stazione di questa specie di interminabile Calvario, non solo del paziente ma di tutti: paziente, familiari e operatori.

Cinque anni prima, mediamente, infatti, il paziente era arrivato al Centro di Salute Mentale dal Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura, dove era stato prima ricoverato e poi seguito, appunto, per i primi cinque anni. Perché, come si diceva all’inizio, le organizzazioni funzionano ognuna per conto suo e non “tengono fiducia” nella successiva stazione dell’ipotetico percorso sanitario.

Quindi il paziente (come risulta indirettamente dai dati del processo di Audit, attuato nel Dipartimento di Salute Mentale della ASLRMA nel 2012) era giunto al Centro di Salute Mentale dopo alcuni anni di trattamento ambulatoriale, post crisi e ricovero, attuati o dall’ambulatorio del Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura o da operatori privati a cui era stato, nel frattempo, inviato.

E, adesso, dopo altri cinque anni passati al Centro di Salute Mentale, viene inviato al Centro Diurno.

Ce ne vorranno altri cinque, sempre mediamente, perché venga inviato in Comunità Terapeutica che, così, inizierà ad occuparsi di un paziente psicotico, mediamente poi ci sono le eccezioni, per fortuna, dopo circa quindici anni dall’inizio della sintomatologia conclamata.

Ora tutto ciò non avviene per responsabilità personali. La responsabilità è organizzativa e gestionale. Ma tutto questo ci serve per capire che quello che ho descritto, dal mio punto di vista, è quello che non dovrebbe accadere, cioè corrisponde ad un modello d’intervento “diacronico” del distretto o del dipartimento, cioè scaglionato nel tempo. In realtà non c’è un “disegno” dietro a tutto ciò: le cose vengono fatte o lasciate accadere in perfetta buona fede. Cioè tutti sono convinti di fare la cosa migliore per il paziente: però non è così.

A questo punto forse cominciamo a capire che cosa è un modello “sincronico” di funzionamento di un’organizzazione, almeno per quanto riguarda la fase valutativo-progettuale iniziale che, a mio parere, non può essere solo frutto di un soprassalto della coscienza o del portafoglio che si verifica, mediamente, ogni cinque anni.

Forse potremmo cominciare a pensare che la valutazione di come sta “quel paziente” venga fatta all’inizio, al Centro di Salute Mentale o al Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura e che subito si provi a prendere in considerazione in che tipo di contesto è inserito, perché il contesto familiare, oltre ad essere composto da qualcuno che ci è entrato qualcosa con la “produzione” del problema, può, soprattutto, divenire parte attiva dei tentativi di risolvere quel problema e che, in seguito, si proceda alla formulazione di un progetto che dovrebbe, fin dall’inizio, ricordarsi di poter disporre di tutte le potenzialità che un Dipartimento di Salute Mentale può mettere a disposizione per instaurare una lunga guerra che miri ad inibire lo sviluppo di quel processo di devitalizzazione del paziente, dei suoi familiari e degli operatori di cui abbiamo parlato fino a pochi minuti fa.

Non sto dicendo che, da subito, si debba pensare ad un inserimento in Comunità Terapeutica come unica “forma aggressiva” di terapia. Lo stesso risultato, di pianificare un intervento che miri a rendere possibile il riavviamento di un processo di crescita del paziente, di tutti gli altri membri della famiglia e della famiglia stessa, può essere ottenuto anche lavorando ambulatorialmente e a domicilio, se se ne riscontra la necessità, sia in senso psicofarmacologico che psicoterapico, individuale, familiare e di gruppo, che attraverso l’utilizzazione della frequentazione di un Centro Diurno o delle Attività Riabilitative Diffuse sul territorio. Il punto essenziale è: costruire una situazione terapeutica che venga in primo luogo ipotizzata, successivamente messa in funzione e, infine, monitorizzata nella sua evoluzione, cioè verificata.

Sto parlando, ad esempio, di quelle famose riunioni “sui casi già seguiti”, che tante resistenze suscitano ad essere istituite all’interno dei Servizi, perché pongono gli operatori nella necessità di mettere in mostra le proprie modalità di lavoro, di tollerare che su di esse si apra un dibattito e, soprattutto, in cui si corre il rischio di essere “criticati ingiustamente” (“proprio a me che mi sono preso un sacco di pazienti, che non dico mai di no al momento dell’assegnazione”).

