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Psicoanaliste, “Il piacere di pensare” – 8 marzo 2013 Pisa

psicoanaliste-il piacere di pensare

Presentazione 

Venerdì 8 Marzo 2013, ore 21:15

 
Saletta ETS, Piazza Carrara 16 – Pisa
 

Introduce e coordina:

M.G. Vassallo Torrigiani, psicoanalista SPI

 

 

Intervengono:

Paola Bora, Docente di Antropologia Filosofica, Presidente Casa della Donna, Pisa

Benedetta Guerrini degl’Innocenti, psicoanalista SPI Segretario Scientifico CPF

Barbara Henry, Docente di Filosofia Politica, Scuola Superiore S. Anna.

 

Sarà presente la curatrice e coautrice

Patrizia Cupelloni, psicoanalista SPI

Presentazione del libro: Psicoanaliste. Il piacere di pensare. (a cura di) P.Cupelloni, F.Angeli, 2012.

Pisa 8 Marzo 2013. Piazza Carrara, Saletta ETS.

Introduzione di Maria Grazia Vassallo Torrigiani.

 

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Nella concezione culturale e antropologica occidentale, la mente ed il corpo sono stati considerati due mondi contrapposti: l’uno più alto e nobile, l’altro più basso e impuro; appannaggio degli uomini il primo, e delle donne il secondo. Anzi, più precisamente, le donne sono a lungo state considerate non solo non-soggetti di pensiero ma anche non-soggetti di piacere, esclusivamente oggetti del piacere maschile, ossia pensate e definite dalla ideologia maschile dominante.

La psicoanalisi, al di là di teorie e modelli che si trasformano nel tempo, costituisce intrinsecamente uno strumento concettuale che scardina l’assunto della contrapposizione mente/corpo, in quanto muove dall’inscindibile connessione tra psiche e soma, e pone la sensorialità alla base dei processi trasformativi da cui originano i pensieri.

Venendo al libro, oltre al titolo e i nomi di tutte le colleghe coautrici del volume, la grafica di copertina reca un’immagine: dal groviglio di sottili linee di contorno, emerge una sagoma femminile che suggerisce un moto avanzante, “una donna in movimento”, riproduzione di un lavoro di Stefania Salvadori, una collega romana artista e psicoanalista che nelle sue opere si è ripetutamente confrontata con questo motivo figurativo, che il grande studioso d’arte Aby Warburg avrebbe classificato come una delle ricorrenti figure del pathos, individuabili in molteplici declinazioni nel nostro immaginario e cultura visiva. In questo caso, il riferimento sarebbe alla figura della ninfa, o della giovane donna connotata dallo svolazzare delle vesti, tradizionalmente personificazione delle stagioni e del cambiamento, che in questa forma plastica qui si offre come significante di un significato invisibile che psicoanaliticamente interpreto come movimento vitale delle emozioni.

 

 

Molti di voi sapranno che un’icona classica della psicoanalisi freudiana è l’immagine ormai nota come La Gradiva, la “fanciulla che avanza” immortalata in un bassorilievo dei Musei Vaticani, di cui una riproduzione era stata collocata da Freud nel su studio, in fondo al lettino dei pazienti. L’affezione che Freud nutriva per questa immagine origina dall’interesse che aveva suscitato in lui un breve romanzo dello scrittore Wilhelm Jensen, pubblicato nel 1903 con il titolo Gradiva, una fantasia Pompeiana, che si ispirava a quel bassorilievo a cui il protagonista del libro aveva dato il nome Gradiva – in latino “l’avanzante”.

Nel 1907 Freud aveva dedicato a questo racconto una approfondita analisi, trattandolo come caso clinico tra estetica e psicoanalisi riguardante il giovane archeologo che ne era protagonista.

Ne Il deliro e i sogni e nella Gradiva di Jensen, l’analisi minuziosa che Freud fa del racconto mira ad evidenziare dunque l’analogia tra l’archeologia e la psicoanalisi. Ma evidenzia anche quanto la mente turbata del giovane ritrovi alla fine il suo equilibrio grazie ai colloqui e all’azione psicologica esercitata su di lui da una fanciulla, creduta nel suo delirio Gradiva rediviva.

