Evento speciale
Firenze, cinema Astra, 19 giugno 2025
Il film
Ispirato alla West-Eastern Divan Orchestra, voluta da Daniel Barenboim e Eduard Said, Crescendo (2019) è un film tedesco del regista israeliano Dror Zahavi. Presentato in anteprima al Festival del cinema di Monaco il 3 luglio 2019, è stato applaudito per dieci minuti.
Trama. Un celebre direttore, Eduard Sporck, viene incaricato di comporre un’orchestra di giovani musicisti palestinesi e israeliani per poi dirigerla in occasione di una Conferenza per la pace in Medio Oriente. Il clima fra i musicisti è talmente difficile che il Maestro decide di trasferire le prove in Italia, in Alto Adige. Faticosamente le tensioni si allentano, l’orchestra funziona. Ma alla vigilia del concerto, un tragico incidente manda tutto all’aria.
Il Cineforum
Al termine della proiezione, al cospetto della platea gremita, film è stato commentato e discusso con il pubblico da Mario Ancillotti, musicista, e Mario Rossi Monti, psicoanalista, con la partecipazione straordinaria di Adele Posani, insegnante di Flauto e Musica da Camera presso il Barenboim Said Center for Music con sede a Ramallah.
Introducevano la serata Michele Crocchiola, Direttore artistico Fondazione Stensen e cinema Astra, e Stefania Nicasi, Presidente del Centro Psicoanalitico di Firenze.
Mario Ancillotti. La musica unisce le persone.
L’invito al Cineforum per un commento a Crescendo, di Dror Zahavi, mi è stato particolarmente gradito perché mi ha dato la possibilità di conoscere un film di grandissimo impatto emotivo e purtroppo realistico in merito ai rapporti fra la popolazione palestinese e quella israeliana. Il progetto e la tensione che pervade tutto il film è contemporaneamente una speranza e una sfida alla disperazione che nasce dalla narrazione.
Di fronte alla domanda se il racconto sia solo un’utopia, posso solo rispondere citando la Western East Divan Orchestra, fondata dal direttore Daniel Baremboim e dallo scrittore Edward Said proprio per unire due situazioni drammaticamente in contrasto nel segno del sentire condiviso.
Così come avviene nel film, anche nella realtà è stato possibile riunire e far armonizzare i musicisti dei due popoli solo lontano dal luogo di origine, Israele. La Divan Orchestra adesso fa le sue prove in Germania.
Eppure nel film, così come nella realtà, ho la convinzione che solo un comune denominatore può far lenire, seppur con grande sforzo, il dolore dovuto agli orrori di cui le due parti si accusano reciprocamente. Questo denominatore può essere la musica, l’arte più vicina ai costrutti fondamentali dell’essere umano: essa narra il sentire, le emozioni interiori, ciò che è più cruciale del nostro essere, ciò che riteniamo di vitale importanza.
Questi sentimenti comuni che legano gli uomini di ogni etnia sono ben simboleggiati dall’amore fra Omar, il ragazzo palestinese e Shira, la ragazza israeliana, capaci di rompere l’odio nato e alimentato dalla situazione di popoli in guerra da troppo tempo. La musica, quella che esprime il sentire più profondo, ha questa capacità: nessun razzismo ho mai percepito nelle mie varie esperienze con musicisti di ogni nazionalità.
Certamente la situazione israelopalestinese è talmente perduta da sembrare irrecuperabile, come ha ben descritto Adele Posani che vivendo in Palestina da dieci anni ha testimoniato direttamente lo stato disperante delle cose. Eppure la piccola scintilla di un’azione che attraverso l’arte musicale ha prodotto e produce azioni di unione e di armonia, assolutamente indispensabili nel far musica, sembra dare un segnale di speranza.
Crescendo, simboleggiato dal Bolero di Ravel che assieme i giovani israeliani e palestinesi suonano in aeroporto durante la fine drammatica del film – e che per la struttura del brano inizia pianissimo per giungere a grandissime sonorità – vuol proprio simboleggiare la ricerca iniziale di un comune sentire che unisce tutti gli uomini, al di là dei mostruosi contrasti della storia, il sentire fondamentale di cui la musica è profonda espressione, nella convinzione che possa essere il germoglio di una realtà migliore.