Bene, come si supera questa giusta diffidenza, questa difficoltà che ha fatto naufragare, nel tempo, tutti i tentativi a cui ho partecipato, in passato, miranti ad ottenere lo scopo di costruire un’area di riflessione sui “casi già seguiti” all’interno delle equipes di tutti i tipi di servizio in cui ho lavorato?

Il problema è che non è vero affatto che condividiamo i presupposti teorici su cui viene, successivamente basata la nostra azione.

Io penso che noi dobbiamo lavorare molto per costruire una situazione nella quale gli operatori abbiano la sensazione di muoversi all’interno di un pensiero generale di riferimento condiviso.

Soltanto se riusciremo a raggiungere il risultato di far sentire ad ognuno di far parte di un gruppo che condivide la lettura dei fenomeni e le principali “mosse” necessarie ad interferire costruttivamente con l’evoluzione patologica di quei fenomeni, allora potremo avere una capacità sistematica di osservare l’evoluzione degli interventi messi in atto dagli operatori, cioè di costruire l’epidemiologia degli interventi.

Ma come si fa a costruire un minimo denominatore comune che permetta di sentirsi parte di un insieme non ostile, nel quale sia possibile esporsi senza avere la sensazione che quella discussione si trasformi in un atto d’accusa o di squalifica del proprio operato? E, soprattutto, come si fa tenendo conto che è necessario che ognuno seguiti a sentire di essere libero di scegliere l’intervento da pensare e da proporre, che costituisce l’essenza della sua attività? Cioè che sia possibile individuare delle linee di azione generali, di fondo, condivise e che poi ogni operatore sia libero di contrattare, con gli altri con cui collabora, il progetto individuato per quella specifica situazione?

Io credo che si tratti di pensare ad una strategia complessa che si articoli almeno in sei o sette ambiti o livelli:

il Gruppo di Psicoanalisi Multi Familiare che, a mio avviso, andrebbe introdotto in ogni servizio,

le riunioni dei singoli Servizi,

le riunioni delle Unità Operative Complesse,

la riunione di verifica sulla appropriata utilizzazione dei posti del complesso circuito delle residenzialità a partecipazione dipartimentale,

il Comitato di Dipartimento,

la Supervisione di singoli Servizi, di ogni UOC e, se possibile del Dipartimento, quest’ultima orientata dalla Psicoanalisi delle Istituzioni,

la “riunione teorica” mensile e i convegni, interni ed esterni.

Tutti avranno notato che agli abituali strumenti di discussione e messa a punto dei progetti d’intervento, la riunione d’equipe, la riunione di Unità Operativa Complessa e il Comitato di Dipartimento, ne è stato aggiunto uno del tutto nuovo che è il Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare e due sono stati modificati, il primo per l’allargamento della base partecipativa, che è la riunione sulle “residenzialità” e l’altro, che è la Supervisione, con l’introduzione dell’idea che evada svolta a più livelli.

In relazione al venirsi a costituire di un minimo comune denominatore, che si può raggiungere con la partecipazione sistematica degli operatori ai GPMF, gli altri livelli di riflessione ed elaborazione delle strategie d’intervento potrebbero assurgere a nuova vita, dopo aver abbandonato la loro tendenza a burocratizzarsi. L’effetto potrebbe essere di dare luogo alla costituzione di un DSM a struttura multifamiliare.

 

Bibliografia

 

Gregory Bateson, Don D. Jackson, Jay Haley e John Weakland: “Verso una teoria della schizophrenia”, editore Boringhieri.

Wilfred Bion: “Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico”, editore Armando.

Jorge Garcia Badaracco: “Psicoanalisi multifamiliare”, editore Boringhieri. Christofer Bollas: “L’ombra dell’oggetto”, editore Borla.

Paul Claude Racamier: “Il genio delle origini”, editore Il pensiero Scientifico.

Herbert Rosenfeld: “Attenzione e interpretazione”, editore Boringhieri.

Joseph Sandler: “Gli oggetti interni: una rivisitazione”, editore Franco Angeli.

Harold Searles: “Scritti sulla schizofrenia”, editore Boringhieri.

Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson: “Pragmatica della comunicazione umana”, editore Astrolabio.

Donald Winnicott: “Frammento di un’analisi”, editore il Pensiero Scientifico.

 

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