A questa giovane donna, il cui nome è Zoe Bertgang (Zoe -> vita; Bertgang -> andatura splendente; notare come nel nome latino Gradiva compaia il nome tedesco rimosso!!), a questa giovane donna Freud attribuisce un risolutivo ruolo terapeutico, e quanto Zoe fa per ricostruire e risolvere la fissazione dell’amico “coincide – dice Freud – nella sua essenza con il metodo terapeutico da me introdotto” di “rendere cosciente il rimosso e far risvegliare i sentimenti” (p. 331).

“[…] se la giovane […] accetterà così pienamente il delirio di Harold, è probabile che lo faccia per liberarlo da quello […]. Anche un trattamento effettivo di un ugual stato morboso reale non potrebbe procedere in altro modo che mettendosi inizialmente sul terreno stesso della costruzione delirante, per poi analizzarlo nel modo più completo possibile […]. Naturalmente viene anche il sospetto che il nostro caso patologico vada a finire in una “solita” storia d’amore; ma non bisogna poi disprezzare l’amore come forza terapeutica contro il delirio; e in fin dei conti l’infatuazione del nostro eroe per il suo bassorilievo della Gradiva non è già forse un vero innamoramento, anche se rivolto a qualcosa di passato e di inanimato?” (p. 275/76).

 

 

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Avrete notato come qui Freud, garbatamente, alluda al legame di transfert, ma ciò che mi piaceva mettere in luce – in questo mio parlarvi di Gradiva – è quanto Gradiva/Zoe, nella lettura di Freud, sia il personaggio capace di operare nel giovane il cambiamento che lo restituisce alla vita, ponendosi dunque in questo senso come figura dell’analisi e dello psicoanalista, che Freud vede qui incarnato per la prima volta in un personaggio “letterario”, e di sesso femminile.

Si è spesso parlato di un paradosso, relativamente all’atteggiamento di Freud verso le donne, e trovo che queste parole della psicoanalista Hanna Segal lo esprimano incisivamente, anche se in modo un po’ tranchant: “Ritengo che la teoria di Freud che le bambine pensino di avere un pene, e poi scoprano che non è così, sia un imbroglio (bunko: imbroglio, truffa). D’altro canto Freud fu il primo a trattare le donne come essere umani, nel senso che attribuì alla sessualità delle donne un giusto rilievo. Non le considerò esseri asessuati. E ancora più importante, penso, la psicoanalisi è la prima organizzazione professionale in cui, fin dall’inizio, le donne furono trattate esattamente come gli uomini”.

In effetti è vero che Freud non ebbe pregiudizi nell’accogliere nel suo movimento donne interessate alle sue teorie, che volevano formarsi come psicoanaliste, e la psicoanalisi fu assai più aperta alle donne di tante altre istituzioni dell’epoca. Si è calcolato che tra il 1920 e 1980, laddove la presenza femminile in medicina e in discipline giuridiche risultava rispettivamente tra il 4%-7% ed l’1,5%, nella professione psicoanalitica la percentuale saliva al 27%.

È dunque innegabile uno scarto tra il comportamento di Freud e la sua considerazione per il contributo femminile, e le sue affermazioni teoriche secondo cui – sostanzialmente – la donna viene definita dal non-essere-uomo, da uno sviluppo psicosessuale che si struttura intorno alla mancanza del pene, con conseguente debolezza del Super-Io, masochismo e narcisismo. Tuttavia nell’ultimo decennio della sua vita Freud, con sorpresa, prese atto che esisteva una fase preedipica in cui centrale era la primissima relazione con la madre, e ammise onestamente , da uomo di scienza, che la femminilità rimaneva per la psicoanalisi un “continente nero” ancora in parte da esplorare. Come Socrate chiese a Diotima lo svelamento del mistero dell’amore, così Freud si volse alle donne analiste. Suggerì infatti che le donne analiste erano forse in una condizione privilegiata per condurre l’esplorazione del “continente nero” della femminilità, anche perché le loro pazienti donne non si sarebbero rifugiate nel transfert sul padre, cosa che gli aveva impedito di rendersi conto dell’importanza della figura materna nelle primissime relazioni e, come poi si è visto, dei suoi effetti sui processi mentali precoci e sullo sviluppo successivo.