Il film è molto ben raccontato, emotivamente forte, ma senza ricerca di facili suggestioni, ambientato nella durissima realtà della Palestina e interpretato da splendidi attori, musicisti essi stessi, che rendono finalmente ogni scena davvero reale e autentica.
Mario Ancillotti è uno dei più significativi flautisti italiani. Ha collaborato con Petrassi, Berio, Donatoni, Sciarrino, Henze, Penderecki, dei quali ha tenuto prime esecuzioni, e con musicisti come Accardo, Giuranna, Geringas, Canino, Leister, Quarta e altri. Ha fondato a Firenze il Festival Suoni e Riflessi che confronta la musica con le altre arti. Professore emerito al Conservatorio di Lugano, tiene corsi in tutto il mondo. Nel 2019 gli è stato conferito il premio Le Muse.
Mario Rossi Monti. Linee di frattura.
Vorrei cominciare raccontandovi che cosa che ho provato all’inizio del film Crescendo. Intorno al terzo minuto dall’inizio Karla De Fries, che rappresenta l’associazione benefica intenzionata a sovvenzionare l’iniziativa, annuncia che i nuovi negoziati di pace tra Israele e Palestina si svolgeranno in Sud Tirolo. La nostra associazione – dice – si occuperà dell’organizzazione di una serie di eventi. E’ in questo contesto che nasce l’idea del concerto. Ecco, quando ho sentito la parola Sud-Tirolo mi sono trovato improvvisamente in testa, in maniera automatica e irriflessiva, un pensiero: “Ma quale Sud Tirolo?? Quello è Alto Adige!”.
Questo episodio ha rappresentato per me una sorta di scalino nel quale sono inciampato ma che mi ha proiettato fin da subito in uno dei temi centrali del film. Quel gradino separa due visioni del mondo, segna i margini di una ferita che sembra cicatrizzata. Nulla di paragonabile alla voragine colma di orrori che si è aperta tra i due popoli di cui parla il film. Ma pur sempre un piano di clivaggio, una linea di frattura che ha una sua storia, anche sanguinaria. Basti pensare alla terribile domenica di sangue del 24 aprile 1924 o alla vicenda degli Optanten. Con il tramite di questa esperienza sono entrato nella vicenda narrata dal film con la sensazione che ciò di cui parla il film ci riguardi tutti. Sia nel senso che non possiamo certo restare indifferenti a quanto accade in questo periodo storico, sia nel senso che il nostro tessuto sociale, anche quello in cui viviamo noi, è percorso da più o meno visibili smagliature o vere e proprie linee di potenziale frattura. Alcune sono macroscopicamente evidenti. Altre inapparenti o dormienti. Altre forse proprio non esistono ma si potrebbero sempre creare riscrivendo a ritroso la storia.
E’ a partire da queste linee che si aprono delle discontinuità, delle contrapposizioni che possono diventare ferite, voragini e a volte un vero e proprio abisso. Ne cito solo alcune che sono parte della storia della mia generazione. “Non si affitta a meridionali” era scritto su molti cartelli a Torino negli anni della emigrazione dal Sud al Nord. Settentrionali/Meridionali, ma anche, ovviamente, Comunisti/Fascisti o, per fare un esempio più particolare legato al mondo accademico degli anni ’60 e dintorni, la spaccatura Laici/Cattolici. A chi verrebbe in mente di tenere conto in un concorso universitario oggi di questo criterio?
Altre linee di fratura le abbiamo viste svilupparsi sotto i nostri occhi in anni anche recenti. Devo confessare che per me l’Europa è ancora quella della carta geografica che avevo in classe alle elementari. Ogni volta devo fare uno sforzo per aggiornarla mediante un’opera attiva di correzione. Ad esempio per ricordarmi che la Jugoslavia non esiste più e che tra croati, bosniaci, serbi e sloveni si sono aperti crepacci che grondano sangue. Una persona che ha studiato a fondo la condizione della ex-Jugoslavia come Paolo Rumiz (Maschere per un massacro, 1996, p.93) ha scritto che prima del tempo dei veleni tra Belgrado e Zagabria non c’era più antagonismo che tra Napoli e Bologna. Come è stato possibile inventare una guerra tra Napoli e Bologna?
