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Hautmann G. (2019) La cura psicoanalitica contemporanea /Dialoghi Aperti

Testo dell’intervento di Gregorio Hautmann  per la giornata

DIALOGHI APERTI -AUTORI LETTORI PUBBLICO

Firenze 11 maggio 2019

Bastianini T., Ferruta A., (2018). La cura psicoanalitica contemporanea. Fioriti, Firenze.

 

Ben 24 psicoanalisti italiani tra i più noti, e tre stranieri – un italo americano che lavora a San Francisco, ma è di casa da noi, in Italia, L. Di Donna, e due maestri della psicoanalisi francese, R. Kaës e R. Roussillon, offrono i loro contributi, suddivisi in quattro sezioni, a questo volume, curato da T. Bastianini ed A. Ferruta, le quali figurano anche tra gli Autori. Il volume è inoltre, per così dire, impreziosito dalla prefazione di A. Ferro, il cui titolo “Estensione del metodo o della tecnica?” già solleva una delle questioni essenziali che costituiscono lo sfondo del libro, (lasciando anche nel contempo intendere la personale propensione dell’Autore), e dalla postfazione di S. Bolognini intitolata “Estensione della pratica clinica”, nella quale, anche in qualità di Past-President dell’IPA, egli ci dà il polso delle molte, forti resistenze che i cambiamenti in atto nella psicoanalisi, quelli che appunto il libro vuole illustrare, incontrano e debbono superare, per essere accolti a livello istituzionale, pena il rischio di rimanere invece al livello di “ciò che si fa ma non si dice” oppure di essere rubricati, in modo tranquillizzante ma, probabilmente, elusivo sotto la voce “psicoterapia”. Già da questi scarni elementi di carattere descrittivo, è facile immaginare la densità e la generatività di stimoli che contraddistinguono il volume, pur nel folto panorama delle pubblicazioni (articoli, atti di convegni e libri), italiane ed internazionali, che in questi ultimi anni hanno per tema appunto la psicoanalisi contemporanea. Non potendo qui dare minimamente conto, per ragioni di spazio di tutta questa generatività e densità, mi limiterò a richiamare alcuni tra quelli che mi sono parsi punti di snodo significativi. I titoli, del libro e delle sue sezioni, mi aiuteranno nel percorso che toccherà tre punti: il rapporto tra la psicoanalisi e la categoria del contemporaneo, il rapporto tra la psicoanalisi e il concetto di estensione, le conseguenze dell’estensione stessa.

Il primo punto, enunciato nel titolo, riguarda lo stretto rapporto tra psicoanalisi e contemporaneità. Accennavo prima alla recente fioritura di produzione scientifica che ha per tema “la psicoanalisi contemporanea”: essa è in buona parte embricata con il controverso fenomeno che va sotto la denominazione, a dire il vero un po’ consunta di “crisi della psicoanalisi“, condizione, dovuta, si sa, a molteplici fattori di ordine clinico, sociale, culturale ed economico, per la quale ad un aumento di richiesta di terapia per varie forme di disagio psichico corrisponde una diminuzione di richieste di psicoanalisi, per lo meno nella sua forma classica, di cura -tipo. Ma è vero anche, lo ricordava M. Balsamo, nell’editoriale di apertura della sua direzione di Psiche, che “la psicoanalisi, da quando è nata non ha fatto che pensare alla propria contemporaneità, come tempo da interrogare esplorare ed indagare“: d’altronde è del 1937, ricorda sempre Balsamo, “il concetto di trauma nella psicoanalisi contemporanea“ di O. Fenichel. Tutto questo per dire: lo stretto rapporto tra psicoanalisi e contemporaneità è un dato non solo congiunturale, ma strutturale.

