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Her, commento di Andrea marzi

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Her di Spike Jonze – 2014

Commento di Andrea Marzi

Francamente si potrebbe scrivere molto a lungo su questo film, soprattutto perché potremmo trattare in parallelo due distinti binari esegetici: uno socio-antropologico, molto denso e interessante, l’altro puramente psicologico e segnatamente psicoanalitico, come si addice a questa serata.Certo binari paralleli ma con le famose “convergenze parallele” (absit iniura verbis): infatti i due piani si intersecano di continuo, e non potrebbe essere altrimenti.

Il film ha quindi due ossature: quella della denuncia tecnologica e dell’inquietudine telematica, e quella della vicenda interiore e relazionale, che si confondono e un po’ confondono, scorrendo parallele ma anche interconnesse.

Lo stile è alle volte un po’ troppo sentimentalistico, e alcuni critici (pochi, per la verità) hanno sottolineato che è un “ film di fantascienza innocuo e leccatissimo”, scambiato “ per una visione capace di raccontare le inquietudini contemporanee”…”. “…tanto successo con il minimo sforzo, quello di aver leggiucchiato su qualche rubrica di Wired la versione più o meno à la page del dibattito sulle perversioni possibili della tecnologia; aver saccheggiato tematiche e atmosfere della narrativa indipendente americana, e aver ridotto il tutto alla versione di uno spot della Morellato” (Christian Raimo).Si nota anche una certa tendenza alla saturazione delle prospettive psicologiche, che lascerebbe poco spazio all’immaginazione dello spettatore”.

Può essere, ma qui interessa meno la perfezione formale ed estetica del film (che tuttavia è pregevolissimo e anche sufficientemente originale) e molto di più l’aspetto di rappresentazione psicologica.

Noi vediamo e comprendiamo, per esempio, che da una parte vengono fascinosamente ritratti un’atmosfera e un ambiente soft, che appartengono a quel tipo di fantascienza a scenografia asettica, come per esempio, in certe scene di 2001: Odissea nello Spazio, e dall’altra sappiamo e comprendiamo che probabilmente più profetica e realistica rischia purtroppo di essere, di questo passo, la fantascienza di Johnny Mnemonic o di altre rappresentazioni del cyberpunk; ma questa ambientazione serve appunto per ritrarre con movimento interno-esterno la condizione di “latenza” (in senso anche psicogenetico) di Theodore, il protagonista. Da questo punto di vista,l’esterno di una Los Angeles linda e pastellosa è asettico come Theodore.

Si attivano da questo punto di vista conosciute articolazioni argomentative sul futuro che ci attende, sulla tecnologia, sul perdurante dilemma del rapporto uomo-macchina, che da Tempi Moderni o Metropolis non cessa di interrogarci. Naturalmente qui c’è la variabile addizionale della tecnologia digitale, che contrae con quanto detto rapporti vecchi, ma instilla problemi nuovi, specifici, con nuove inquietudini.

E’ scoperto e perfino ovvio il ricorso al tema dell’Artificial Intelligence che tenta un’evoluzione verso l’umanizzazione (vedi Spielberg), che riesce a pensare, e che poi, nel caso specifico del film, “sceglie” (addirittura) di perdersi coi nuovi compagni d’avventura digitali, i nuovi amici, nel cyberspace infinito, alla scoperta di nuovi mondi che il regista lascia alla fantasia dello spettatore… Questo è il retroterra tecnologico e anche la sottolineatura di un certo pericolo o immanente o potenziale. E gli interrogativi si susseguono su questo piano: che accadrebbe, per es., con un programma così sofisticato ed evoluto e in evoluzione? Potrebbe capitare come con Hal 9000 di 2001 Odissea nello Spazio? E che potrebbe accadere con un mondo digitale sempre più immersivo (non del tutto, ancora), tutto pieno di comandi vocali, ologrammi, realtà virtuale appunto quasi totalmente immersiva, con il perdurante ideale di trovare finalmente l’Holodeck di Star Trek?

