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Carpi Lapi S. (2013). I genitori degli adolescenti: prospettive diverse nel controtransfert

Discussione della relazione di I.Ruggiero, presentata nel seminario “Il lavoro di controtransfert nella cura psicoanalitica degli adolescent”

 

sabato 8 Giugno 2013

Sala del Giardino d’Inverno, Istituto Montedomini, Via de’ Malcontenti, 6 Firenze

 

Introduce Stefania Nicasi (SPI).

Intervengono Adriana Ramacciotti (SPI) e Sandra Carpi Lapi (AMHPPIA)

 

Il lavoro con gli adolescenti ci confronta costantemente con i genitori, quelli dell’adolescente che abbiamo di fronte e quelli che vivono nella nostra mente. Da una parte, come sottolinea Ruggiero nella sua relazione, l’adolescente sollecita il terapeuta a “rivisitare la propria adolescenza”, dunque anche il conflitto con le proprie figure genitoriali, le identificazioni, i desideri, le rivalità, le paure: si tratta dei genitori interni presenti nella mente del terapeuta come prodotti di un lavoro di elaborazione, ma anche di aspetti genitoriali che rimandano a rappresentazioni più antiche che, nella comunicazione da inconscio a inconscio di cui parla Freud, possono essere contattate da ciò che l’adolescente porta e suscitare emozioni che sorprendono per la loro immediatezza e, talvolta, per la loro violenza.

Dall’altra parte, il funzionamento mentale degli adolescenti è caratterizzato, secondo le parole di Jaemmet (1992), da uno “spazio psichico allargato”, che richiede un lavoro di confine, una costante articolazione fra interno ed esterno: la risposta reale degli oggetti alle proiezioni di cui sono portatori non è mai indifferente, sia che rifiutino le proiezioni, sia che le confermino, sia che riescano a correggerle. Fra questi oggetti esterni investiti dalle proiezioni dell’adolescente possiamo collocare il terapeuta (con tutti i rischi che Jeammet sottolinea), ma anche e soprattutto i genitori e l’ambiente familiare.

Le reazioni contro-transferali che sollecitano i genitori-oggetti interni del terapeuta potrebbero forse rientrare in quello che Winnicott (1947)descrive come “anormalità nel controtransfert”, e cioè “sentimenti, relazioni e identificazioni stabilite che sono rimosse dall’analista” ; tuttavia può essere fuorviante e poco produttivo il tentativo di distinguere, nei contenuti emotivi suscitati dalla comunicazione del paziente, ciò che è “normale” da ciò che non lo è: è l’analisi di tali contenuti che ci aiuta a mantenere la mente del paziente al centro del nostro lavoro. E’ per questo, penso, che spesso il contro-transfert lavora come risorsa “in differita”, non nell’immediato: come sottolinea Civitarese (2013), “se l’analista consulta in tempo reale il suo controtransfert, è ben difficile che riesca a coglierne la valenza inconscia”: è necessario sperimentare il turbamento, tollerare il dubbio, per potersi confrontare con il proprio inconscio.

 

Il terapeuta “sufficientemente buono”

Ruggiero ci mostra come sia possibile utilizzare tutti gli elementi del contro-transfert, quelli che provengono da reazioni più direttamente suscitate dalla comunicazione del paziente e dal suo transfert, e quelli che hanno a che fare con emozioni più personali e legate forse anche alla storia e al vissuto dell’analista: l’analista si lascia toccare dalle emozioni del paziente ma ascolta anche le proprie, accoglie le une e le altre, per poi riportarle nello spazio intersoggettivo come strumento di comprensione della mente del paziente. In questo movimento, mi sembra fondamentale la capacità del terapeuta di tornare sui suoi passi, di smontare e rimontare, insieme al paziente, il significato delle concatenazioni emotive, di accogliere, senza lasciarsene travolgere ma anche senza rigettarle, le reazioni del paziente che prendono la forma di veri e propri attacchi e che possono lasciare sbigottiti. L’estrema distruttività che alcuni adolescenti portano in terapia può suscitare una reazione controtransferale espulsiva, che tuttavia, se compresa, elaborata e restituita nella relazione, può diventare un elemento costruttivo, permettendo al paziente di incontrarsi con un adulto che riconosce i propri limiti e i propri errori e che non è troppo spaventato nel mostrarglieli. In fondo l’adolescente si trova a fare i conti non solo con i propri limiti ma anche con quelli dei genitori, figure fino a poco prima depositarie di perfezione e di potenza: l’inevitabile disvelamento delle loro imperfezioni, delle loro manchevolezze, provoca disorientamento, delusione, rabbia, soprattutto se non è possibile riconoscere che ci sono dei limiti e riportarli così ad una dimensione tollerabile, sottraendoli alla dimensione catastrofica. Il terapeuta “reale”, che tollera il limite dell’imperfezione, offre all’adolescente la possibilità di riconoscere il bisogno, di chiedere aiuto, di sopportare il dubbio: un terapeuta, insomma, “sufficientemente buono”, (Miglioli e Roseghini, 2012), un concetto winnicottiano illuminante per molte e diverse relazioni.