Esso è da intendersi, credo, su un piano duplice, che espliciterei in questo modo: l’assetto mentale dell’analista al lavoro consiste, lo sappiamo bene, da un lato di un isolamento parziale rispetto alle sollecitazioni derivanti dalla propria dimensione sociale culturale familiare, anche quindi dalla propria dimensione emozionale, affettiva, cognitiva e mnesica, e perfino in certa misura, dalla propria dimensione biologica; dall’altro lato tutte queste dimensioni restano, nell’assetto mentale dell’analista al lavoro, filtrate ma presenti, ombra di legami sia pulsionali sia sociali, filo tenue ma solido con tutto ciò che fa dell’analista persona intera. L’una e l’altra componente, identità analitica l’una, identità dell’analista l’altra -secondo una corrente seppur discutibile distinzione-, legate da un complesso, mutevole, ma comunque imprescindibile legame sono necessarie al lavoro analitico, la prima per consentire la condizione dell’accecamento, il raggio di intensa oscurità con cui cogliere i precursori delle emozioni del paziente nelle loro vicende di incontro, fusione, identificazione separazione individuazione con e rispetto agli oggetti interni propri e dell’analista, la seconda come rappresentante di quella realtà che proprio in quanto scolorita riesce a costituirsi quale indispensabile sfondo su cui il flusso dei fantasmi, a vario grado di simbolizzazione dal più vicino ad un ipotetico grado zero fino a quelli più evoluti, appartenenti alla coppia analitica -e non solo al paziente-, possa essere proiettato: è così infatti che si sviluppa il senso di realtà, dall’elaborazione delle fantasie, nel paziente, grazie alla crescita della capacità di simbolizzazione, promossa dal lavoro dell’analisi.

Possiamo pensare allora che proprio questa “bivalenza”, per così dire, intrinseca all’assetto mentale dello psicoanalista, sia un vertice privilegiato per essere in contatto con la contemporaneità, per afferrare e comprendere il proprio tempo, se è vero che può dirsi pienamente contemporaneo soltanto chi, rispetto al proprio tempo, mantiene un minimo di distanza, uno scarto ed un anacronismo, che permetta “di accogliere – scrive ancora Balsamo- ciò che nel presente non appartiene ad esso, come residui, avanzi di futuro o vestigia del passato, mondi possibili o profezie in giacenza”. Così è lecito sostenere che “ogni costruzione clinica [psicoanalitica] contenga in forme più o meno implicite, un’analisi del proprio contemporaneo”, prosegue ancora Balsamo , sviluppando la sua personale rilettura di A. Green; e questo alla faccia di chi – mi si passi l’espressione poco elegante – da varie provenienze sostiene la psicoanalisi essere ormai superata, fuori dal tempo, appunto in crisi.

Se questo è uno dei piani dello stretto rapporto tra psicoanalisi e contemporaneità, ve n’è però anche un altro: probabilmente la psicoanalisi interroga, esplora e indaga da quando è nata, la contemporaneità, perché da quando è nata, ne ha bisogno quale specchio in cui riflettersi per interrogarsi, esplorare ed indagare su di sé, sulla propria identità, circa la quale da sempre gli analisti, in forme più o meno implicite, dibattono e si dibattono. Una delle commissioni istituite dall’attuale Esecutivo della SPI ha infatti non a caso la mission di discutere su “l’identità dello psicoanalista oggi” al fine di promuovere una riflessione sul tema nei vari Centri e nell’intera Società. D’altronde è verosimilmente ancora una volta ciò che abbiamo chiamato la “bivalenza” dell’assetto mentale dello psicoanalista al lavoro, a giocare un ruolo importante nel rendere l’identità dello psicoanalista, non certo debole da un punto di vista concettuale, ma fragile, in quanto esposta a collassi e momenti critici, per usare i termini dell’efficace sintesi di A. Ferruta (2017), a commento di un forum appunto sull’identità dello psicoanalista, comparso non molto tempo fa sulla Rivista.

Se tutto ciò non autorizza certo a ridurre, in modo liquidatorio, l’acceso dibattito circa gli sviluppi della psicoanalisi contemporanea a mere questioni identitarie, può peraltro non farci perdere di vista che un quantum di identitario inevitabilmente intesse sempre le differenti posizioni.

Il secondo punto riguarda invece il rapporto tra psicoanalisi ed il concetto di estensione. “L’estensione del campo della pratica della psicoanalisi e quindi la trasformazione dei suoi oggetti teorici è una costante vitale della sua storia” è l’incipit del lavoro di Kaes , a confermarci non solo l’indissolubilità tra clinica e teoria, tema su cui si diffonde Riolo, ma anche e soprattutto che, come il rapporto con la contemporaneità, anche il rapporto con l’estensione -e relative controversie- è dato strutturale e non congiunturale della psicoanalisi, che ben poco ha a che fare con la sua cosiddetta crisi. Opportunamente B. Guerrini, nella sua introduzione alla terza sezione del libro, ci ricorda che Freud stesso nel 1918 al V Congresso della Società a Budapest anticipò ed auspicò estensioni della pratica analitica invitando fra l’altro le generazioni future di psicoanalisti ad accettare di barattare l’oro della psicoanalisi col rame della più diffusamente praticabile psicoterapia; anche se è pur vero che pochi anni prima, nel 1914 sempre Freud aveva messo in guardia da graduali, erosive modifiche della teoria psicoanalitica, che avrebbero potuto ridurla al famoso coltello di Lichtenberg, un coltello senza lama a cui manca il manico (naturalmente è Riolo, che a questa metafora freudiana è notoriamente affezionato, a richiamarlo nel suo lavoro).

