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Nicasi S. (2016). Commento del caso clinico di A.: “Lavorare con la complessa combinazione delle dinamiche paranoide e masochistica: un caso clinico” presentato da N.McWilliams (Giorn. di Studio con A.Ferruta e N.McWilliams, 17 sett 2016)

COMMENTO al caso clinico di A. (*): “Lavorare con la complessa combinazione delle dinamiche paranoide e masochistica: un caso clinico” presentato da Nancy McWilliams nella Giornata di Studio “Lo spettro della follia – diagnosi e storie cliniche” (Firenze, 17 settembre 2016).

(*) N.B. Il caso clinico non viene pubblicato per motivi di riservatezza.

“La diagnosi è il processo di raccolta e di organizzazione delle informazioni sul paziente col fine di raggiungere una migliore comprensione della persona, un processo che nella mente del clinico rimane indispensabile per poter assumere decisioni terapeutiche” (Sarno e Caretti, 1994, 7): l’Introduzione all’edizione italiana de La diagnosi psicoanalitica si apre con questa affermazione nella quale le parole chiave mi sembrano processo, persona, decisioni.

La diagnosi ha carattere e andamento processuale nel senso che, sulla base di un’impressione iniziale, talora basata su una sorta di istantanea percettiva secondo i fenomenologi, si va costruendo, modificando e affinando nel tempo e nella relazione con il paziente. Secondo una bella metafora di Mario Rossi Monti, assomiglia di più a un filmato che a una fotografia.

La diagnosi cerca di raggiungere la persona del paziente: proprio quel paziente, proprio A. nel  caso che N.McWilliams ha presentato. Un manuale diagnostico è come un guardaroba nel quale il clinico va a pescare l’abito – la diagnosi – che sulle prime gli pare adatto per il paziente ma nel corso del tempo, della reciproca conoscenza e delle “prove”, l’abito pret à porter dovrebbe diventare una creazione sartoriale, tagliato sul paziente, nel tessuto e nelle rifiniture che meglio si addicono a lui. Come diceva Coco Chanel, un vestito è ben fatto se scompare mettendo in risalto chi lo indossa. Uno dei principali problemi del clinico nel formulare la diagnosi è che il cliente non sta fermo mentre gli si prendono le misure. E penserei che la diagnosi non debba mai diventare un vestito “finito” per quel sarto che è il clinico, ma che debba conservare un carattere di provvisorietà, una disponibilità a farsi riaggiustare: un vestito con le imbastiture, le tracce del gessetto e qualche spillo.

La diagnosi consente di adottare decisioni su come trattare il paziente: decisioni grandi e piccole alle quali il paziente risponderà e nel rispondere orienterà la diagnosi e le conseguenti mosse terapeutiche.

Nel caso di oggi, vediamo questi principi all’opera e interagenti così come vediamo il contributo apportato dal paziente all’affinamento del processo diagnostico e delle strategie di intervento. Il paziente infatti non arriva quasi mai alla terapia digiuno di se stesso: si è fatto delle idee, ha formulato ipotesi, ha tentato di curarsi da solo, sa giudicare se un rimedio può essere efficace per lui oppure no. Il paziente va ascoltato e auscultato, come fa Nancy McWilliams che non ha paura di “toccarlo” e come continuano a fare i bravi medici di famiglia. La sua confidenza nel maneggiare il paziente, unita alla delicatezza rispettosa, ha un effetto rassicurante e invita alla collaborazione. La competenza che il paziente ha acquisito su se stesso viene valorizzata e incoraggiata: A. si commuove quando l’analista si dimostra pronta a rivedere le proprie concezioni per imparare qualcosa da lei sulla dipendenza dal cibo.

Vi ricordo che A. giunge alla terapia con una sua “diagnosi” sulla terapeuta: ne ha letto il libro e ha deciso che questa terapeuta fa al caso suo. Il libro è magnifico e chi di noi non vorrebbe Nancy come analista dopo averlo letto? Ma A. va proprio a cercarla – non si scoraggia di fronte a un personaggio famoso, presumibilmente meno raggiungibile e più costoso di altri. Si direbbe che A.  voglia il meglio e questo non è poco per una persona che tende a fare scelte autolesioniste. Potremmo pensare che finalmente ne ha infilata una giusta o che c’è un principio di inversione di tendenza o che non è tanto “masochista” quanto sembra. Forse nemmeno tanto “passiva”.

“Voglio essere viva. Credo di aver trascorso la maggior parte della mia vita in una nebbia”. In effetti A.  sembra una sepolta viva. Sprofondata nel corpo che le provoca vergogna mentre la protegge da una vergogna primitiva, ancora più grande. L’analista deve farsi strada fra le spesse e maleodoranti pieghe del suo corpo per arrivare fino a lei: intuisce, controtransferalmente, che è intrappolata nel bisogno dell’altro unito a un profondo senso di indegnità che la porta a nascondersi come un animale braccato e ipervigile. Del resto sua madre la voleva morta. “Le persone autodistruttive vivono nel terrore, quasi sempre inconscio, che un osservatore possa scoprire le loro debolezze e rifiutarle per le loro iniquità. Per combattere tali paure tentano di rendere manifesta la loro impotenza e i loro sforzi di essere buone”  (McWilliams 1994, 294) ha scritto Nancy McWilliams nel libro sulla diagnosi.