 

Essere terapeuta, essere genitore

 

I genitori entrano nello spazio della terapia, e quindi nella mente del terapeuta, sotto spoglie diverse, e non sempre immediatamente e facilmente riconoscibili: i genitori-oggetti interni investiti delle proiezioni del paziente, i genitori reali di cui il paziente quotidianamente e spesso con forza sollecita le reazioni, i genitori di cui noi stessi facciamo in genere conoscenza e con i quali possiamo decidere come e quanto limitare i contatti. Infine i nostri genitori-oggetti interni, che in un certo senso predispongono il nostro modo di “stare” con l’adolescente in quanto persone reali.

La preoccupazione e lo sgomento che l’analista sente di fronte alla condotta distruttiva di un adolescente non è forse simile al sentimento di impotenza e di disperazione che proverebbe un genitore nel confrontarsi con questa situazione? Siamo sempre consapevoli (dovremmo esserlo) della fragilità del paziente, della sua dipendenza, della relazione necessariamente asimmetrica che si costruisce con lui: ma nel caso degli adolescenti credo che sia quasi inevitabile sentirsi, almeno in certi momenti, “genitori” nel senso più “normale” del termine; perché l’adolescente cammina sul filo del rasoio, in equilibrio precario fra dipendenza e ricerca di autonomia, fra consapevolezza della realtà e fuga nella fantasia, e sappiamo quanto possa essere prepotente in lui l’impulso ad agire, mentre non siamo mai sicuri di cosa potrà succedere quando esce dalla stanza di terapia: ci sarà una rete di salvataggio? Qualcuno lo proteggerà da se stesso? Del resto con gli adolescenti ci troviamo spesso a lavorare “in rete” con altri operatori, come a riconoscere e a sostenere quello “spazio psichico allargato” in cui possano aver luogo proiezioni differenziate e in cui gli attori, oggetti esterni reali, possano offrire risposte adeguate e differenziate anch’esse. Con alcuni adolescenti, noi siamo consapevoli dei rischi a cui può esporli il loro comportamento, e si tratta di rischi reali per la loro incolumità fisica, o del rischio di esporsi a situazioni che potranno incidere pesantemente sul loro futuro: in questi casi, l’urgenza di proteggerli può diventare un ostacolo alla capacità di pensare, alla necessità di rimanere in contatto col loro mondo interno, perché la realtà esterna, minacciosa, irrompe nello spazio della terapia. Possiamo così essere spinti a diventare “genitori” nel senso più elementare del termine, coloro che si preoccupano della protezione e dell’incolumità fisica del bambino, è qualcosa di naturale. Identificarsi, nel controtransfert, con il genitore dell’adolescente può essere molto pericoloso, ma può anche diventare un momento di comprensione, permettendo al terapeuta di entrare in contatto con la relazione duale genitore-figlio, che si costruisce nell’intersoggettività e che acquista significato solo se sperimentata nella sua completezza: la capacità dell’analista di “fare la spola” fra i diversi personaggi, collegando le proprie emozioni alle prospettive diverse, guida l’adolescente in questo faticoso lavoro, aiutandolo ad allargare e arricchire il proprio mondo interno. Nella reazione controtransferale mi pare che vivano proprio emozioni e sentimenti che quel particolare adolescente può suscitare nel genitore: in questo senso gli adolescenti, con la forza delle loro proiezioni e dei loro impulsi, non solo portano nello spazio terapeutico i “loro” genitori, oggetti-interni/esterni affettivamente investiti, ma possono evocare nel terapeuta stati mentali e risposte emotive molto simili a quelle che suscitano nei genitori reali.

Riflettendo su questo punto, e in base all’esperienza personale, ho pensato che questo movimento può verificarsi solo se il terapeuta riconosce ed accetta i propri limiti, in un certo senso se ha fatto i conti con il proprio genitore ideale, quello perfetto, che non commette errori, che reagisce nel modo “giusto” e quindi rigetta le proiezioni dell’adolescente che metterebbero in luce la sua inadeguatezza.