Più precisamente che cosa si estende, della psicoanalisi, proprio in questi tempi in cui le domande di cura psicoanalitica classica si rarefanno? Si estende la sua pratica clinica, leggiamo nel sottotitolo del libro; nel senso che essa si applica sempre a sempre nuovi territori, per esempio non solo allo spazio della realtà psichica del singolo, ma anche agli insiemi plurisoggettivi (“il secondo degli atti principali nell’invenzione della psicoanalisi”, ci insegna Kaes ), e applicandosi a nuovi territori clinici modifica, appunto, i suoi strumenti tecnici e affina i suoi strumenti teorici, col risultato di approntare nuovi dispositivi per analizzare. Ciò avviene perché, come da anni Riolo ci spiega, con la lucidità e la stringente consequenzialità che tutti gli riconosciamo -e lo fa anche in questo libro- la psicoanalisi è un sistema derivante dalla indiscongiungibile trirelazionalità delle dimensioni della teoria, della tecnica e della clinica (dimensioni che si evincono direttamente dallo Junktim). Se muta uno dei tre vertici di questo immaginario triangolo delimitante I’area dello spazio analitico, mutano inevitabilmente anche gli altri due. È possibile che per accedere a differenti realtà e funzionamenti psichici, -i nuovi territori clinici- si rendano necessarie -se non è possibile fare altrimenti- differenti tecniche e differenti teorie, così come differenti teorie richiedono differenti tecniche ed evidenziano differenti realtà e funzionamenti psichici; come pure, ancora, differenti tecniche comportano a loro volta differenti teorie, che appunto evidenziano differenti realtà e funzionamenti psichici: tutto questo al fine di mantenere lo spazio analitico, di conservare un’ adeguata “funzione analizzante”, per usare un concetto che molto circola nel libro (analizzante e non analitica, a sottolineare l’intenzione di esprimere, con il participio presente, il divenire, l’apprendere dall’esperienza, la mai raggiunta compiutezza, spiega T. Bastianini.)

 Delle estensioni della pratica il libro ci dà ampia esemplificazione con la sua terza sezione “Dispositivi psicoanalitici e funzione analizzante nei diversi contesti clinici”, la più vasta, occupando essa da sola più di un terzo del libro. Ci viene parlato della psicoanalisi dei bambini e degli adolescenti, della psicoanalisi delle coppie e dei piccoli gruppi, della psicoanalisi di consultazione e delle situazioni di crisi, della psicoanalisi di uno sviluppo psicotico , e della psicoanalisi della dimensione corporea, tutto visto secondo un taglio clinico, in alcuni casi davvero molto particolare, che meriterebbe ulteriore ed approfondita considerazione.

Altrettanto largo spazio viene dato anche alle trasformazioni teoriche (le tratta la prima sezione del libro “Una riflessione sulle estensioni del metodo psicoanalitico”) che si accompagnano alle estensioni della pratica. Quali esse siano è fin troppo noto. Riporto solo come vengono sintetizzate con la consueta disarmante semplicità ed acutezza da Roussillon in tre filoni paradigmatici:

1) la dimensione dell’intersoggettività non può non essere che l’altra faccia della intrasoggettività.

2) nel processo di simbolizzazione deve essere prestata attenzione non solo alla forma dell’assenza, ma anche alle problematiche dell’incontro con l’oggetto, per esempio alla sua defettualità nella funzione di rispecchiamento, con la conseguenza della necessità di prestare ascolto non solo agli aspetti propri della cosiddetta simbolizzazione secondaria, ma anche a quella primaria.

3) la funzione che egli chiama di “medium malleabile” dell’analista, per la quale egli deve, nella relazione analitica, rappresentare in atto, in “cosa” nel senso di rappresentazione di cosa, attraverso le sue caratteristiche concrete di sensibilità, disponibilità ed afferrabilità, sopravvivenza e trasformabilità, la rappresentazione stessa, tappa fondamentale, questa, per alimentare la simbolizzazione primaria.

