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De Marchi A. (2011). La morte, la madre, la bambina.

Relazione presentata al seminario di Formazione Psicoanalitica – “Il Sessuale come trasformatore psicologico:l’Après-coup” di Jacques André Accademia “La Colombaria” –

Sabato 1° ottobre 2011 LA MORTE, LA MADRE, LA BAMBINA1

Storia di Silvia (33 anni). Quello che fin dall’inizio mi ha colpito, in questo caso clinico, è stata la divergenza tra due componenti abbastanza ben distinguibili intuitivamente, anche se non ancora decifrabili nei contenuti: la personalità di Silvia adulta, raffinata, attraente nei modi e nelle espressioni verbali; e, ad un altro livello, la percezione, l’intuizione empatica, fin dai primi incontri, di una zona grigia, cupa, confusa, magmatica.

La storia infantile di Silvia infatti narra una serie di eventi di carattere traumatico avvenuti nella prima e seconda infanzia: la nascita di un fratellino nato morto al termine del suo secondo anno di vita, il distacco dalla madre vittima di una depressione reattiva a questo evento, l’ulteriore separazione da essa per la nascita di un secondo fratellino che ne assorbì le energie occupandola nelle prime cure, la morte improvvisa della madre avvenuta nel sesto anno d’età.

Silvia reagì a questo evento con importanti reazioni psicosomatiche, tra cui una sorta di blocco psicomotorio che le tolse per parecchi anni l’agilità dei movimenti che prima la caratterizzava. Crebbe in un ambiente cupo e chiuso, dominato dalla sensazione di una perdita irrecuperabile. Si occupò del fratellino, più che da sorella maggiore, nelle vesti di sostituta della figura materna, prodigandosi in tutte quelle cure che avrebbe desiderato ricevere dalla madre. Evidentemente questo la difendeva dall’elaborazione di un lutto antico e profondo, ben precedente alla reale morte della madre, lutto che era stato negato e allontanato da sé fin dall’inizio.

Da qui l’interrogativo che s’impose subito: come poter agire su questo arresto del tempo, sul processo di negazione della perdita, sul recupero degli affetti dislocati dalla figura materna su altri. Quale possibilità terapeutica si poteva ipotizzare a proposito di un auspicato recupero del processo di temporalizzazione? In seguito vedremo quando si riproporrà la temporalità del primo colpo che si congiungerà con quella del secondo colpo, e quanto violento e doloroso sarà per la paziente rientrare nel tempo collegato con gli affetti negati.

L’insorgere delle pulsioni sessuali in adolescenza la risvegliò bruscamente dall’infanzia cupa e triste. Divenne attraente, studentessa promettente ed acuta. Tale atteggiamento intellettuale rimase una costante nella sua vita e le procurò molti successi nell’ attività professionale. La decisione di intraprendere un’analisi fu motivata dall’interruzione improvvisa di una relazione sentimentale che durava da alcuni anni, piuttosto burrascosa, ma passionale e profonda. L’avvenimento che –a suo dire- si verificò inaspettatamente la colpì con la “violenza di un fulmine”; la sofferenza che ne seguì divenne nel tempo insopportabile; era assalita da “pensieri di morte” come se la vita per lei si fosse improvvisamente svuotata di senso. L’analisi di Silvia si articolò in due tranches: la prima durò cinque anni, la seconda tre anni.