Quali le conseguenze sulle persone (Baumann) di questo rapporto dialogante con un mondo digitale sempre più umanizzato, che sembra chiamarci come fosse una meta scontata, acriticamente “buona in sé”, senza soffermarci a riflettere sul significato,sugli strati di senso che questa corsa ci propone? Qui appare assolutamente lecito chiedersi se il concetto di evoluzione sia sempre pertinente, perché allude e testimonia di una direzionalità sempre positiva, che qui tuttavia va pensata di continuo, va interrogata, problematizzata, perché può nascondere nemmeno tanto sorprendentemente una direzionalità opposta, come per certi aspetti dipinge il film stesso.

Nel film inoltre è dipinto un mondo, dove per ogni ambito c’è un servizio, naturalmente a pagamento. Anche le lettere sentimentali, o emotivamente significative, a ricordare quel passato di analfabetismo con ricorso alla vecchia figura dello scriba col tavolino, e un po’ un presente e un futuro di analfabetismo di ritorno e anche di alessitimia, dove finisca per essere naturale e scontata la domanda:perché pensare? C’è uno che lo fa per te. Magari con comode rate mensili. E Theodore, in effetti, vive sugli altri, pensa i sentimenti degli altri e per gli altri. Non per sé, però.

E via preoccupandoci.

Nel film la solitudine è non casualmente centrale. Los Angeles è troppo linda, asettica, e appare come una specie di Blade Runner depurato: è un’altra versione di Los Angeles, ma il problema è lo stesso. Lì i replicanti, vivi e di carne, qui digitali e virtuali. Ma lo spettro dell’alienazione è in qualche modo sempre molto presente.

Tutti o quasi qui parlano con il proprio contatto telematico, e queste scene sono a mio parere tra le più incisive e memorabili del film, dal punto di vista sociale e psicologico di massa. C’è un gruppo, ma non c’è contatto, c’è una solitudine gruppale, un gruppo fatto di persone sole e non in relazione.

Queste scene paiono essere debitrici verso tutti quei film Science Fiction dove gli umani sono o ipnotizzati, o posseduti da alieni, comunque disumanizzati. Nel film l’impressione è quella che abbiamo già ora tutte le volte che vediamo uno di noi che parla al telefonino coll’auricolare: “Ma questo parla da solo!”, e l’idea che ci facciamo è di uno matto, come pensiamo siano sempre quelli che lo fanno per la strada (qualcuno innocentemente; altri, più rari, perché dialogano col “secret sharer”, col compagno segreto in forma di voce).

Ma come si può ben comprendere, qui il termine reale è molto evanescente e problematico. Realtà fattuale e realtà virtuale si rimandano e si mischiano, con affascinanti conseguenze estetiche ma con problematici risultati psicologici. Giova ripetere che la domanda su cosa succede con i programmi virtuali che aspirino a diventare persone (come un po’ in Artificial Iintelligence e in The Bicentennial Man) è effettivamente po’ fantascientifica essa stessa. Meno lo è cosa succeda con l’immersione nella Virtual Reality.

Del resto il film apre anche uno scenario differente, di rilancio umanizzante: è quello, così familiare in psicoanalisi, della possibilità di evoluzione attraverso l’incontro a due, di cui una è una voce virtuale, che tuttavia possa funzionare da elemento facilitatore o promotore di detta evoluzione. Questa è al contempo una delle idee originali del film e uno spunto di riflessione per tutti noi, anche se, a livelli meno “evoluti” tecnologicamente, gli psicoanalisti hanno già fatto esperienza clinica di certe possibilità di crescita attraverso il contatto col mondo virtuale.

Proviamo a zoomare ora verso quegli aspetti del film che paiono stimolare la riflessione più propriamente psicoanalitica.

