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Quattrocchi V. (2014). Relazione sulla 12° edizione dei seminari ASL-SPI “Claustrofilia-claustrofobia: quando la relazione di cura non si trasforma”.

Vincenza Quattrocchi – Psichiatra, Membro Ordinario SPI, gia’ Direttore del DSM ASL 11 Empoli.

 Nel corso dell’autunno 2013 presso la sede del Centro Psicoanalitico(SPI) di Firenze, si è svolta la dodicesima edizione dei seminari ASL/SPI “Claustrofilia-claustrofobia: quando la relazione di cura non si trasforma”.

I seminari si sono svolti in tre giornate:

Venerdì 8 Novembre 2013 si è svolta la prima giornata di lavoro che si è aperta con la relazione introduttiva di Giuseppe Saraò sul tema della claustrofilia nelle relazioni di cura e successivamente i partecipanti, hanno lavorato alla parte clinica divisi in quattro gruppi coordinati da quattro psicoanalisti del Centro Psicoanalitico di Firenze con esperienza del lavoro istituzionale: Folco Di Volo, Graziano Graziani, Andrea Marzi e Raffaella Tancredi.

Venerdì 22 Novembre 2013 si è svolta la seconda giornata di lavoro che si è aperta con la relazione introduttiva di Silvia Bitossi sul tema della claustrofobia nelle relazioni di cura e successivamente i partecipanti, hanno lavorato alla parte clinica divisi in quattro gruppi coordinati da quattro psicoanalisti del Centro Psicoanalitico di Firenze con esperienza del lavoro istituzionale :Sandra Maestro, Maria Ponsi, Vincenza Quattrocchi e Mario Rossi Monti.

Venerdì 7 Dicembre 2013 si è svolta la giornata conclusiva con relazioni di Andrea Narracci, “Quando il multifamiliare diventa possibilità di esperienza e di pensiero” e di Paolo Boccara, “Quando i fenomeni clinici possiedono il gruppo di lavoro”. A conclusione Anna Ferruta ha discusso due casi clinici con Livio Comin e Benedetta Guerrini.

 

I seminari ASL-SPI, rivolti a tutte le professioni sanitarie per la Salute Mentale hanno avuto negli anni un loro sviluppo fino alla edizione del 2013 che possiamo definire un prodotto maturo nella evoluzione dei seminari medesimi, nel corso degli anni. Il riferimento è alla prevalenza dei momenti attivamente partecipativi dei discenti, rispetto a quelli enunciativi dei relatori/docenti, dove si colloca come intermedia tra relatori e partecipanti, la posizione degli psicoanalisti supervisori nelle due prime giornate. Il merito della nascita di laboratori attivi dentro i seminari sta nel fatto che consente di fare uscire dall’ombra quella che Stefano Bolognini, come ricorda M. Rossi Monti, chiama la terza psichiatria, definita ”silenziosa” ma abbastanza diffusa in ambito nazionale, la psichiatria delle supervisioni fatte dagli psicoanalisti nei Servizi. A mio parere la supervisione di uno psicanalista rivolta ad un gruppo istituzionale ha una duplice funzione, quella di aprire visioni, altre, rispetto alla relazione terapeutica ed allo scenario psichico del paziente, ma anche quella più celata, di accogliere e restituire la complessità relazionale ed intersoggettiva del/nel gruppo di lavoro. Paolo Boccara parla di apparato gruppale per pensare e lo considera una risorsa da coltivare perché può facilitare un’esperienza di avvicinamento a ciò che la mente individuale non può cogliere e questo legittima la specifica competenza del gruppo di lavoro dei Servizi per la Salute Mentale.

 

Fatta questa premessa sento l’esigenza di rinominare l’iniziativa formativa con il seguente titolo: “Quando la relazione terapeutica è al centro della cura” parafrasando e modificando il titolo del seminario regionale sulla Salute Mentale che da anni si svolge a Firenze per merito dalle Associazioni dei familiari (Quando il paziente è al centro della cura). Il titolo che propongo parla della vision articolata con la mission, sia per la Psicoanalisi sia per la Psichiatria, laddove la relazione terapeutica nella complessità del transfert e del controtransfert che si sviluppa nei Dipartimenti per la Salute Mentale, assume un ruolo cardine nella mente di chi opera.