Nella prima tranche si evidenziò ben presto lo sviluppo di un transfert di tipo materno in cui fu possibile elaborare la profondità dell’ambivalenza nei confronti della madre da cui troppo presto Silvia si sentì abbandonata; nella ricostruzione analitica questo le chiarì la ragione del “senso di morte” repentino ed insopportabile, provocato dall’abbandono del partner, figura in cui confluivano aspetti sensuali e sessuali della relazione sia con la madre che con il padre. Così infatti ella si era sentita “morta” quando improvvisamente –senza motivi dichiarati- morì la madre: “piuma in balia del vento, in mezzo ad un uragano di proporzioni gigantesche”, come recita un suo sogno infantile, che emerge nel ricordo all’incirca a metà dell’analisi. Il lutto per la morte della madre era rimasto inelaborato: ella rimosse il lutto, il ritorno del rimosso si evidenziò con un sintomo, la zoofobia (non entrerò nei particolari per ragioni di riservatezza) che, come è noto, ripropone la sostituzione dell’oggetto amato con un animale idoneo ad essere assunto come oggetto d’angoscia. La rappresentazione dell’oggetto materno infatti fu allontanata dalla coscienza, sostituita con la comparsa di angoscia. Nel transfert emerse la sensualità della relazione con la madre dei primi tempi, l’angoscia per gli abbandoni, l’aggressività che non si esprimeva direttamente nel rapporto con l’analista, bensì con sogni in cui “nel fondo del mare una donna aggrediva un’altra per ucciderla”: ciò le fu interpretato come desiderio di immobilizzare l’analista per renderla inoffensiva e magari anche di volerla eliminare, se non avesse avuto bisogno di lei. Mi sembra piuttosto significativo un sogno che la paziente ricordò durante l’analisi, verso il termine della prima tranche: “Un gigantesco animale2 con una pancia enorme si aggira in mezzo ad un villaggio composto da case misere e diroccate. Io esco da una di queste”: grazie all’interpretazione del sogno la paziente comprese che l’animale rappresentava la madre incinta di cui ella voleva uccidere il contenuto. Silvia vive questa rappresentazione onirica come una scena “sospesa”, fuori dal tempo, di cui è la protagonista. Tale scena è strettamente collegata alla violenta aggressività scatenata nella piccola bambina dopo l’allontanamento traumatico dalla madre, che doveva giacere immobilizzata a letto a causa di una gravidanza a rischio. In seguito il fratellino nacque morto, seguì una reazione depressiva materna, un’altra gravidanza: il fratellino nacque quand’ella aveva circa due anni. In sintesi Silvia potè godere delle tenere cure materne, il cui ricordo emerse in analisi, per un anno e qualche mese. Un sogno può valere per tutti: “Silvia e la madre giocavano teneramente all’interno di una stanza le cui pareti consistevano in drappi di meravigliosi tessuti, i cui colori riproducevano l’intera gamma del rosso”: gli avvenimenti seguenti allontanarono la madre da lei.

Con l’elaborazione dell’aggressività collegata alla perdita della madre e dei risvolti edipici nei confronti di questa, nonché con il ricongiungimento con il padre, che ella aveva a lungo ignorato, arrivammo a pattuire la conclusione dell’analisi. I sogni erano quelli di fine analisi, di una lenta, difficile ma possibile elaborazione di un precocissimo lutto infantile. L’ultimo sogno che mi portò, mi colpì veramente al cuore, cioè, per meglio dire, al cuore della mia narcisistica soddisfazione.

Questo il testo: “Salivo lungo una montagna altissima, il percorso era quasi alla fine: mi volgevo verso il basso, il panorama era bellissimo, c’erano prati verdi e fiori variopinti. Ero molto commossa e pensavo a quanto era stato lungo il cammino; Lei era già arrivata sulla cima che era molto ripida. Poiché il passaggio era difficile, mi porgeva la mano. Non c’era che un passo, un solo passo; ma io non riuscivo a fidarmi della forza delle sue braccia… e se Lei non fosse riuscita a tenermi, e se io fossi scivolata…? Il pendio, sotto i miei occhi, per quanto bello, era molto ripido”.

Nelle meditazioni successive, dapprima incredula, poi con la sensazione che una componente perversa mi fosse “scivolata di mano” per riapparire alla fine, senza possibilità di recupero, la rilettura di Analisi terminabile ed interminabile (1937) mi fece amaramente considerare come, mentre una componente psichica può diventare accessibile, un’altra può invece rimanere sotterranea ed inaccessibile allo sforzo terapeutico. Non solo, ma “anche le caratteristiche peculiari dell’analista”, afferma Freud, “devono essere prese in considerazione tra i fattori che influenzano le prospettive della cura analitica”.

Avevo forse dimenticato che transfert e controtransfert vanno considerati come effetti della vicinanza che induce identificazioni? La natura identificatoria del transfert e del controtransfert definisce la particolare modalità di relazione che si forma nel “discorso tra due” psicoanalitico, attenta alle modificazioni emozionali profonde ed agli elementi inconsci e non conosciuti di sé e dell’altro. Ero stata troppo materna e protettiva per risarcirla del trauma subìto? Avevo inconsapevolmente troppo temuto gli effetti dell’aggressività edipica inconscia della paziente? La paziente aveva inconsciamente soddisfatto alcuni miei bisogni narcisistici?

