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Dove troverete un padre come il mio

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Rossana Campo (2015) 
Ed. Ponte Alle Grazie 

Premio Strega Giovani 2016

Recensione a cura di Enza Quattrocchi 

Leggendo il libro di Rossana Campo, mi sono resa conto ben presto che nasconde ben altro sotto le mentite spoglie di un libro autobiografico e che raccoglie le vicende di una famiglia con un padre “sballato e inaffidabile, sicuramente simpatico” Renato, (il suo nome è ripetuto infinite volte nel testo) e una madre, Concetta, bella, virtuosa, intelligente, il vero pilastro dell’incerta famiglia nel suo precario abituro.

Accedevo alla lettura con una certa diffidenza per i romanzi autobiografici tout court. Eppure di narrazione è fatta la mia vita professionale, ma di altra narrazione dove il “qui e ora” si trasforma, al cospetto di un terzo, in un percorso di ricongiungimento dell’”ora con l’allora”, senza la pacificazione consolatoria del vogliamoci tutti, bene. Invece, leggendo “Dove troverete un altro padre come il mio”, mi sono piacevolmente imbattuta in qualcosa di simile. Più che di un racconto si tratta della riappropriazione di un’identità contrastata. Potrei parlare di padri e del loro ruolo in crisi nell’odierna cultura, potrei toccare la tematica edipica, ma dopo un’accurata lettura del testo, con il rispetto dovuto a Rossana, scrittrice sincera e coraggiosa, proverò a parlare di quei rapporti che costruiscono la nostra identità, i rapporti con le persone senza le quali non diventeremmo persone. Sento molto pertinenti le parole di Fernando Savater e i concetti espressi nei suoi saggi, “Etica per un figlio”, “Politica per un figlio” etc.

“… nessuno diventa uomo da solo: ci facciamo uomini gli uni con gli altri. Riceviamo l’umanità che è in noi per contagio… ce l’hanno passato nel respiro attraverso la parola, ma ancor prima attraverso lo sguardo… è uno sguardo che contiene amore, preoccupazione, rimprovero, burla: cioè significati.”

La morte del padre consente all’Autrice di fare in un certo senso, il percorso negato dallo psicoanalista francese contattato negli anni della sua permanenza a Parigi e, se pur in altra forma, da lui stesso, indicato …“chi nasce con una sensibilità artistica, deve assumere il suo destino. Quello che siamo, la materia di cui sono fatte le nostre vite, gli artisti non hanno bisogno di analisi, trovano il loro modo di curarsi, attraverso le loro opere, la loro arte! Assuma questa parte che si sente sradicata, disadattata, la porterà molto lontano!”

Che dire? Lo psicoanalista in un certo senso parlava come il padre: “sii te stessa bambina mia, vincerai.”

Rossana scrive sin da piccola per portare fuori da sé, ma in uno spazio privato, la verità delle cose… scripta manent, le cose scritte restano, educ sua scribere, scrivere per portar fuori le proprie cose e vederle, allontanandole dall’amalgama affettiva che le circonda. Anche il padre le consegnava le sue produzioni letterarie, poesie, racconti che lei accoglieva come un gesto intimo tra loro, le affidava quelle emozioni che desiderava condividere con lei, solo con lei. Loro che erano fatti della stessa pasta, due anime in apparenza diverse ma della stessa pasta. Due gemelli, per dirla con l’autrice. Questo libro è dunque inconsapevolmente la realizzazione di un progetto iniziato nella prima adolescenza.

Anche se Rossana Campo sta parlando del padre e di episodi della loro vita confusa, attraverso la narrazione dolorosamente nuda e sincera, questo non è un romanzo autobiografico in senso stretto. Renato è sempre ubriaco, ostile alle regole per principio malgrado sia stato un carabiniere, ben presto espulso dall’Arma per la sua cronica difficoltà ad essere veramente appartenente a qualcosa, vaga per la città al volante della sua improbabile macchina e spesso quando torna a casa, ubriaco, aggredisce la moglie per poi scusarsi ed invitarla a ballare. Se esce con la figlia per una passeggiata, la destinazione è la bettola putrida, si esalta nella rivolta ed è intollerante verso ogni forma di adattamento. Dunque quella che potrebbe sembrare una narrazione ispirata al neorealismo talvolta portatore di affermazioni demagogiche o pietistiche, si presenta in tutt’altra veste e non porta a indulgere in facile commozione, piuttosto ad attivare il “cuore che pensa”, che è in tutti noi, come afferma Anne Alvarez.(“Un cuore che pensa”, A. Alvarez, Astrolabio Ubaldini 2014).