L’evento, che da anni è un appuntamento atteso, nasce dalla stretta collaborazione tra il Dipartimento Salute Mentale dell’Asl 10 e il Centro Psicoanalitico di Firenze. Più per incontrarsi che per dirsi addio (Mario Rossi Monti Editoriale Psiche N° 1/2013), l’iniziativa fortemente voluta da entrambe le istituzioni, è fondamentalmente il frutto dell’intesa tra Psichiatri, Psicoanalisti, Psichiatri- Psicoanalisti, Psicologi ed operatori per la Salute Mentale. Possiamo dire che il merito dei Seminari ASL-SPI è proprio quello di legittimare la collaborazione tra Psichiatria e Psicoanalisi in contrapposizione a quella tendenza alla separazione che si percepisce nel contemporaneo mondo scientifico, come fa notare nel suo Editoriale Mario Rossi Monti(Psiche-SPI n°1/2013).Condivido l’affermazione di A. Correale che individua il pensiero basagliano e la Psicoanalisi come principali ispiratori dei “nuovi“ Servizi per la Salute Mentale, per gli aspetti innovativi introdotti dal primo che invita all’ascolto di una voce da sempre inascoltata e per la prospettiva offerta dalla seconda che invita alla lettura di ogni piccolo atto al di là di ciò che appare ed alla ricerca di un significato. Negli anni, molti sono stati i contributi degli psichiatri-psicoanalisti italiani, disposti sia a coniugare le due discipline nella quotidiana prassi, che ad elaborare teorie tanto originali quanto formative per tutti. Mi sento di affermare che la relazione terapeutica, elemento focale di ogni incontro curante-paziente, assume il ruolo centrale, quando dal suo naturale esserci, passa all’esser pensata. Da tempo per descrivere la relazione terapeutica penso metaforicamente alla goccia d’acqua che rappresenta l’essenzialità e nello stesso tempo l’indispensabilità per la vita. Concordo pienamente con Silvia Bitossi che nella parte introduttiva della sua relazione, colloca gli aspetti claustrofobici e dunque anche quelli claustrofilici come elementi caratteristici della relazione terapeutica non specifici per diagnosi. Infatti, se per certi aspetti sembra più tipica della psicosi una relazione di tipo claustrofilico, nell’area borderline/disturbi di personalità, ritroviamo più frequentemente una relazione clautrofobica. Questa suddivisione del resto si evince anche dalla caratteristica dei casi clinici presentati nelle due giornate. In realtà a mio parere spesso la cosa non è come appare, ciò riguarda ad esempio il paziente nell’area psicotica non aderente al trattamento, transita nell’ambito della claustrofobia per la tacita preoccupazione che i curanti infrangano il salvagente sintomatico che ha costruito per difendersi dalla dispersione del sé dopo la catastrofe psicotica e viceversa, il paziente borderline rientra nell’abito claustrofilico nel suo tentativo ripetuto ed incessante di essere in contatto, spesso senza riuscirci, con il curante e con l’equipe curante. Come in una partita di squasch colpisce chi lo cura con messaggi “forti” per assistere molto spesso al ritorno di questi. Alcuni dei casi clinici discussi nel corso dei seminari, descrivono questa evidenza, infatti spesso ai ripetuti richiami da parte del paziente, richiami travestiti ogni giorno da nuove maschere, si contrappone soprattutto nelle prime fasi del percorso di cura, più che una risposta, un affaccendamento, un assetto terapeutico dove il troppo può corrispondere al niente. Spesso tutto questo in assoluta sintonia con lo stato di fondo del paziente borderline che è sempre all’ incessante ricerca dell’oggetto che non vede, che non trova che non riconosce. Come ricorda Silvia Bitossi, Francesco Barale (2002) paragona il mondo del borderline ad un “prisma rotante” che espone facce continuamente diverse alla luce, producendo immagini sempre in mutamento. Attraverso la lettura dei casi clinici presentati ai seminari, sui quali mi accingo a fare qualche riflessione, si apprezza il percorso fatto in precedenza da ognuno degli otto gruppi di lavoro che nell’ambito delle riunioni interne sul caso, acquisiscono gli strumenti per tentare una risposta più vicina alle verità del paziente e del suo contesto. E così, la dolorosa partita tra C. ed il mondo, tra C. ed il mondo curante, si avvia ad un reale percorso terapeutico quando il pensiero dei curanti si avvicina empaticamente al paziente. Nasce, infatti ”un piccolo gruppo, una micro equipe”…figure, non tutte appartenenti all’equipe sanitaria che costituiscono un riferimento per il paziente”. Nella micro-equipe, per proseguire la metafora, la palla viene raccolta e C. riconosce aspetti vitali nella relazione terapeutica all’interno di un gruppo che con le caratteristiche che abbiamo descritto, costituisce un modello di funzionamento mentale per C. compatibile, l’album che contiene e raccoglie rappresentazioni altrimenti scollegate ed impercepibili della sua vita mentale, affettiva.