E potremmo continuare: per oltre trent’anni abbiamo convissuto in Europa con la sanguinosa guerra tra Cattolici e Protestanti in Irlanda del Nord, per non parlare della voragine che si era aperta tra Turchi e Armeni o ancora in Uganda tra Hutu e Tutsi. “Io non so perchè ho cominciato a detestare i Tutsi” scrive un protagonista Hutu di quella vicenda. E ancora: “Cosa ho imparato da questo massacro?” si chiede Jean Hatzfeld in un libro intitolato A colpi di machete: “Un tempo sapevo che un uomo poteva uccidere un altro uomo [….] Adesso so che anche la persona con cui hai messo le mani nello stesso piatto o con cui hai dormito può ucciderti senza imbarazzo. Il tuo vicino più caro può rivelarsi il più spietato” (2004, p. 140).
Non voglio certo fare di tutte le erbe un fascio. So bene che ognuna di queste vicende ha una sua storia, sue motivazioni, si svolge in un dato contesto e non può essere messa sullo stesso piano di tutte le altre. Ma di queste linee di frattura potenziale è intessuto l’ambiente sociale, il mondo in cui viviamo.
Sigmund Freud in Introduzione alla psicoanalisi scrive: “Se gettiamo per terra un cristallo, questo si frantuma, ma non in modo arbitrario; si spacca secondo le sue linee di sfaldatura in pezzi i cui contorni, benché invisibili, erano tuttavia determinati in precedenza dalla struttura del cristallo. Strutture simili, piene di strappi e fenditure, sono anche i malati di mente” (1932, p. 171).
Due considerazioni. La prima: se abbiamo per le mani un cristallo cerchiamo di tenerlo da conto e di non farlo cadere a terra. Ma questo non è sempre possibile. La seconda: sì, i malati di mente sono pieni di strappi e fenditure. Ma quanto anche ciascuno di noi è attraversato da linee di sfaldatura? Io per esempio, all’inizio del film, sono subito inciampato in una di queste.
Amartya Sen in Identità e violenza (2008) propone una specie di gioco: proviamo a pensare alle nostre identità, a metterle i fila una accanto all’altra e a domandarci come stanno insieme (o anche come non stanno insieme). Io ci ho provato. Ne emerge una lista di insospettata lunghezza. Nella nostra vita quotidiana ci consideriamo membri di una serie di gruppi, siamo parte di tutti questi gruppi. “La stessa persona – scrive Amartya Sen può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, femminista, romanziera, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz” (2008, p.VII). L’appartenenza a ognuna di queste collettività conferisce una determinata identità, ma nessuna di queste identità può rivendicare il ruiolo di unica identità o configuarsi come l’unica categoria di appartenenza. Siamo di fronte alla “inaggirabile natura plurale delle nostre identità” o a qualcosa di simile a quella modalità di essere che Philip Bromberg (2007) ha chiamato “sentirsi una moltitudine”. Questa situazione porta con sè la necessità di prendere posizione sulla importanza relativa delle nostre affiliazioni. Ma come facciamo a tenere insieme queste identità che si incontrano lungo le nostre linee di sfaldatura? Riusciamo a farle dialogare? Si sostengono reciprocamente nei passaggi critici della vita? Si scambiano ossigeno o si ostacolano? O addirittura si sabotano? Riusciamo a farle crescere insieme?
E’ lungo queste linee potenziali di sfaldatura che si creano spesso degli inciampi, dei nodi, dei gorghi o dei veri e propri breakdown evolutivi in quei passaggi che costellano l’evoluzione di ciascuno di noi. Intorno a queste linee lavorano gli psicoanalisti, creando uno spazio protetto, stabile, sicuro, in cui c’è posto per tutti questi aspetti e per la possibilità di fare parlare tra loro parti che non si parlano, aspetti muti di sé e della propria identità a cui si cerca di dare parola.
Ma cosa accade quando la gerarchia fluida di quelle molteplici identità viene incastrata in uno schema rigido per cui qualunque cosa fai sei (o anche ti senti) israeliano oppure palestinese? In fondo la irriducibile dicotomia tra israeliani e palestinesi viene descritta nel film all’insegna del motto: suona, suona pure quanto ti pare. Tanto sarai comunque un israeliano ! Oppure: tanto sarai comunque un palestinese! Nessun suono evocato dal tuo strumento riuscirà a farmi dimenticare che sei israeliano/palestinese. Nessuna identità concomitante risucirà a mettere in secondo piano questa tua irriducibile natura. Si realizza un effetto risucchio: una identità risucchia tutte le altre, toglie vita e liberta a tutte le altre. C’è posto in quel mondo per due ragazzi che “semplicemente” si innamorano? C’è posto per due musicisti che usano lo stesso leggio? E’ possibile in quel contesto essere “semplicemente” un musicista?
