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“Buio in sala” 2024 – “Past Lives” – Commento di Cristina Saottini

Cristina Saottini

Past Lives regia di Celine Song (2023)

Past Lives è l’opera prima della drammaturga e regista Celine Song, coreana, naturalizzata canadese che vive a New York, come la protagonista del film che è ampiamente autobiografico. Film che è ora in concorso con due candidature al premio Oscar, fra qualche giorno vedremo i risultati 

 

È un film delicato, tenero, quasi sognante, così apparentemente lineare nella sua struttura narrativa che lo scorrere delle azioni potrebbe, in fondo, essere riassunto in poche righe, nonostante i tre livelli temporali su cui è costruito.

Ed è anche un film molto coreano, fatto di sguardi, di silenzi, di emozioni più alluse che esplicite. Questo non sorprende chi, come me, ama i drama coreani i K-drama, (per gli appassionati cito Mr. Sunshine o Crash landing on you) in cui anche nelle più appassionate storie d’amore non c’è quasi contatto fisico e la capacità di attendere, di sublimare, di rinunciare, porta dentro alla passione un sensuale distacco malinconico. Il tema della perdita e della nostalgia per l’unione perduta, che si cerca ma che si pensa irrecuperabile, fa pensare alla Corea, nazione divisa in due geograficamente e da un gap culturale sempre più profondo, che fa della mancanza dell’altra metà una cifra emotiva centrale.

Nella misura in cui la sua complessità può essere condensata, il film riesce a rappresentare una storia personale marcata dalla Storia con la esse maiuscola, che riguarda anche noi, basti pensare alle separazioni migratorie, e ci suggerisce che non si può pensare a noi stessi se non dentro un tempo e storie che ci determinano e di cui spesso siamo solo parzialmente consapevoli.

Anche grazie a questo riesce a offrirci uno sguardo attento sull’amore e sul destino, sul rimpianto, sul domandarsi dove avrebbero potuto portarci scelte di vita diverse e sul riconoscere il vuoto lasciato nelle nostre vite dalla nostalgia per quelle possibili esistenze parallele che avremmo potuto vivere e che non stiamo vivendo, anche quando siamo convinti delle nostre scelte.

 

Prenderlo per un film sentimentale, una riedizione elegantemente orientale del triangolo amoroso farebbe un grande torto alla sua ricchezza. È un film in cui niente è lasciato al caso, l’eleganza della fotografia e la particolare scansione dei tempi e delle geografie, permette di entrare in una dimensione estetica che mette il controluce in primo piano, la storia sentimentale è usata come una metafora dei cambiamenti che bisogna affrontare per ritrovare la propria identità e unicità.

 

Racconta dell’amore per la vita, per la sua forza, la sua complessità che richiede continue trasformazioni, incontri tra culture, perdite e ritrovamenti e ci parla del mistero che c’è in ogni relazione, della dolente consapevolezza che anche chi ci è più intimo rimane in parte sconosciuto e che per questo possiamo amare veramente solo se non esercitiamo un possesso ma rispettiamo l’altrui alterità. Così Arthur sente sconosciuta Nora, che pure gli è così vicina e intima, perché nel sonno parla coreano, ma questa diversità è anche una fonte del loro legame.

È sorprendente la capacità della regista di renderci visivamente la differenza tra l’individualismo occidentale, in cui il soggetto è eroe della scena e lo inyun, l’orientale esperienza che il destino è reciproca connessione e i legami vanno oltre la volontà individuale, ci trascendono e sono espressione del tutto di cui siamo parte.

 

Proverò ad andare con ordine:

La prima sequenza porta immediatamente lo spettatore al centro della storia, ci chiede di immedesimarci e di fare nostra la domanda: chi sono? Loro? Noi? Lo fa disegnando una scena in cui c’è contemporaneamente intimità e estraneità senza che si possa distinguere chiaramente chi è l’intimo chi è l’estraneo. Le voci fuori campo si interrogano: Chi è lo straniero in questo terzetto? La protagonista guarda la macchina da presa nella muta e toccante domanda, a noi che guardiamo, di entrare e partecipare a quanto sta avvenendo.

 

All’inizio Na Young e Hae Sung bambini fanno parte dello stesso mondo, sono i più bravi della classe, anzi la più brava è lei che piange sempre quando lui la supera, è competitiva e un po’ piagnona, una prima della classe, vuole vincere il Nobel e a lui piace per questa sua forza e testarda ambizione.

 

Prima della partenza della famiglia per il Canada, la madre di Na Young organizza una giornata per i due bambini, lo fa per darle dei bei ricordi che l’accompagnino nella partenza. La conoscenza tra i due bambini diventa familiare alle soglie della separazione, proprio perché a Hae Sung è affidato il compito di incarnare ciò che stanno perdendo, l’oggetto nostalgico diremmo noi. Il loro gioco nel parco è un continuo cercarsi, ti vedo e non ti vedo, perdersi e ritrovarsi nelle due statue di volti umani che si fronteggiano.