Come dice A. Ferruta, quello di C. è ‘ un caso esemplare sui problemi del gruppo curante, contenitore aggredito che trova una via di fuga verso pensieri di espulsione.

Ed ancora il caso di S. abusata ed abusante nelle fantasie di sequestro rivolte allo psicoterapeuta ed alla persona amata di turno che dice di volere tutta per sé fino a fare fantasie di sequestro reale, trova nel rapporto con l’infermiera “amica” la possibilità di parlare anche di sé “nuda”, oltre che delle sue smanie di sequestro e possesso verso il terapeuta.

”.. allora la mia frustrazione d’essere un’infermiera amica – mediatrice, mi passa”. Ed è così che le piccole perle di consapevolezza, da una parte guardano il paziente e dall’altra guardano noi curanti. Nulla dunque è scontato. Nel nostro operare facciamo i conti con la variante della preoccupazione materna primaria che, connaturata in ogni atto clinico, è lo strumento più problematico della vita quotidiana di un equipe e spesso costituisce lo sfondo del clima terapeutico. Tacitamente sappiamo che:” per il paziente la prima qualità dello psichiatra, dell’infermiere, dell’educatore e del gruppo curante è semplicemente quella di esserci” (Racamier, 1972).E’ il caso di M. che allarma tutti a tutte le ore ed il Servizio lo ha in mente anche se in pochi lo conoscono. Si sottrae continuamente al contatto, mantenendo nella mente di ciascuno uno stato d’allarme continuo che non permette di ridimensionare le sue minacce autolesive. Esserci, ma non basta esserci, è solo il terreno fertile per introdurre elementi di consapevolezza, dunque di cambiamento. M. banalizza e svaluta tutte le proposte, attacca il setting, controlla e subissa di telefonate il curante: ” rispondo quando posso”, la strategia del curante lo spiazza rispetto al suo evitare e contemporaneamente controllare. Sappiamo che quasi sempre, l’incontro tra paziente e curante/i assume più o meno evidentemente le caratteristiche di una lotta allorquando il mantenimento dello statu quo è il recondito desiderio anche di chi chiede palesemente aiuto. Nella sua relazione nella giornata conclusiva dei Seminari, Andrea Narracci invita al recupero di una fiducia reciproca attraverso il superamento della mera empatia per stabilire un contatto sì, osservativo ma contemporaneamente partecipe. Ed io aggiungo” stare con” per dirla con i fenomenologi. Questo “stare con” che ci rende partecipi del mondo delirante del paziente, consente l’allontanamento da una posizione asimmetrica e ci permette di avvicinare il paziente in maniera più autentica. Come dice B. Callieri ”ogni delirio ha una sua crepa” e dunque se stiamo nel delirio prima o poi avremo accesso attraverso la crepa. Nell’incontro con il sistema difensivo del paziente è come se rivolgessimo uno sguardo al suo rovescio, quella parte che non appare e che sottende molto spesso i significati più autentici rispetto alle manifestazioni sintomatiche. Il gruppo di lavoro istituzionale con le sue potenzialità nel trattamento della complessità, può anche essere e spesso lo è, “poveramente stereotipato” se non è viva continuamente una terza dimensione. Che cos’è dunque la psicoanalisi applicata se non la raffigurazione della vita psichica del paziente? Spesso ho pensato che un Servizio di Salute Mentale “sufficientemente buono”, deve poter offrire sin dalle primissime fasi dell’accoglienza un assetto psicodinamico dunque una sorta di automatica connessione psicodinamica in wireless nei luoghi di cura. Gli operatori per la salute mentale sono esperti insostituibili per il processo di cura, “consulenti” della comunicazione intra ed interpersonale; il loro compito è quello di accogliere, condividere, oggettivare, indagare. Il confronto con la dimensione psicotica è in gran parte legato alla vita condivisa operatore paziente, ma anche a quella d’inevitabile interscambiabilità che questa condivisione comporta, laddove un clima più autentico (quello che Bion chiama “approvvigionamento di verità” e che Corrale rinomina esperienza di autenticità) può contrapporsi alle,precocemente apprese, distorte reciprocità che rendono il rapporto con l’altro fortemente contraddistinto dall’ambivalenza, dalla menzogna, dalla squalifica e con modalità di attaccamento conseguente. Da questo ne possono derivare interessanti considerazioni sulla relazione terapeutica che può, transitando attraverso componenti di onnipotenza ed indispensabilità, paralizzare ogni possibile evoluzione della relazione medesima. M. Sassolas parla di interventi “insaturi” con l’implicito invito a contrapporre all’affaccendamento tendente all’esaustività, una risposta insatura. Ne consegue il beneficio di contenere la dipendenza e pertanto la claustrofilia o di fugare possibili aspetti claustrofobici che allontanano dal contatto con chi cura. Se l’atteggiamento dei curanti è troppo saturo, può apparire minaccioso “da quando sono salito sul treno della Psichiatria non scendo più” oppure possono apparire protettivi verso il pericolo dell’autonomia e della separazione: ” dottore, lei non deve morire mai!” Espressioni, queste, pronunciate in varie occasioni da pazienti che considero a tutti gli effetti nostri maestri. Nella sua relazione introduttiva Giuseppe Saraò indica quanto sia importante che il gruppo dei curanti ponga “grande attenzione all’equilibrio dinamico tra le spinte regressive –fusionali e quelle evolutive verso l’autonomia.” La complessità dell’intervento riguardante l’ambito riabilitativo altro non è che la cura nella sua accezione più ricca e forse l’unica psicoterapia possibile in situazioni gravi e complesse. Penso che debba essere valorizzato anche il contributo di esperti di teatro, esperti di espressione artistica, esperti di scrittura creativa etc. che da anni nell’ambito delle molteplici attività terapeutico riabilitative, hanno permesso di fornire sia al paziente che a noi curanti un tramite sofisticato, loquace quanto muto, perché venisse rappresentato ciò che con le parole (congelate, interrotte) non poteva esser detto. Sono le “azioni parlanti “di Racamier.