Lungo questa linea di frattura nel film si lavora almeno in tre modi. Karla De Fries come una facoltosa “infermiera” cala dall’alto sulla ferita usando il denaro come collante. Sembra avere dedicato parte della sua vita a cercare di medicare le ferite del pianeta. Ora, dopo l’esperienza del Sud Tirolo/Alto Adige, andrà a medicare una ferita in Sudan. La sua “Fondazione per un altruismo concreto” – come ci ricorda – segue criteri razionali e non emozionali.
Il direttore Eduard Spork lavora sul gruppo e sulle identità dei suoi musicisti. “Sarà il suo nome a metterli insieme” aveva pronosticato Karla De Fries e Spork prova a ritagliare uno spazio di libertà intorno al loro essere Israeliani o Palestinesi. Prova a farli sentire “semplicemente” musicisti. Ma fa una gran fatica. Si mette in gioco anche personalmente. Dietro la voragine aperta tra Israeliani e Palestinesi affiora in trasparenza un’altra voragine dalla quale lui è stato drammaticamente segnato: quella tra Ebrei e Tedeschi. “Era inimmaginabile per me – racconta- pensare di poter viaggiare in Israele”.
Su ognuno di questi ragazzi grava un enorme peso di carattere transgenerazionale. Ognuno di loro è schiacciato dal peso delle generazioni precedenti in quanto punto di arrivo delle storie drammatiche di nonni, zii, genitori, fratelli, cugini. Da una parte viene evocato il bisnonno che sta spesso con lo sguardo rivolto verso la terra dalla quale è stato scacciato, custodendo ancora in tasca la chiave della sua casa; dall’altro la nonna uccisa a Buchenwald e la prozia che, dopo essersi consegnata agli arabi, è stata uccisa.
Il terzo modo riguarda la scintilla di amore che scocca tra Omar e Shira: un fragile punto di sutura su una ferita sanguinante. Ma sono liberi di essere solo due ragazzi innamorati? No, non lo sono. Il punto di sutura, sotto la pressione dell’ambiente e delle loro storie, si rompe, salta e tutto rifluisce in un caos nel quale si reinstaura la primitiva dicotomia: Israeliani/Palestinesi. Tornano in mente a questo proposito le parole di Amos Oz (2004): fanatismo è uno, non c’è posto per il due.
Tutti i ragazzi che si coinvolgono in questa difficile vicenda vengono accusati di essere traditori: Omar è accusato di essere un traditore perché andando a studiare a Francoforte si sottrarrebbe al destino del suo popolo. La mamma di Leila la accusa di essere una traditrice. I due innamorati sono ovviamente traditori (Sodoma e Gomorra! sentenzia lo zio). Da questo punto di vista ha ragione ancora una volta Amos Oz (2004) quando riformula il senso del tradimento, affermando che c’è bisogno di traditori: il tradimento non è il contrario dell’amore, è una delle sue tante opzioni. Traditore è colui che cambia agli occhi di coloro che non possono cambiare e odiano cambiare. Ai protagonosti di questo film dobbiamo riconoscere il coraggio di essere “traditori”.
In una dimensione individuale, più specifica della psicoanalisi, in queste considerazioni sul tradimento come motore del cambiamento inscriverei anche il sintomo. Intorno alle linee di sfaldatura di cui ci occupiamo come psicoanalisti il sintomo emerge come segnale, come qualcosa che “tradisce” nel senso che rivela. Quel messaggio deve trovare ascolto. Invece di essere visto come qualcosa di esecrabile, da sopprimere a tutti i costi – ci ricorda Freud (Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi,1914) – al sintomo va riconosciuto il ruolo di un “degno avversario”, qualcosa di significativo che è allo stesso tempo un ostacolo ma anche una risorsa per una percorso di cambiamento, elaborazione, riconciliazione.
Il film si conclude all’aeroporto di Bolzano.