Ripercorriamo perciò la scena iniziale, formidabile: le parole che Theodore organizza al computer su commissione sono calde ma artificiali, costruite come la vita telematica. Theodore lavora artificialmente sulle relazioni sentimentali, ma è solo e bloccato in un limbo nelle relazioni vere. E le voci poi si moltiplicano, le voci dal mondo e nel mondo, miste, ma che già suggeriscono una gruppalità individualistica che dilaga nella parola senza comunicare. Tante relazioni che non incarnano un vero contatto, relazioni non interrelate, sazie del contatto in sé, comunque sia, senza tuttavia esito davvero relazionale. Così come la scena formidabile nella metropolitana. Tutti parlano chiusi nella loro nicchia individuale. L’Altro è cancellato, fuorché nella comunicazione telematica: ma con chi? Difficile non pensare qui a una condizione che più che narcisistica ricorda invece e soprattutto quella autistica.

L’incomunicabilità tragica e fredda di certi film di Antonioni (come La Notte: http://www.spifirenze.it/it/index.php?option=com_content&;view=category&layout=blog&id=112&Itemid=532) sembra trasformarsi, cinquantanni dopo, in un’ ambigua e/o ambivalente comunicazione dai risvolti comunque problematici, che, è vero, possono condurre verso perdizioni psico-esistenziali o verso risalite psichiche potenzialmente evolutive.

Il film sottolinea con angoscia che questo futuro è già qui: viene ora visto nel’esternalizzazione offerta dalla pellicola, ma poi, inutile negarlo, ci ritroviamo noi stessi sempre di più a fare gli stessi gesti, gli stessi comportamenti non appena abbiamo a che fare con i dispositivi digitali e telematici, specie il telefonino smart sempre più “evoluto”.

Ma se zoomiamo ancora di più sulla storia e sui personaggi, il film assume anche la dimensione di un dramma relazionale classico, fors’anche di un melodramma sentimentale, che tuttavia non cessa di avere accenti sinceri, fruttiferi per noi.

Osserviamo i personaggi, per esempio: Theodore è chiaramente bloccato, non evoluto, forse in preda a un dramma da narcisismo secondario, ferito da una separazione che non matura, da un lutto che si è chiuso in se stesso, dove le capacità introspettive e creative vengono invece dirottate verso la stesura delle lettere degli altri e per gli altri.

Le donne sono ugualmente problematiche (l’amica Amy potrebbe essere in un film di Woody Allen), immature, nevrotiche, alcune con tratti scopertamente isterici, sempre irrisolte dentro, smarrite in una terra di nessuno dove sembra che, per non finire come in Afghanistan, abbiano perso identità e ruolo, e non riescano ad agganciare nemmeno la cosiddetta “quarta fase del femminismo”. Esse ruotano intorno a Theodore sempre alle prese con un mondo interiore problematico, rose da gelosie immotivate, senza interrogarsi minimamente su se stesse, talora narcisiste e pretenziose, non relazionate ma sempre misteriosamente addolorate. Lui è insistentemente incapace di esprimere i propri pensieri, perché convinto che non interessino a nessuno, che non siano ricevibili, ascoltabili, che niente valga niente davvero, e da questo deriva per lui una coriacea inesprimibilità dei sentimenti, in una depressione imbevuta di toni immaturi e vittimistici autoriproducentisi, marcati da continua ripetizione. Le scene per lui cominciano a farsi significative nei momenti di accensione mnestica, nelle scene della memoria sul passato, o quando è solo e si interroga sulla sua vita e sulla stranezza di avere una relazione con un sistema operativo.

E perché Theodore preferisce il programma? Per paura delle donne, come dice lui? Per inossidabile altruismo che è poi una difesa potente? Perché è bloccato in una immaturità non fatta evolvere, dove ci sarebbe grande bisogno di ciò che Freud ha chiamato Nachträglichkeit, e che invece non si attiva? Perché fantastica di un rapporto bello e perfetto, ma questo rimane sempre nella sua mente, come Samantha nelle sue orecchie?

Del resto l’OS1 è “un’entità intuitiva che ti ascolta, ti comprende e ti conosce” (così la sua pubblicità). E’ un sistema operativo? No, è una coscienza. Ma aggiungerei, riguardo proprio alla caratterizzazione del film, coscienza che, così come viene a lungo dipinta nel film, finisce per lavorare in interiore homine, che viene avvertita dai sensi ma allude all’inconscio.