Muovendosi con molta cautela, l’analista procede nella conoscenza di A. che mostra alcuni tratti di personalità dipendente descritti da Vittorio Lingiardi e da lui associati al maltrattamento (Lingiardi, 2001, 228), attraversa stati di depressione, mangia in modo compulsivo compromettendo gravemente la sua salute e il suo aspetto, subisce il disprezzo di chi le sta accanto come un tempo quello della madre e della nonna, reprime il proprio orientamento sessuale in osservanza alle rigide regole della comunità religiosa alla quale appartiene. Nella vita, A. lavora, cresce due figli, partecipa alle attività della chiesa. E’ intelligente, simpatica e spiritosa. Un quadro variegato e complesso nel quale non è facile orientarsi.

La decisione diagnostica di fondo, che peserà sulle mosse terapeutiche, consiste nel distinguere fra depressione e masochismo. A. viene inquadrata come una persona masochista piuttosto che come una persona depressa. Di conseguenza la terapeuta si attiene al dettato di fondo che raccomanda “Nessuna indulgenza” verso i pazienti masochisti (McWilliams, 298): a differenza che con i depressi, con i masochisti non va fatta nessuna concessione speciale. Il terapeuta offre un rispecchiamento empatico della sofferenza del paziente ma non rinforza la sua convinzione che solo la sofferenza premi e dia diritto a un trattamento di favore. Il terapeuta non fa nessun “sacrificio” per il paziente e non lo commisera. Non pensa: “poverino!”. Chiede piuttosto: “come ha fatto a cacciarsi in questa situazione?”. Il paziente è aiutato a rivalutare gli effetti positivi dell’autoaffermazione, del pretendere il rispetto dei propri confini e limiti, della capacità di agire sulla realtà per modificarla a proprio vantaggio (agency).

Il buon esito dell’analisi di A. testimonia la qualità del lavoro diagnostico e terapeutico e rende ragione all’intuizione iniziale dell’analista che ha superato, come direbbe Freud, “la prova della strega”: far bollire il paziente nella terapia e assaggiarne il brodo alla fine per valutare se la diagnosi e la prognosi erano indovinati (Freud, 1932, 259-260).

Qualche considerazione sul “masochismo”.

Nel libro sulla diagnosi, Nancy McWilliams ha provveduto a distinguere fra il masochismo in campo sessuale (provare piacere nel soffrire fisicamente e nell’essere umiliati) e il masochismo come stile di attaccamento, caratteristico delle persone autodistruttive, che si sottomettono agli altri nella speranza di riceverne amore e nella convinzione che solo sottomettendosi e annullandosi possono essere accolte e amate. Un’eredità poco felice della prima teoria pulsionale freudiana fa erroneamente credere che le dinamiche sessuali e quelle della personalità siano necessariamente isomorfiche (McWilliams, 1994, 292). Così non è.

Ma proprio in virtù di questa eredità, pesa sulla parola masochismo un alone semantico che la rende ambigua: per questa ragione alcuni, come Sandra Filippini che si è occupata di maltrattamento nella coppia, hanno proposto di restringerne l’uso soltanto alla sfera della sessualità.

Sandra era preoccupata di liberare la vittima (in genere donna) dal sospetto di una  compiacenza segreta con il maltrattante. Sosteneva che il clinico in questi casi si comporta come uno scienziato ingenuo, cioè come la maggior parte delle persone, scambiando gli effetti per le cause (la debolezza della vittima, la sua incapacità di reagire è la conseguenza di una prolungata situazione di abuso, non è il motivo scatenante di questa situazione). Propendeva pertanto per una diagnosi situazionale piuttosto che disposizionale: la vittima è resa tale dalla situazione che vive e non dalla sua personalità. Pensava, viceversa, che il maltrattante, il perpetratore, avesse uno specifico profilo personologico e stile relazionale. Del resto, un’impressionante mole di studi di psicologia sociale ha ampiamente documentato l’esistenza di specifiche “strategie di vittimizzazione”. Sandra Filippini riconosceva che, nella maggior parte dei casi osservati, la vittima aveva una storia infantile traumatica, proprio come nel caso di A., ma si rifiutava di disegnarne un profilo: in fondo, questo non avrebbe fatto altro che spostare indietro nel tempo la “colpa” di avere subito.

L’operazione compiuta da Sandra Filippini è stata salutare: era urgente e andava fatta, specie nel mondo psicoanalitico. Tuttavia credo che se Sandra avesse potuto seguitare il suo studio oggi sarebbe disponibile a un confronto più disteso con Nancy McWilliams, autrice da lei molto apprezzata.

Forse avrebbe potuto accettare una formulazione del tipo: il fatto che le vittime non provino piacere nel subire non significa che non ne ricavino un guadagno narcisistico e relazionale. Questo, se ho capito, è il terreno nel quale si spinge Nancy McWilliams che non usa la diagnosi di personalità autodistruttiva come un verdetto ma come un’ipotesi guida con la quale ricostruire e comprendere la storia del formarsi di un tratto di personalità e di una modalità di stare con l’altro che possono essere modificati a caro prezzo ma con sicuro vantaggio per il paziente.

 

BIBLIOGRAFIA

Filippini S. (2005), Relazioni perverse, Milano, Franco Angeli.

Freud S. (1932), Introduzione alla psicoanalisi, OSF, 11, 117-284.

Lingiardi V. (2001), La personalità e i suoi disturbi, Milano, Il Saggiatore.

McWilliams N. (1994), La diagnosi psicoanalitica, Roma, Astrolabio, 1999 Rossi Monti M.

Sarno L. e Caretti V. (1999), “Introduzione all’edizione italiana” in McWilliams, 1994, 7-14

 

 

 

 

 

 

 

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