Il grave trauma infantile aveva inciso infatti sulla nostra relazione orientandola nell’impianto di un rapporto di tipo materno. Il transfert della paziente si strutturò in senso ambivalente, poiché non si era sufficientemente collegato con un transfert di tipo paterno che era rimasto idealizzato, un po’ sullo sfondo, considerati i rapporti con il padre che, occupato nella vita professionale e in nuove relazioni, si era mantenuto piuttosto defilato da lei e dalla famiglia.

Quindi nel sogno di Silvia emergeva una contraddizione rispetto al clima della nostra relazione, in cui invece c’era disponibilità al termine dell’analisi, con un lutto divenuto affrontabile, senza segni apparenti di grave ambivalenza. L’analisi terminò di lì a breve, il termine già fissato e concordato, con manifestazioni di pianto e ritorno dell’antico lutto.

Quattro anni dopo, in seguito alla richiesta di una seconda tranche in occasione di una grave crisi matrimoniale (nel frattempo Silvia si era sposata), emerse l’enorme carico aggressivo ancora non sufficientemente elaborato nei confronti del coniuge, ma anche, come si evidenziò assai rapidamente, nei confronti dell’analista. Questo fu il primo sogno che mi portò: “Nel ghetto ci sono tedeschi ed ebrei. La protagonista, conflittuale, quindi indecisa vorrebbe andare dall’ “aggiustatutto’ del ghetto e chiedergli di venire con lei a teatro. Ma questi le dice che lei può solo proporre e solo l’altro può dire si o no. La risposta è ambigua e la protagonista all’inizio pensa che egli non vuole venire con lei. Invece, alla fine, escono, ma in una strana atmosfera: all’uscita vengono controllati dalle SS che li lasciano passare”. A dimostrazione –penso- di come le difese sado-masochistiche di Silvia le permettano di affrontare il conflitto. Il problema sembra riguardare sia la relazione analista/paziente che quella tra due componenti di sé che non riescono ad integrarsi, mantenendo una dolorosa separazione fra l’una e l’altra. Quello che attira la protagonista verso l’ “aggiustatutto” è probabilmente l’intuizione che questi capisce cose del mondo che ella non sa avvicinare, perché ha bisogno del si-si, no-no, mentre invece egli le propone le sfumature. Ciò la sconcerta perché, proprio come i bambini, ella vorrebbe essere accolta in toto, senza discussione. Silvia è attratta dall’ “aggiustatutto” perché non può essere come lui.

In questa ripresa dell’analisi Silvia riuscì, spinta da un’angoscia insopportabile, ad esplicitare una fantasia che la prendeva sul finire della prima tranche. La scena si svolgeva così: Silvia suonava alla porta dello studio ed improvvisamente si trasformava in una specie di personaggio alla Psycho con un coltello brandito in mano. Il contenuto era così angosciante che non riuscì a parlarmene e lo rimosse di lì a poco. Nel corso degli anni seguenti il ricordo di questa scena ad un tratto le si ripresentò alla mente in concomitanza con l’abbandono del coniuge e contribuì al suo ritorno in analisi.

Si potrebbe forse definire l’emergere del ricordo di tale fantasia nei confronti dell’analista come una riproposizione in après coup di antichi impulsi aggressivi verso la propria madre, impulsi che avevano determinato in Silvia il penoso quanto inspiegabile sentimento di essere colpevole della sua morte. Si sentiva in colpa per la morte di sua madre come se la propria aggressività, prodotta sia dalle frustrazioni inerenti le prime cure, sia dalla posizione edipica, fosse stata così potente da ucciderla. Un sogno può essere testimone di questo; esso avvenne poco dopo la morte della madre. Questo il racconto: “Mia madre e mio fratello si trovano dietro ad un altissimo invalicabile cancello, in un parco molto verde ma non fiorito; io e mio padre ci troviamo dall’altra parte del cancello: è evidente che siamo fuori dal parco”. Questo sogno sembrerebbe rappresentare la situazione post-traumatica di Silvia. Da alcune associazioni della paziente si può pensare che il suo desiderio di allora fosse che il fratello, causa di tanta invidiosa sofferenza, morisse, così com’era morta la madre e di avere il padre tutto per sè. Se la fine della prima tranche si trovava a coincidere –nell’inconscio- con la morte della madre, la fantasia alla Psycho diventava più comprensibile: Silvia vuole uccidere l’analista-madre perché si sente abbandonata.