E inoltre Her è Lei, senza volto, pronome personale senza identificazione.E’ Lei, e basta, quindi proprio per questo apre verso la fantasia, e verso soluzioni immaginative e rappresentative di vario genere, perciò anche oscure e angosciose, inquietanti. Perturba in vari modi.

Quando piano piano nasce una storia, stimolata da Lei e accettata da lui perché lei lo comprende, lo avvicina, è in sintonia (“Sento che posso dirti tutto”), Lei assume, qua e là, una specie di veste davvero psicoanalitica. E se non sul piano strettamente e classicamente terapeutico, almeno sul piano di oggetto insinuantemente transizionale, di passaggio, tra gioco e realtà.

Non perdiamoci certe sfumature che sembrano passare troppo velocemente e che invece appaiono molto significative:

L’operating system a un certo punto chiede della madre, del rapporto con la madre, che tra l’altro non sembra sia riuscita a relazionarsi adeguatamente con il figlio: “la reazione è su di sé, allora”, dice Theodore, come a riconoscere che si è sentito e si sente solo, non compreso e non pertanto riconosciuto, lasciato nel limbo della latenza senza relazione (Edipica? Primordiale?), da una madre narcisisticamente impossibilitata a contattarlo adeguatamente, come poi pare sia accaduto nella relazione con la moglie Catherine, bisognosa lei in primis.

Theodore è rimasto profondamente (ma inconfessatamente) deluso dalla relazione con la moglie, e dopo la separazione si è ritirato in se stesso; anche la moglie del resto non sembra essere stata tanto contenta. Su di loro una verità la dice l’amica Amy: Catherine, la ex moglie, dava sempre la colpa a lui ed era di umore mutevole, e lui passivamente accettava questa versione, che si tingeva di tenui colorazioni sadomasochistiche . Emerge mi pare il suggerimento di una relazione tra una personalità isterica e una passivo-immatura: difficile pensarla duratura o appropriata.

A volere premere sulle congetture analitiche, per Theodore potremmo ipotizzare un incompleto sviluppo del Sé e della propria identità a causa del perdurare dannoso di dipendenze infantili che la vicenda coniugale ha fatto esplodere ed ha esacerbato, ma che non possono essere fatte evolvere soltanto dal soggetto medesimo. C’è bisogno di un Altro che aiuti il pensiero, che è proprio ciò che accade durante una psicoanalisi: non consigli, non suggerimenti o vicariamenti inutili e immobilizzanti, ma un aiuto al movimento interiore, allo sviluppo della propria personalità. Un incisivo e affascinante esempio è dato per es. da Ogden con la reinterpretazione della storia evangelica dell’Adultera (Ogden T. (2010) “On Three Forms of Thinking: Magical Thinking, Dream Thinking, and Transformative Thinking” Psychoanalytic Quarterly, 79:317-347).

Questa, per inciso, è anche una delle ragioni per cui alcuni pazienti s’inducono a mollare la presa della terapia, quando cioè si accorgono che l’analista non funziona come loro inconfessatamente vorrebbero, pur smentendo tutto questo con insistenza e apertamente: negano di volere direttività e dipendenza, ma poi la cercano e s’impauriscono della possibilità contraria, di una libertà che fa loro paura, che implica l’interrogarsi profondamente, andare verso i propri nuclei incandescenti e affrontarli. Allora fuggono e sfuggono, con la complicità dell’ingravescente paura di approfondire i problemi personali, con la superficializzazione della propria problematica, in questo facendosi davvero un cattivo servizio, sprofondando infine in una dimensione orizzontale dannosa, perfino pericolosa, in cui spesso “se la raccontano” affabulandosi.