L’importante contributo scientifico delle analiste donne non si è limitato solo alla sfera della sessualità e dello sviluppo psicosessuale femminile; il loro pensiero teorico ha fertilizzato creativamente, innovato e arricchito di articolazioni la psicoanalisi freudiana per come oggi la conosciamo e la pratichiamo. Alcune delle “figlie” di Freud, delle analiste in cui riconoscersi come “madri” in una linea intergenerazionale, vengono raccontate in questo libro da dodici analiste italiane contemporanee.

Vi troverete Sabine Spielrein, che per prima introdusse il concetto di istinto di morte; Lou Salome, cui si devono acute riflessioni sull’analità e sulla funzione strutturante e positiva del narcisismo. Melanie Klein e Anna Freud, che hanno introdotto l’analisi infantile; Margaret Mahler, con i suoi studi sui processi di separazione/individuazione. La Tustin, che ha indagato sulle modalità autistiche di autocontenimento, e le due grandi studiose della sessualità: la Chasseguet-Smirgel – importanti anche i suoi contributi sui processi di idealizzazione – la Mc Dougall la teorica delle neosessualità.

 

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L’attenzione e la valorizzazione del controtransfert è da ascriversi a Margaret Little e a Paula Heimann, mentre l’importante e originale introduzione del concetto di pittogramma si deve all’Aulagnier. Sull’angoscia del vuoto, e la sua relazione con i processi creativi, estremamente interessante è stato il contributo della Milner.

 

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Le autrici del volume collettivo hanno mirabilmente tracciato i profili di queste analiste “storiche”, intrecciandone percorsi di vita e di pensiero. Ciascuna autrice riflette, e sembra riflettersi con partecipazione affettiva, sulle vicende esistenziali e snodi teorici su cui si è concentrata la tensione conoscitiva di ciascuna delle analiste interrogate, suggerendone quasi, psicoanaliticamente, un intrinseco, sotterraneo collegamento, e in ciò riprendendo la riflessione della Aulagnier che si dichiarava profondamente convinta della stretta connessione tra la ricerca di una propria verità esistenziale, e la costruzione di una propria teorizzazione.

In un intreccio ulteriore, le colleghe che sono entrate nella vita e nell’opera dell’autrice prescelta per restituircene i punti salienti, come scrive Patrizia Cupelloni, hanno fatto un’esperienza che ha comportato “non solo un approfondimento conoscitivo, o una rielaborazione critica, ma (ha costituito) un incontro coinvolgente, ricco di identificazioni e disidentificazioni, fantasie e fantasmi parentali”.

Il criterio dichiarato con cui è stata operata la scelta dei nomi da antologizzare in questo volume è stato quello dell’originalità del contributo allo sviluppo del sapere disciplinare psicoanalitico: di queste “madri”, dunque, si riconosce ad ammira la determinazione ed il coraggio con cui perseguirono la ricerca di una propria autonoma voce, osando la trasgressione dal pensiero del padre/maestro ma anche talvolta, dalla madre/maestra, come Patrizia Cupelloni sensibilmente indaga nella relazione tra P. Heimann e M. Klein, che lei legge anche come modello di filiazione teorica al femminile: “per pensare in proprio – scrive Cupelloni – P. Heimann è costretta a separarsi da Klein, così come avviene ad una figlia che dopo aver trovato un forte riconoscimento nel corpo materno e nel suo linguaggio, può individuarsi solo se inizia a cercare una nuova casa e parlare una nuova lingua”.

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