Ma anche nel momento della loro definitiva separazione in Na Young non c’è apparente tristezza è decisa a partire, a scegliere il proprio nuovo nome che sarà l’occidentale Nora. Così sua madre che dice “Se lasci qualcosa dietro di te, guadagni anche qualcosa”.

Chi parte deve essere determinato a lasciare qualcosa dietro di sé, il più acuto senso di perdita tocca a chi resta: c’è un’inquadratura in particolare, in cui mentre tornano a casa il bambino guarda protettivo e malinconico fuori dal finestrino dell’auto, mentre la bambina si è addormentata sulla sua spalla. Un tenero fiducioso contatto fisico, non così scontato nella cultura coreana, che prelude a una perdita per entrambi, non solo perdita dell’amico prediletto dell’infanzia ma anche perdita di una parte di sé stessi.

Dopo 12 anni si ritrovano via chat, ancora una volta riconoscono l’antica sintonia giocata tra la dinamicità ambiziosa di Nora e la tenace arrendevolezza di Hae Sung.

È ancora lei che decide di interrompere le loro chat che la inteneriscono ma la frenano: il suo progetto di vita ha la precedenza, deve seguire il proprio destino e si dà una mossa: Deve diventare una scrittrice non può coltivare nostalgie malinconiche. Per guadagnare qualcosa devi lasciare qualcosa dietro di te.

Passano ancora 12 anni, adesso ne hanno 36, sono adulti e Hae Sung decide di andare a New York per incontrarla. La sua vita è ancora poco definita, un po’ impantanata, una fidanzata che non riesce a sposare perché non guadagna abbastanza. Tradizioni che si trascinano senza un vero senso e capacità di scegliere. Cosa cerca nell’incontro? Certo la sua adorabile amica dell’infanzia, ma di quella ragazza ricorda e ama, come poi le dirà, la determinazione, l’ambizione, il coraggio di sognare e di partire. Sono forse queste caratteristiche di cui l’ingegnere, accomodato in una vita di abitudini confortevoli ma spente, è nuovamente alla ricerca?

E cosa cerca Nora in questo incontro? Nei loro tre giorni insieme Nora è mostrata sempre caparbiamente sorridente, molto “wow”, come dice insistentemente nel loro primo incontro. Scorrono le immagini del suo rapporto con Arthur, della casa vuota in cui si sono conosciuti mettendo insieme i loro interessi e le loro solitudini, della loro sintonia nel fare progetti, della loro amorosa armonia. Sono due newyorkesi giovani e arrivati, capaci di affrontare insieme la vita.

Cosa le manca? Cosa vuole ritrovare? Lui è così coreano, dice, mentre lei non lo è quasi più, eppure quando è con lui lo ridiventa, come non lo era da tanto tempo. Forse è questo che vuole ritrovare, un lutto mai veramente fatto per un mondo lasciato troppo di corsa, con troppo entusiasmo, con bei ricordi come la mamma chiedeva, forse mai pianto?

È significativa la scena del loro primo abbraccio, Nora lo stringe con calore mentre Hae Sung sembra di legno e solo dopo un po’ vince l’imbarazzo e risponde. Come dicevo in Corea non ci si abbraccia!

Scena molto diversa dal reciproco tenerissimo affettuoso abbraccio prima dell’addio, segno che si sono ritrovati, ciascuno ha ritrovato l’altro e, contemporaneamente, quella parte di sé così viva nell’infanzia che la separazione aveva congelato.

E Nora tornando a casa, può ritrovare tra le braccia di Arthur quel pianto che da bambina in Corea le era così famigliare e che la Nora newyorkese sembrava aver dimenticato, come la regista magistralmente ci fa capire con le inquadrature della protagonista sempre deliziosamente sorridenti.

L’incontro ha fatto ritrovare a entrambi quello che sembrava perduto quando avevano dovuto lasciare andare quel reciproco rispecchiamento che era il perno e il senso del loro giovane amore.   

Lo vediamo bene in Nora/Celine che ritrova il suo pianto e la voglia di confrontarsi con la complessità delle sue due appartenenze. Se il frutto è questo film mi sembra proprio che ci sia riuscita. 

E Hae Sung ci lascia, ancora una volta sull’auto, come da bambino guarda fuori dal finestrino serio e concentrato. Stavolta è da solo e lo sguardo della regista lo avvolge di affetto e insieme ci dice, ancora una volta, che anche chi sentiamo più vicino resta altro da noi, non lo possediamo e amore è anche riconoscere che in questo sta il senso vero dell’intimità.

 

 

 

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