A questo proposito Molinari Negrini (1999) ipotizza che la motivazione stessa della scelta di una professione psicoterapeutica possa essere legata ad “una fantasia di competizione e trionfo di un Sé-genitore ideale rispetto ai propri genitori”, e sottolinea come spesso possa essere molto facile identificarsi con il paziente, i suoi bisogni, la sua sofferenza, piuttosto che con i genitori e le loro difficoltà. Nel contatto da inconscio a inconscio, l’adolescente può farci sperimentare con forza l’impotenza e la disperazione del genitore che si scopre inadeguato: a volte questi sentimenti possono essere così intollerabili, nella loro capacità di minare alla base l’idea di noi stessi come “buoni terapeuti”, da essere respinti come qualcosa che non può appartenerci, con un movimento deciso di distanziamento non solo da quei particolari genitori, ma anche dalla situazione di contatto relazionale con l’adolescente e con il suo spazio psichico.

 

Il terapeuta fra genitore e adolescente: l’incontro fra mondi interni

 

L’attenzione al doppio registro adolescente-genitore, e la capacità di muoversi fra queste due prospettive che si incontrano, si scontrano, si sovrappongono di continuo, è un elemento ineludibile del lavoro con gli adolescenti: quando, come di solito accade, il terapeuta conosce direttamente i genitori, la loro immagine reale, con i sentimenti, gli stati d’animo, le identificazioni che ha suscitato nella sua mente, entra nel gioco della relazione con il paziente. Penso che la qualità e il peso della loro presenza in quanto oggetti esterni reali nella mente del terapeuta sia legata, alle caratteristiche particolari di ciascuna coppia genitoriale (o di ciascun genitore), e non solo alla risonanza che suscitano nel mondo interno del terapeuta, anche se naturalmente questi due elementi agiscono in un’intima connessione. La richiesta di consultazione per un adolescente si presenta in mille modi diversi, e quel primo punto di contatto può dare la propria impronta all’inizio della relazione con il paziente: la madre che nel primo contatto telefonico dice “non ne posso più, la porto da lei e gliela mollo”; i genitori che nel primo incontro mettono in scena conflitti violenti che per la prima volta trovano uno spazio di ascolto; la madre che telefona per conto del figlio, è lui che ha chiesto di parlare con qualcuno; e ancora, la madre che già al telefono sembra sapere di cosa ha bisogno il figlio, magari perché altri operatori si sono occupati o si occupano del caso, e lei ha assunto in un certo senso il ruolo di coordinatrice degli interventi.

Quello che voglio sottolineare è che ogni caso è unico e particolare, e richiede sicuramente una risposta via via diversificata, ma che come terapeuti abbiamo bisogno di riflettere su quali siano le coordinate che possano aiutarci a definire l’assetto del campo più adeguato per ciascuna costellazione, senza chiuderci nella posizione difensiva di procedure standardizzate: forse proprio l’ascolto contemporaneo dei sentimenti controtransferali verso adolescenti e genitori può indicarci come muoverci e aprire uno spazio autentico per lavorare con i ragazzi.

Spesso l’incontro con i genitori reali deposita nel terapeuta sensazioni e tracce emotive che prendono forma e consistenza nel contatto successivo con il figlio, nella risposta controtransferale alle ansie comunicate dall’adolescente: se il terapeuta è capace di accogliere le une e le altre e di dare loro un significato, è come se si aprisse una possibilità di contatto anche fra i mondi interni del genitore e del figlio, mondi che forse erano rimasti fino ad allora incomunicabili a causa dell’impossibilità di esprimere nella relazione i conflitti e le angosce che, da ambedue le parti, accompagnano sempre il processo di crescita.

 

I genitori dell’adolescente nel progetto terapeutico

 