Una lettura attenta di questo racconto, ci dice che non è altro che un percorso per riconoscere e affermare un’identità. E’ forse vero che uno scrittore ha la sua espressione artistica che può assomigliare a un percorso analitico, ma certamente questo avviene anche per la presenza di un “altro” che Rossana mette in luce nel suo racconto…il lettore.Renato per i familiari era quello che era…fragile, sbandato, iperemotivo, schizzato e soprattutto un indefesso ubriacone. Beve contro i dottori, i superiori e persino contro l’amata moglie che continuava a rompergli le scatole infruttuosamente. Ciononostante Renato continuava comunque a stare stretto, adesivo ai familiari (“perdonatemi, vogliatemi bene, tenetemi con voi”). Era quella la sua unica famiglia! La sua morte muove in Rossana rabbia, tristezza e “una sorta di gratitudine insensata per tutto ciò che mi aveva trasmesso.”

Ripetutamente le diceva: “Rossana non devi aver paura di niente, piccì..tu diventerai pilota della formula uno”.

Mi soffermerei molto sulle parole frequentemente rivolte a una bambina…i messaggi paterni erano tutti su questo piano, come se lui stesso vivesse così sprezzante delle regole e della vita stessa, forte di un falso sé. In tarda età, invece, aveva confessato alla figlia d’aver iniziato e poi continuato a bere per sfuggire al dolore dovuto alle frustrazioni, al disprezzo degli altri, alla solitudine, al mancato amore da bambino, “papà ma chi ti ha cresciuto?” “mi sono cresciuto da solo”. Beveva per sfuggire all’ansia che accompagna ogni prova, l’esame per diventare carabiniere, la nascita dei due figli, prima l’una e poi l’altro. Al momento giusto preso da un’ansia insostenibile, spariva per giorni… “sono cose da donne”. Accettava di farsi vedere ripetutamente ubriaco anche con la figlia accanto a sé, ma si faceva “scuornu”, che qualcuno lo vedesse “così emotivo”. Eppure quando era un giovane carabiniere, era timido e, nello stesso tempo, spavaldo, le due facce del medesimo senso d’inadeguatezza, del suo sentirsi sempre fuori posto, fino a diventare veramente estraneo fra gli altri, precipitando in un vortice autodistruttivo. L’Autrice riporta elementi fondamentali del buddismo. Disciplina? Autoconsolazione? Antidoto verso l’autodistruttività? “Sono triste qualunque sensazione sto provando, passerà!” Tutto ciò non apparteneva a suo padre, portato a compiere agiti per sconfiggere l’angoscia.

Siamo zingari, siamo vagabondi, siamo diversi. Lui fa lo smargiasso ma la gente lo deride, uno zingaro pazzo, un carabiniere radiato dall’Arma. E gli sforzi di Concetta per una maggiore integrazione fallivano giorno, dopo giorno. Rossana diceva: “Gli altri bambini non mi piacciono, non ci sono bambini uguali a me, gli altri non mi piacciono.” E’ una bambina che vive ai margini del contesto e l’episodio del disegno della Lanterna di Genova è molto significativo. Il padre interviene con insensata autoreferenzialità e disegna a caso una lanterna, non il Faro di Genova, e la stessa Rossana, ancora bambina, commenta con supponenza l’errore evidenziato dalla maestra, assecondando Renato, incurante almeno in apparenza della derisione dei compagni e aderendo perfettamente al modello paterno la cui affidabilità non era in discussione. Suo padre aveva comunque disegnato una bella lanterna.

Vediamo l’amicizia mancata tra Rossana e Stefania: l’una terrona e l’altra con i denti a coniglio, ma anche l’amicizia consolidata con Nunzia, il silenzio, la condivisione, la complicità e i padri che riscattano, che proteggono. ”Ah grazie pà”.

Con questi messaggi… -“non devi aver paura, se qualcuno ti dà noia mandalo affa”- il padre forniva elementi di forte identificazione, “sei e sii come me”, ma anche di correzione e di rivalsa impliciti “tu però devi vincere”. La piccola Rossana riceveva messaggi contraddittori, laddove essere come Renato ovvero essere Campo era in conflitto con il diventare Rossana, acquisire elementi di consapevolezza e costruirsi come individuo capace di superare la paura invece d’esserne vinta. E’ tutta una questione di appartenenza e d’individuazione/differenziazione, una storia di nome e di cognome.

“ Questi due esseri allegri, tristi, pazzi, ansiosi, incasinati, insicuri, eterni emigranti, sono mio padre e mia madre”.

Vorrei aggiungere due esseri con le loro differenze. Rossana diventa Rossana per quel poco che posso capire dalle pagine di questo libro e dal fatto che è diventata una scrittrice, grazie anche alla madre che, se pur collusiva con l’amato Renato, aveva la capacità di ricostruire (sarta e ricamatrice) e di riparare ciò che era distrutto dall’inadeguata esistenza del marito, anche se un episodio molto triste rimanda a un temporaneo rovesciamento dei ruoli(durante un’uscita la madre piange a causa degli ultimi disastri, la tiene per mano ma Rossana sente che in quel momento pur essendo piccina è lei il conforto, il sostegno, la riparazione per sua madre).