Di tali trasformazioni teoriche, il libro si occupa anche di rintracciare gli antecedenti nel pensiero di Klein, Winnicott e Bion, per quanto concerne la psicoanalisi inglese, Lacan e Green per la psicoanalisi francese, e nelle reciproche influenze tra psicoanalisi europea e psicoanalisi nord americana (è questa la quarta sezione del libro “Prefigurazioni dell’estensione del metodo nelle teorie psicoanalitiche”.

Alla domanda che cosa si estende della psicoanalisi, potremmo rispondere, dunque: clinica, tecnica e teoria. Ma se scorriamo i titoli delle sezioni, in tre di esse su quattro, si nominano il metodo e le sue estensioni, e d’altronde è proprio questo il tema fondamentale che attraversa il libro. Dire estensioni del metodo è, almeno per gran parte di noi, qualcosa in più: il metodo è ciò che incardina, appunto in sé, i tre vertici del triangolo delimitante lo spazio analitico (Riolo). L’espressione “estensione del metodo”, nota P. Marion, reca poi con sé un alone di promettente ambiguità: condensa sia il senso che il metodo viene applicato a nuove realtà cliniche – e allora è sostanzialmente equivalente a estensioni della pratica, con una sottolineatura in più, della psicoanalisi come metodo, – sia il senso che il metodo a contatto con nuove realtà espande se stesso, dunque si trasforma. E’ questo un punto delicato, dal momento che, almeno per molti, il metodo è l’invariante della psicoanalisi, quell’invariante necessaria ad ogni trasformazione. Dobbiamo mantenerla, se non vogliamo che le estensioni della psicoanalisi divengano “astensioni” dalla psicoanalisi; ogni procedere psicoanalitico ha, infatti, bisogno del metodo come terzo cui riferirsi, al fine di evitare derive autoreferenziali (Bastianini). Il metodo psicoanalitico, lo strumento osservativo ideato da Freud per esplorare l’inconscio, -non si stanca di ripeterci Riolo-, ha tre funtori (funtori, da differenziarsi da fattori: i funtori fanno parte del metodo, mentre i fattori, cioè l’interpretazione, la relazione, il transfert, il setting -quest’ultimo inteso nella sua accezione di setting esterno, fattuale, suppongo- fanno parte della tecnica); i tre funtori sono le associazioni libere, l’attività decostruttiva, più la personalità dell’analista.

Cambiamo dunque pure i dispositivi analitici , per adeguarli alla clinica di nuovi pazienti, cambiamo pure quindi tecniche e teorie, ma ogni cambiamento di tecnica deve essere compatibile con il metodo, oltre che con le teorie

Al di fuori di questo, siamo fuori dalla psicoanalisi, al massimo nel campo della psicoterapia ad orientamento psicoanalitico, perché il metodo così esposto è, appunto, l’invariante delle trasformazioni possibili.

E siamo ora al terzo punto, quello che ho denominato le conseguenze dell’estensione del metodo. (Se ne occupa in particolare la seconda sezione del libro “Il metodo psicoanalitico messo alla prova”). Dunque, gran parte delle estensioni della pratica psicoanalitica di cui abbiamo parlato, nelle quali la torsione della tecnica è tale da non essere più compatibile col metodo originario, parrebbero quindi al di fuori della psicoanalisi, per chi adotta rigorosamente questo punto di vista; detto in altro modo, gran parte dei pazienti che popolano gli studi degli psicoanalisti al giorno

 d’oggi non sarebbero analizzabili; o forse, piuttosto, alcuni di loro lo sarebbero, e allora sono gli analisti che non li trattano analiticamente.

Per chi, invece, non si riconosce in questo punto di vista, la specificità dell’esperienza psicoanalitica va ricercata altrove, soprattutto in altro modo che non sia quello di una stretta corrispondenza al metodo; ricorrendo magari a criteri di natura più descrittiva, i quali ci diano peraltro ugualmente ragione della specificità, che differenzia il dialogo analitico dal dialogo mondano, come lo chiama Morpurgo. Per esempio, tale specificità, la si potrebbe trovare, per costoro, nel carattere di “compenetrazione interpsichica” della situazione analitica, “un incontro delle menti che partecipa alla costituzione di una soggettività terza” (Moccia per esempio, rifacendosi ad Ogden), oppure nell’ acquisizione di una capacità di pensare sul proprio pensare (B. Guerrini, rifacendosi a F. Busch e ancora a Ogden), o nella creazione di uno spazio psichico nel quale il paziente trovi “la possibilità di un’esperienza soggettiva di scoprirsi dotato di interiorità e di poter creare il proprio significato personale” ( Bastianini rifacendosi a Winnicott). Credo che una buona parte di noi si possa riconoscere in ognuna delle descrizioni proposte.