Nel lavoro con gli adolescenti il contatto fra terapeuta e genitori reali pone secondo me problemi specifici e forse più complessi rispetto al caso dei bambini: come molti autori hanno messo in evidenza, la dipendenza del bambino dalle figure genitoriali nella realtà è tale da rendere imprescindibile l’inclusione dei genitori nel progetto terapeutico. Con gli adolescenti la questione si fa tuttavia più delicata e più difficile da gestire. Da una parte l’adolescente è sempre molto dipendente dai genitori, non solo perché ha comunque bisogno di sentirsi protetto e sicuro, ma, a maggior ragione, perché ha bisogno di verificare costantemente la loro tenuta, di constatare quindi che possono resistere ai suoi attacchi o ai suoi ritiri, che possono accogliere le sue proiezioni senza venirne eccessivamente danneggiati (Jaemmet, 1992)). Dall’altra, la ricerca di se stesso attraverso nuove identificazioni contempla la ricerca, talvolta faticosa, di spazi di autonomia; penso in particolare al bisogno di un oggetto esterno nuovo, il terapeuta, con cui condividere prospettive diverse su se stesso e sugli altri, e con il quale dare un significato ai sentimenti confusi che agitano la sua esistenza. Lo stesso Winnicott, che pure sottolinea costantemente il peso delle figure genitoriali non solo nella crescita, ma anche nel percorso terapeutico, in “Deduzioni tratte dal colloquio psicoterapeutico con un’adolescente” dichiara: “Io suggerisco che l’unico modo giusto di raccogliere la storia del caso è sulla base di come può raccontarcela il paziente…Una storia raccolta dal paziente ha una sua verità intrinseca, anche se i fatti possono essere imprecisi o contraddittori”, e aggiunge “…solo successivamente ho maneggiato la relazione con i genitori, per telefono o per lettera” (Winnicott, 1964). Credo di capire che ciò che Winnicott qui intende è quanto sia importante “prendere sul serio” l’adolescente, lasciare che prenda corpo la sua versione dei fatti in uno spazio (la mente del terapeuta) libero dagli accadimenti concreti che ingombrano la sua vita reale. Il rischio può essere quello, sottolineato da Mastella e Ruggiero (1999), di trovarsi alleati con l’adolescente nella sua ribellione e di colludere con la sua parte onnipotente, senza tener conto del fatto che ha ancora un estremo bisogno dell’approvazione e del sostegno dei genitori. D’altra parte sappiamo quanto sia difficile, in certi casi, proteggere il setting terapeutico dai tentativi di intrusione dei genitori, siano essi dettati dal bisogno di essere loro stessi sostenuti e aiutati a capire o dalla necessità di controllare il figlio: alcuni adolescenti sono molto sensibili a questi movimenti (possono prevederli prima di noi, magari anche sollecitarli, in fondo conoscono bene i propri genitori) e il terapeuta rischia in certi casi, soprattutto nelle prime fasi della terapia, di trovarsi identificato come alleato dei genitori, un adulto che, come tutti gli adulti, giudica e controlla, un adulto inaffidabile.

Dunque come “maneggiare” la relazione con i genitori reali in modo che loro stessi possano costituire una risorsa nel lavoro della coppia adolescente-terapeuta? Quali e quanti contatti decidiamo di tenere con i genitori? E’ sempre utile incontrare i genitori prima dell’adolescente? Oppure in alcuni casi è opportuno che il primo contatto con l’adolescente avvenga in uno spazio libero dalle immagini e dalle proiezioni dei genitori?

Riflettendo sul lavoro che abbiamo ascoltato stamani, penso che l’elemento centrale rimanga l’assetto mentale del terapeuta, la sua capacità di ascoltare e accogliere allo stesso tempo i bisogni e gli stati d’animo del ragazzo e quelli dei genitori, e che la sua comprensione di questo doppio registro richieda una presa di contatto in profondità con i propri conflitti adolescenziali e con i propri genitori interni. A partire quindi da una comprensione psicoanalitica della situazione, dovremmo caso per caso, e momento per momento, individuare il modo più adeguato di strutturare l’intervento per quel particolare adolescente, senza soluzioni o procedure precostituite; e mantenere una disposizione mentale mobile, che permetta di includere momentaneamente, se necessario, i genitori nello spazio terapeutico, e di utilizzare comunque tutte le risorse disponibili nell’ambiente di vita e di cura dell’adolescente.

 

Bibliografia

Civitarese G.(2013), Spettri del transfert, in Ferro A. (a cura di), Psicoanalisi oggi, Carocci editore, Roma

Jeammet P. (1992), Psicopatologia dell’adolescenza, Borla, Roma

Mastella M., Ruggiero I. (1999), Il lavoro psicologico con i genitori di bambini e adolescenti in difficoltà, in Trombini E., Genitori e figli in consultazione, QuattroVenti, Urbino

Miglioli C., Roseghini R. (2012), Sulle orme di Winnicott, Mimesis, Milano

Molinari Negrini S. (1999), Essere genitori di adolescenti, in Trombini E., Genitori e figli in consultazione, QuattroVenti, Urbino

Winnicott D.W. (1947), L’odio nel controtransfert, in Winnicott D.W. (1958), Dalla pediatria alla psicoanalisi, G.Martinelli editore, Firenze

Winnicott D.W. (1964), Deduzioni tratte dal colloquio psicoterapeutico con un’adolescente, in Winnicott D.W. (1989), Esplorazioni psicoanalitiche. R-Cortina Editore, Milano

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