La teoria psicoanalitica non spiega l’origine del disturbo mentale, espressione delle grandi patologie psichiatriche, né in sé racchiude le caratteristiche di una terapia esaustiva; viceversa si configura come strumento valido per leggere la rappresentazione mentale che sulla predisposizione biologica si manifesta, ma anche per sostenere l’approccio al paziente e la capacità del gruppo istituzionale ad elaborare quei significati altrimenti incomprensibili del linguaggio dei sintomi. Contrastando la tendenza ad usare la lettura dei fenomeni attraverso ripetute definizioni statiche e stereotipate, apprendiamo in supervisione che c’è sempre qualcosa che non appare, ma che si rende manifesto attraverso un’opera di decodifica e direi anche attraverso le libere associazioni nel gruppo medesimo. Parliamo dunque, per dirla con Bion, di “diagnosi “calda” che include la lettura storica dell’assetto difensivo del paziente ed una riflessione sulle caratteristiche della relazione terapeutica. L’essere in relazione con il paziente (M. Sassolas -Terapia delle psicosi- ed. Borla 2001) nella condivisione della vita, porta a conoscere i meccanismi psichici soggiacenti la sintomatologia cosiddetta “positiva”(ciò che della psicosi emerge in superfice e che erroneamente porta a considerare ed a riconoscere la psicosi solo attraverso questa sintomatologia).Questi meccanismi non sono altro che processi che attaccano la vita psichica riducendola e comportando l’estinzione degli affetti, l’impoverimento delle fantasie, la dissoluzione dell’identità.

Ancora M. Sassolas, parla di lanterne e proiettori: ”l’obiettivo di questo libro è quello di portare luce alla lanterna dei lettori in merito alla cura delle persone che soffrono di turbe psicotiche. L’immagine non è fortuita: una lanterna non è un proiettore, bisogna portarla con sé, alzarla in alto con il braccio o, al contrario, lasciare diffondere la sua luce raso terra, l’illuminazione della lanterna richiede molta più partecipazione”. Vorrei aggiungere che la lanterna mette in luce aspetti che una visione, volta alla ricerca solo di alcuni di essi (proiettore),non consentirebbe.