Insomma: si può sostare all’aeroporto di Bolzano, che è anche l’areoporto di Bozen che si trova in Sud Tirolo ma è anche in Alto Adige senza rimanere incastrati in una delle tante linee di sfaldatura dalle quali siamo percorsi?
Mario Rossi Monti è professore emerito dell’Università di Urbino Carlo Bo. Membro ordinario della SPI, è stato Presidente del Centro Psicoanalitico di Firenze.
Adele Posani. Fare musica in Palestina.
Ho trascorso 9 anni (2015 – 2024) in Cisgiordania WB, insegnando flauto, musica da camera, orchestra, storia e teoria musicale per le due scuole più importanti: Edward Said National Conservatory of Music e Barenboim-Said Foundation for Music. Ho insegnato a Betlemme, Gerusalemme, Nablus e Ramallah e mi sono dovuta confrontare con problemi derivanti dall’occupazione militare israeliana e con problemi interni alle dinamiche delle scuole. Il film Crescendo è ispirato alla West Eastern Divan Orchestra, ovvero un’orchestra professionale di cui fanno parte Israeliani e Palestinesi: come nella realtà, anche nel film hanno dovuto spostare tutto l’ensemble fuori dalla regione, per poter anche solo conservare la speranza che possa funzionare e, di nuovo nella realtà come nel film, non è stato proprio un successo.
Tanti dei problemi di cui sono stata testimone dipendono dalle difficoltà logistiche nel gestire una scuola di musica o conservatorio che sia: Betlemme e Gerusalemme distano circa 10 km l’una dall’altra, eppure se alla sede di Gerusalemme manca un insegnante per un motivo o per un altro, l’insegnante di Betlemme non può andare a Gerusalemme a sostituirlo perché non gli è permesso passare il checkpoint. Per fare attività di gruppo, cosa fondamentale nel percorso educativo musicale, bisogna portare gli allievi da Nablus e da Betlemme fino a Ramallah, passando checkpoint che possono essere chiusi all’improvviso: si può rimanere bloccati in una città perché le strade non si possono più percorrere e bisogna aspettare il giorno dopo (o chissà quanto) per poter riportare i ragazzini a casa loro. E anche in tempi di quiete, per via del fatto che i Palestinesi non possono accedere a molte arterie di collegamento, per percorrere 15 km ci possono volere 3 ore. Ogni volta che un insegnante nuovo, da fuori, arriva in Palestina, non si deve aspettare di avere continuità didattica, perché probabilmente dopo un paio d’anni il visto non gli verrà rinnovato e dovrà lasciare il Paese. Come si possono fare progetti a lungo termine quando non si può contare su uno staff presente?
La musica unisce i popoli è un’affermazione a cui vorremmo credere tutti, soprattutto noi musicisti, ma per sperimentare che è vero bisognerebbe che ci fosse permesso, a noi musicisti, di farla, la musica! Invece in Palestina non è così: a marzo 2025 ho intrapreso il viaggio dall’Italia per tornare due settimane a Ramallah e partecipare al workshop di orchestra di bambini e mi è stata negata l’entrata nel Paese. È solo la mia esperienza personale più recente, ma nel corso degli anni ho visto tanti colleghi essere rimandati indietro o sentirsi rifiutare un permesso per poter rimanere nei territori (tutti i permessi vengono rilasciati dal COGAT, l’ente israeliano per la gestione dei territori occupati). Ho visto ospiti invitati dalle scuole per tenere masterclass e corsi essere interrogati pesantemente, scoraggiati a tornare, e ho visto strumenti musicali rimanere fermi nella dogana per mesi se non per anni.
Sarà proprio perché la musica unisce i popoli che non ci è permesso farla in Palestina?
Adele Posani, flautista, ha conseguito il Master in Pedagogia del Flauto (2014) e il Master in Performance (2015) sotto la guida del Maestro Ancillotti e del Maestro Zoboli. Dal 2015 al 2020 è stata Prof.ssa di Flauto, Musica da Camera, Teoria e Solfeggio e Coordinatrice del Dipartimento di Fiati per l’Eduard Said National Conservatory of Music in Palestina. Dal 2020 a oggi insegna flauto e musica da camera presso il Barenboim Said Center for Music con sede a Ramallah. Attualmente le lezioni si svolgono in remoto, poiché le è stato negato il permesso di tornare a Ramallah.