Immagino che l’autrice, anche con l’aiuto dell’istruzione, delle letture, dunque della cultura, abbia saputo calibrare il suo “voler essere” come l’amatissimo Renato, una persona che voleva sentirsi libera dai condizionamenti, con il “dover essere” una persona, consapevole dei limiti e delle potenzialità, fuori dunque dalla cieca autoreferenzialità nella quale la confinava il padre. Ai suoi occhi passava allora da eroe quando “sensibile al suo richiamo” la riportava a casa dalla colonia e dalla scuola materna, colludendo con le sue difficoltà a integrarsi con i coetanei… “non mi piacciono i bambini”.

Mi viene in mente quanto diverse fossero le uscite con la madre da quelle con il padre, assimilate soltanto da un comune denominatore: la fuga.

Le uscite con la madre la portavano ad acquisire consapevolezza della loro triste condizione, degli errori, delle inadeguatezze, dell’incapacità di stare al mondo etc. Ricordiamo anche i disegni colorati che Rossana faceva per la madre, aspettandola a casa, di ritorno dal lavoro; corrispondevano proprio a una sorta di larva progettuale. Costruisco per te, affinché tu veda, riconosca me che cresco, te ne faccio dono. Si sviluppa dunque un rapporto non adesivo e simbiotico ma ricco piuttosto, di premesse evolutive.

Le uscite con il padre, qualche volta le comportavano noia e vergogna, ma in linea di massima la complicità tra loro due era un’enclave che la proteggeva dalla fatica di cimentarsi con le regole dello stare al mondo.

Il rapporto tra i due evoca la clonazione, l’adesività esclusiva, la simbiosi.

Renato era anche un oggetto d’amore straordinario, alleato, simile, gemello che nei periodi peggiori poteva diventare un oggetto d’amore inaffidabile. “Un compito molto faticoso per una bambina il tenere insieme il bello e il brutto, il buono e il cattivo”. Ora era il complice, ora era il nemico.

Proprio i libri e dunque la conoscenza, s’interpongono fra queste due componenti costituendone il trait d’union ed è chiarificatore il sogno dell’autrice (p.46).

Un gruppo di persone capeggiato da Concetta, la madre, irrompe a casa di Rossana e impone, come se fosse scritto nella sentenza di un improbabile tribunale, di mettere ordine e prima di tutto di chiudere in una cassettiera bianca confusa con la parete, tutti i libri dei suoi scrittori più amati, matti ed ubriaconi. ”Quelli che non sanno stare al mondo in maniera semplice e lieta. Quelli che ogni cosa può diventare una catastrofe”. Lei protesta e dice che la sua casa la vuole così, piena di confusione e di disordine… “è casa mia”.

La scena cambia Rossana è fuggita, si trova in un mercatino delle pulci nel lungo Senna, si sente al sicuro, un vecchio dai denti d’oro, presumibilmente uno zingaro, le dice “quella gente si è chiusa il cuore, ma petite”.

Per la nostra scrittrice, leggere e scrivere sono la via d’uscita tra l’essere Campo/Renato e l’essere Rossana…prima il nome e poi il cognome.. Rossana Campo.

Liberarsi dei padri non significa farne a meno come afferma Massimo Recalcati, citando Lacan, nel suo “Cosa resta del padre” (Raffaello Cortina 2011), perché per fare a meno del padre bisogna imparare a servirsene.

Crescere è dunque abitare un vero sé, senza uccidere veramente le figure di riferimento, ora la madre, ora il padre, si chiami Renato o il suo opposto, come Atticus il padre della piccola Scout del libro indimenticabile, di Harper Lee “Il buio oltre la siepe”. Per abitare un vero sé non possiamo che accettare la loro presenza nel come siamo fatti: diversi, simili, derivati.

E’ normale che questo ci sia più chiaro nel corso del tempo e soprattutto quando quel che resta di loro è solamente dentro di noi.

Credo, inoltre, che dopo la lettura di un racconto o romanzo sia importante ripensare al titolo scelto dall’autore, spesso è la frase chiave per accedere all’essenza del messaggio implicito.

“Dove troverete un altro padre come il mio” è una citazione, una frase contenuta nel libro “L’armata a cavallo”, 33° racconto di Isaak Babel:

“(…)In un tugurio di contadini giace a terra contro la parete un vecchio ebreo sgozzato e con il viso spaccato in due, egli aveva implorato invano che venisse ucciso fuori dietro la casa, non alla presenza della figlia: “si preoccupava di me. E allora io voglio sapere, adesso, -disse all’improvviso la donna con una forza terribile,- io voglio sapere dove troverete, in tutta la terra, un padre come il mio…”

Prima di tutto l’amore ricevuto, aldilà di ogni infelicità. E’ un segno permanente.

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