Per ritornare al gruppo istituzionale che, insieme al paziente è il protagonista di questa sessione, riprendo l’importante e spesso trascurato pensiero dello psicoanalista argentino Josè Bleger Bleger (1966) che ha dato un contributo esemplare per lo sguardo rivolto all’istituzione, intesa come il terzo elemento e come oggetto di studio. (Psicoigiene e Psicologia Istituzionale ed. Libreria Editrice Laurentana 1989) Con Pichon-Riviere, Bleger si pone l’obiettivo di considerare il gruppo di lavoro come elemento oggetto e soggetto di cura: ”Quello che vogliamo indagare ed approfondire è l’azione reciproca che si esplica tra individui ed istituzione, perché un’analisi di questo tipo contribuirà a farci acquistare una maggiore conoscenza della realtà… nell’istituzione interviene comunque quello che gli uomini proiettano su di essa” pag. 78). J. Bleger vuole dimostrare che l’istituzione non è un aggregato della relazione umana, ma una parte essenziale della stessa. Afferma, infatti, che ogni componente del gruppo contribuisce con una sorta di IO “sincretico” che arricchisce il patrimonio comune, un tesoretto al quale tutti partecipano e dal quale tutti attingono, sviluppando sia pure a fasi alterne, il senso di appartenenza. Un luogo collettivo a cui fare riferimento, nel dare e nell’avere, attraverso l’ incessante staffetta da IO a Noi e viceversa. Il concetto viene ampiamente ripreso da C. Neri (Gruppo ed. Borla 1995) e A. Correale(Campo istituzionale. ed. Borla 1991).Quest’ultimo autore ha messo in evidenza le caratteristiche del gruppo di cura, sottolineando l’importanza del campo istituzionale, geniale descrizione delle forze che inconsapevolmente si attivano in un gruppo di curanti, forze che costituiscono una sorta di sfondo, una riserva energetica alla quale ogni componente di un gruppo, quando per campo si intende qualcosa di assimilabile al campo magnetico, l’idea del gruppo medesimo, quella che da anni chiamo iperidea che non è la somma delle parti ma qualcosa di più, qualcosa di diverso che potrebbe definirsi una chimera, un oggetto nuovo costruito da parti di altri oggetti. Momenti formali ed informali tra addetti ai lavori, costituiscono un grande risorsa per il paziente, infatti parlare in sua assenza comporta una visione complessa e ricca ed una restituzione di una lettura a più mani che si avvicina ad una descrizione più completa del paziente medesimo. Possiamo definire questa funzione come il recupero di un’auto-narrazione interdetta. Parliamo anche di transfert multiplo del quale l’istituzione si nutre e, grazie al quale, offre al paziente grave, la possibilità d’essere rappresentato a 360 gradi attraverso la mente degli operatori che lo incontrano anche e soprattutto, in momenti di vita quotidiana condivisa e per questo rinegoziata. Momenti di cura a tutti gli effetti. La mente del gruppo dei curanti ci riporta suggestivamente al concetto espresso da Freud della memoria a posteriori che il soggetto sperimenta durante un percorso analitico. In questo caso è la mente del gruppo curante che nel pensare il paziente, nel parlare del paziente (il contributo individuale che si fonda nell’iperidea gruppale),costruisce una sorta di memoria a posteriori che ripara, che corregge, che sostituisce. Il gruppo dei curanti svolge una funzione Narrativo-Riparativa, di parti perse o scisse del paziente più grave, la sua memoria, la sua unica possibilità di ricomposizione. Nel trovarsi a contatto con esistenze danneggiate, i curanti, si trovano a favorire la trasformazione del terrore senza nome in un’emozione dolorosa più tollerabile svolgendo quella che Bion chiama funzione di rêverie. Se è vero che gli operatori per la salute mentale sono molto esposti al burnout, acquisire consapevolezza della propria funzione terapeutica nelle sue parti più recondite, costituisce un importante sostegno al quotidiano operare. Favorire la trasformazione del terrore senza nome in qualcosa di tollerabile e di rinominato, ripropone quella funzione genitoriale primaria che, se adeguatamente presente, accompagna la nostra nascita psichica e la nostra crescita. Appunto la rêverie, laddove non si nasce, non si cresce, non si vive, senza la mente dell’altro. Si comprende così come il singolo operatore ed il gruppo di lavoro nella sua complessa unicità, hanno bisogno di cura e di manutenzione anche in considerazione di questo inscindibile legame con i pazienti e della specificità dell’ assetto di cura. Ho sempre pensato che quel che giova ai curanti, giova contemporaneamente ai pazienti, entrambi, così al riparo da un abbraccio mortale. Pertanto spero si allontani il pericolo di una separazione tra Psichiatria e Psicoanalisi e che prosegua la Psichiatria “silenziosa” a nutrirsi di questo cibo quotidiano e, pur condividendo l’opinione di Racamier:«Usate le vostre teorie personali nel modo più modesto e discreto possibile. Mantenetevi vicini alle realtà più concrete. Non crediate che il vostro lavoro in un’istituzione possa cambiare il volto del mondo», auspico che questi momenti seminariali si ripetano, rinnovati, anno per anno per affermare l’importanza di questo sodalizio che per molti di noi è il naturale, quanto armonioso, risultato di anni di formazione sul campo.

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