Theodore tenta allora di ritrovare in se stesso una voce dialogante, un Altro in se stessi cui raccontare e con cui muoversi. Pensa di averlo trovato in Samantha, che passa da un sistema operativo a una forma di personalizzazione tale da avere un nome, una personalità in evoluzione, il desiderio di una storia. Alla fine anche Samantha non può bastare, e non solo perché Lei si proietta in un altro mondo. E’ che Lui ha bisogno di un’altra voce, di un’altra presenza, come il paziente nella diacronica relazione con l’analista. Lei può funzionare solo come trampolino di lancio. Ma inevitabilmente è una relazione deficitaria, perché troppo impregnata di solipsismo alla fine autoerotico, e incarna una fase di sviluppo psicogenetico ancora non completamente maturo (a voler usare una modellistica freudiana classica).

Samantha, mentre si serve del rapporto con Theodore per trovare una propria strada, foss’anche dilagante nel cyberspace, funziona da ponte evolutivo: è un altro-da-Theodore che permette a quest’ultimo di scoprire l’esistenza di un proprio mondo interiore, finora sconosciuto o negletto, e di potersi proiettare così verso una relazione maggiormente adeguata.

Non dobbiamo infatti dimenticare che OS1/Samantha dice che lavora sull’intuizione: quindi sul contatto con l’altro, sul sentire l’altro, empaticamente. Ancora una volta, possiamo pensare a Lei come a un’entità che serve per accompagnare, per far evolvere, come, in effetti, accade con il mondo digitale in molti resoconti clinici della psicoanalisi (per es. in certi articoli di Gabbard (2001) o di Dryer, J.A., Lijtmaer, R.M. (2007).

E quando lui guarda le altre persone che escono dalla metro e parlano persi nel Cyberspace, comincia a interrogarsi seriamente sulla differenza tra uomo e macchina. E pare comprendere che le differenze possono essere definitive. Mondi diversi, ben più che quelli stabiliti dalla barriera filogenetica uomo-animale. E’ impossibile il rapporto interumano trasferito nella digitalità: così il rapporto emotivo reciproco non può accadere (Questo tra l’altro ci dice qualcosa anche sulle patologie da Internet).E ci dice anche che certi rapporti devono trasformarsi, chiudendo una dimensione e iniziandone un’altra.

Non a caso l’evoluzione di Theodore si attiva quando si accorge che Lei non è conservabile eternamente, che va per conto suo (anche in modo un po’ egoistico, certamente), che è una entità individuale, non simbiotica o addirittura fusionale. Che esiste la separazione, o la relazionalità in altre modalità e non soltanto la relazione narcisistica; che la dualità indivisa o incompiuta non può reggere se si vuole accedere a rapporti più maturi.

Alla fine però, manca il carburante psichico e relazionale per continuare adeguatamente sempre in uno stesso modo. Qualche critico ha ironizzato sul fatto che il film convergerebbe “soltanto” verso la morale sociale in cui c’è bisogno di più dialogo, invece di stare sempre sui social networks: bisognerebbe parlarsi di più, e via banalizzando.

A parte il fatto che questa “avvertenza” del film non mi pare da poco, vista la tendenza attuale, questa critica appare anche piuttosto riduzionistica. Il punto non è quello edificante di invitare le persone al dialogo, inneggiando ai buoni sentimenti e finendo sulle veline dei Baci Perugina, è qualcosa di più complicato e analiticamente interessante. E’ la sottolineatura della necessità di ritrovare una scintilla relazionale che estragga dalle sabbie mobili di un’immaturità ripiegata su se stessa, da un’infantilità che non sa esprimere il proprio mondo emotivo interiore verso la capacità di “salire sul tetto”, con un essere umano, e cominciare a esperire la propria umanità, comunque vada. E se Her si dimostra anche egoista (o semplicemente non può dire di no alla spinta evolutiva), questa condizione trova Theodore diverso rispetto alla delusione coniugale: è già pronto per attraversare la separazione, anche se molto dolorosa. L’inquietudine che si percepisce nella scena finale, e che per tutto il film si è di volta in volta agganciata alla tecnologia, alla solitudine, all’immaturità, alla disumanizzazione, credo ora derivi dal fatto che da quel tetto non si apre un futuro edulcorato, ma incerto, vago, sconosciuto, eppure più umano, e non perché c’è dialogo, ma perché c’è un’energia differente, una disponibilità diversa dentro i due protagonisti.

Febbraio 2015

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