Tuttavia, tra l’attenersi rigorosamente al metodo, al costo di escludere dall’ambito della psicoanalisi pura molte delle estensioni della pratica da un lato, ed il rinunciare tout court al metodo stesso per sostituirlo con altri criteri, dall’altro lato, una terza via sembra praticabile ed anche piuttosto ragionevole: e tutte e tre queste opzioni sono ben rappresentate dalle varie voci del libro. Se, come si asserisce sensatamente, la tecnica è subordinata al metodo – oltre che alla teoria – sarebbe però problematico sostenere che anche la teoria lo sia, in quanto che non c’è metodo senza teoria. Le estensioni della teoria che accompagnano le estensioni della clinica e della tecnica non possono non riguardare perciò anche il metodo. Per spiegarsi con un esempio: se prendiamo quello che Riolo definisce il primo funtore del metodo, derivante dal funzionamento del sogno, cioè le libere associazioni, il riconoscere, come gli sviluppi teorici ci aiutano a fare, (ce lo indicano nel libro Roussillon e Ferraro) che in esse va inclusa anche tutta l’area extra verbale, sensomotoria, o che esse vanno prese in considerazione non solo nel paziente ma anche nell’analista, nel senso vicariante che assume il funzionamento dell’analista quando quello del paziente è bloccato o fortemente carente; che le forme dell’attenzione uniformemente sospesa, l’altro componente della felice coppia freudiana, come la chiama Bollas, comprendono non solo la classica attenzione fluttuante, ma varie forme di attenzione sostenuta, da quelle che ricalcano la preoccupazione materna primaria, a quelle che si ribaltano nella cosiddetta fissità disattentiva; o ancora l’approfondire, del funzionamento del sogno, anche la funzione onirica della veglia, l’esperienza e lo spazio del sogno, il ruolo delle immagini, sono tutte acquisizioni teoriche che ampliano, modificano ed in parte trasformano il metodo. Ciò non significa peraltro sovvertirlo, anzi: precisare che le libere associazioni vanno intese come un caso particolare del metodo, del quale costituiscono il golden standard verso cui ogni trattamento analitico si prefigge asintoticamente di “nuotare”, conferma e rafforza il metodo stesso. Per chi la vede in questo modo, non c’è ragione di sostituire il metodo, bensì c’è senz’altro ragione di approfondirne il senso ampliandone la conoscenza. Che poi questi ampliamenti di significato si prestino anche ad approssimazioni confusive che possano annacquarne il valore è un rischio reale, d’altra parte è pure il rischio cui vanno incontro tanti concetti psicoanalitici. E’ inoltre vero che ammettere queste estensioni del metodo, ammettere il suo ampliamento di significato, sposta il baricentro da parametri estrinseci a parametri intrinseci, (dal setting esterno al setting interno, dice Green), cioè chiama in causa la più o meno riuscita identificazione dell’analista con il metodo psicoanalitico come oggetto interno chiama in causa, in altre parole, l’identità dell’analista. In quest’accezione si potrebbe dire che l’estensione della psicoanalisi richiede una “intensificazione” della psicoanalisi: da una psicoanalisi “applicata” (a nuovi territori) ad una psicoanalisi “complicata”.

Naturalmente quando si parla di identificazione dell’analista con l’oggetto interno /psicoanalisi come metodo non s’intende affatto che tutto ciò che fa uno psicoanalista è psicoanalisi: anzi lasciare, all’interno della coppia analitica, la responsabilità all’analista di approntare il dispositivo più adeguato, presuppone che l’analista abbia profondamente elaborato la consapevolezza delle varie dimensioni del metodo, per riconoscerne i limiti ed i confini: in altre parole, presuppone appunto che abbia una salda identità analitica.

Come si vede eravamo partiti dalle questioni identitarie della psicoanalisi e degli psicoanalisti, parlando del contemporaneo, e ad esse torniamo.

Da qui il discorso si sposta inevitabilmente verso le problematiche inerenti la formazione e la manutenzione dell’oggetto interno/psicoanalisi come metodo, nella mente dell’analista. Ma tutto ciò eccede l’argomento di questo libro, già molto “ricco” così com’è.

BIBLIOGRAFIA

Balsamo M. (2014). Che cos’è il presente? Psiche 1, 5-11.

Ferruta A. (2017). Che farò senza Euridice? (Orfeo ed Euridice, de’ Calzabigi-Gluck). Riv. Psicoanal. 63, 429-437.

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