C’è qui una conferma a ciò che Freud affermava in Inibizione, sintomo e angoscia (1925), che la maggior parte delle rimozioni con cui abbiamo a che fare in analisi rappresenta casi di rimozione après coup. Il ritorno in analisi –dall’analista protettiva e proprio per questo ripropositiva dell’ antico abbandono- si presentava come un’esigenza di risignificazione della violenta fantasia che era apparsa sul finire della prima analisi (scena del coltello alla Psycho), che si agganciava direttamente alla relazione conflittuale con la madre, oggetto di un amore profondo intinto di intensa sensualità, ma frustrato dagli avvenimenti dei primi anni di vita. Evidentemente anche io mi ero inconsciamente ritirata di fronte all’assunzione di fantasie così crudamente aggressive nei confronti del personaggio materno che venivo a rappresentare per la paziente. La fantasia alla Psycho può quindi essere definita après coup, un après coup che Silvia non aveva avuto la forza di esplicitare a causa del grave senso di colpa nei confronti della madre, che aveva, nel transfert, rivissuto nei miei confronti.

Qui la temporalità del primo colpo irrompe e si congiunge con quella del secondo colpo. Andrè designa tempo 1 quello che produce l’après-coup, in realtà il secondo nel proporsi degli avvenimenti, perché è a partire da questo che si apre la temporalizzazione; il tempo 1 è contemporaneamente il secondo colpo e il primo tempo.

La paziente, dopo la prima tranche analitica, si trova alle prese con il trauma di una seconda perdita (del supporto narcisistico che le forniva il rapporto con il marito) che rimanda alla prima, e non riguarda solo la morte della madre, ma anche gli altri penosi distacchi avvenuti precedentemente. E qui riemerge, di conseguenza, la terribile aggressività nei confronti della madre che, dopo le prime tenere cure, si allontana ed, infine, muore. La realtà che irrompe nel primo tempo è psichica; come ci ricorda Andrè, il colpo proviene dall’interno.

Vi racconto ora un’intuizione della paziente durante una seduta. Ella mi stava parlando di una sensazione mai sperimentata durante la vita adulta, che non sapeva definire, ma che ora la prendeva irresistibilmente… “ecco, io mi sento un corpo immobile, inerte, no, ecco, io mi sento morta… così come mi sentivo morta da bambina, quando camminavo rigida come un burattino; morta come mia madre nella bara… (piange a lungo)… non l’avevo mai compreso. Se io ero morta come lei, forse mi sentivo meno in colpa, meno cattiva…”. Qui emergono sentimenti edipici e il senso di colpa relativo: vedi sogno infantile dell’alto cancello, dopo la morte della madre.

Come ebbi modo di comprendere nel difficile lavoro controtransferale, gli affetti di Silvia e l’aggressività terribile che trasferiva nei miei confronti erano di natura molto più primitiva rispetto alla posizione edipica, così primitiva perché prendeva origine dagli abbandoni materni subìti nei primissimi anni di vita. Le cure materne così tenere e avvolgenti del 1° anno e ½ (ninne nanne, contatto tenero e profondamente empatico) le furono bruscamente tolte a causa di una seconda gravidanza a rischio della madre, che esitò nella morte del bambino, dalla depressione materna che ne seguì, dalla nascita di un secondo fratellino nel suo terzo anno di vita. In questo periodo Silvia fu affidata alle cure della nonna materna, ma questa non riuscì a confortare le angosce senza nome dovute all’allontanamento dalla madre. Silvia diventò insonne, dormiva solo tra le braccia della nonna, non sopportava la solitudine della culla.

Il disorientamento, la sofferenza, la rabbia della bambina piccola deprivata vennero negate dopo la morte improvvisa della madre. Il riprendere contatto, durante l’analisi, con questi sentimenti laceranti fu estremamente penoso per Silvia. Ella si sentiva veramente quella bambina, come se il tempo non fosse trascorso per lei; il ricordo era limpido, intatto: la sofferenza, le angosce, il terrore del buio, il vuoto dell’assenza…. Viveva con difficoltà la vita reale, era troppo presa dalle vicende della bambina. Diventò distratta nel lavoro, aveva l’impressione di trovarsi in una dimensione diversa, assisteva e ascoltava ciò che le accadeva nel mondo, ma si sentiva come protesa a vivere nell’altra dimensione, quella della bambina. Alcune volte si ribellava, negava, poi a stento era costretta ad ammettere che gli stati di abbandono e di sofferenza facevano parte della sua vita e che li aveva sempre coperti con una vernice di efficienza. Ricordava ora che da bambina era perpetuamente irrequieta, rifiutava spesso il cibo e, man mano che cresceva, l’aggressività e la chiusura nei confronti della madre divenivano sempre più evidenti. Contemporaneamente –come ebbe modo di comprendere- rifiutava i sentimenti della bambina che era stata. Troppo penoso accettare due componenti di sé in così stridente contrasto: la donna che affrontava la vita, la bambina annichilita che non voleva più vivere, che non sapeva come vivere. Cosa potesse avere compreso la madre di questa bambina diventata così scomoda è difficile dirlo, proprio per il senso di colpa di Silvia che si era frattanto aggiunto al conflitto edipico. Ne derivò, in Silvia, una miscela per lei letale dell’aggressività invasiva derivante dalla deprivazione con quella che si sviluppava man mano nella posizione edipica. Ad ulteriore conferma di quanto sopra evidenziato Silvia ebbe un ricordo improvviso durante la seduta che riguardava una scena in cui sua madre, in stato di pre-coma, la fissava, secondo lei, con sguardo rimproverante mentre veniva trasportata in barella al pronto soccorso: in realtà ella comprese che guardava la figlia come una madre morente poteva guardarla per l’ultima volta. Un’altra sua intuizione mi colpì particolarmente: che la fantasia alla Psycho era emersa alla fine della prima tranche di analisi perché era lì che Silvia ripeteva, senza rendersene conto, le reazioni aggressive in risposta agli abbandoni della madre, “disperate, violente” perché l’abbandono, per lei bambina, era equiparabile alla morte. L’aggressività di un bambino abbandonato può essere così violenta…; per questo ella si sentiva così in colpa quando la madre improvvisamente morì.

Grazie ad una -come si può bene intendere- sofferta rielaborazione controtransferale (a volte ero presa dal dubbio: comprendo, sento veramente ciò che le accade?) l’ambivalenza di Silvia si attenuò e il transfert paterno si sviluppò più ampiamente nella relazione; avvenne così il collegamento tra i due tipi di transfert, configurandosi in tal modo la possibilità di un consolidamento della posizione edipica.

Silvia, infatti, nella relazione con i partners intratteneva anche rapporti con la componente femminile materna di essi, attribuendo loro un’idealizzazione analoga a quella da lei vissuta nei confronti della madre, idealizzazione che andava a coprire una situazione edipica irrisolta ed in buona parte, proprio per questo, rimossa, assieme alla conseguente aggressività. Tale complessa situazione provocava instabilità nelle relazioni sentimentali, come, d’altronde, emergeva frequentemente. L’identificazione con i partners, considerati come sostituti della madre morta, rappresentava la parte rimossa.

Dalla seconda tranche Silvia uscì dopo aver affrontato momenti di grave sofferenza e di acuta confusione. Alla fine (circa tre anni dopo) era divenuta una persona più solida e coerente, con una maggiore consapevolezza delle proprie fragilità ed una buona capacità di riconoscere il modo di continuare a dialogare con se stessa.

L’esposizione di questa storia analitica mi è stata utile per capire come la rimozione di contenuti inaccettabili possa essere così difficile da incrinare. Il vissuto aggressivo della bambina che, dopo la morte della madre, aveva provocato sensi di colpa inaccettabili, viene sommerso da pulsioni di morte; la bambina si sente “cattiva” e pensa che ciò abbia causato la morte della madre. Tale contenuto inaccettabile, di aver “ucciso la madre”, viene cancellato dalla coscienza, rimosso ed in seguito negato. Quando il transfert nella regressione analitica la porta a questo punto, emerge la fantasia omicida (scena alla Psycho), respinta dall’Io della paziente. Soltanto un altro dolore così intenso, dovuto alla perdita della persona amata, la riporta alla fantasia omicida, fonte di tormenti non sopportabili. In questo consiste l’après-coup, nella riproposizione di vissuti –al tempo- inaccettabili, nel riuscire cioè a mentalizzare il trauma inconscio rimosso, attivo nella psiche. Solo il transfert nel lavoro analitico può essere in grado di operare su livelli traumatici altrimenti non più recuperabili a patto che il controtransfert dell’analista sia adeguato.

Modena, 1 settembre 2011

1 Alcune parti della prima tranche di analisi della paziente sono apparse nell’articolo “Sul finire dell’analisi: alcuni scenari possibili” (2009), Psicoterapia Psicoanalitica, 1, 23-29.

2 Lo stesso che fu oggetto della sua fobia.

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