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Secchi C. (2012). Il silenzio turbato dell’analista davanti a una perdita del divino.

Tavola rotonda, 6 ottobre 2012. “Psicoanalisi e fede s’interrogano sul silenzio”

 

C.P. F. – Convegno su “IL SILENZIO IN PSICOANALISI” – 6 Ottobre 2012 Il silenzio turbato dell’analista davanti a una perdita del divino

 

Luca, un compositore di 38 anni, dalla fisionomia austera e vagamente ascetica, chiede l’analisi per un diffuso disagio esistenziale che l’accompagna da tutta la vita, esacerbandosi in alcune specifiche circostanze con un’espressività sintomatica che oscilla tra uno strisciante stato depressivo e una serie di somatizzazioni (in prevalenza cefalee).

Figlio unico, orfano dall’età di 10 anni di un padre “forte”, serioso e molto idealizzato (con una madre affettuosa e presente, ma, dopo la vedovanza, apprensiva, piuttosto “gelosa” ed estremamente devota), è sposato da alcuni anni con una compagna di conservatorio: la coppia è senza figli – figli che il paziente desidererebbe ma nello stesso tempo teme di avere.

Luca ha una concezione solenne e severa del comporre in musica al punto che gli capita sovente, specie nella fase finale del processo creativo, di entrare in una tormentosa spirale, dalla quale, affranto ed esausto, stenta a liberarsi. Egli vive una dimensione di fede analoga, per intransigenza e rigore, a quella del suo rapporto con la musica: documentato sulla ricerca teologica e sull’esegesi biblica, è da sempre impegnato in esperienze comunitarie (letture, ritiri, convegni, frequentazione di direttori spirituali) e in attività di volontariato all’interno delle organizzazioni ecclesiastiche.

Dopo un primo periodo di diffidenza verso l’approccio critico e demistificante dell’analisi, il paziente a un certo punto si decide a portare in seduta le proprie tematiche religiose, soffermandovisi anche a lungo e allargandosi in varie direzioni: in linea di massima, Luca, soprattutto all’inizio, sembra dominato dalla fantasia di un Dio come Padre intransigente e vendicativo da Antico Testamento (da placare e controllare con un inesauribile attivismo), alquanto legato alla figura del padre storico. Parallelamente, si direbbe che l’esperienza religiosa sia un momento centrale nel percorso esistenziale del paziente: agli occhi del terapeuta, agnostico da più di trent’anni, essa si costituisce come una fervida ricerca del divino fondata su un presupposto epistemofilico. Un’autentica ricerca della verità. Tale problematica si interseca e si sovrappone ad altre vicende relazionali del mondo interno di Luca. A questo proposito, la costellazione transferale portante consiste in un’accentuata idealizzazione, non scevra da rabbia e invidia, del terapeuta e della sua funzione che il paziente esperisce come cimento estremo, come implacabile messa alla prova delle sue risorse: questa fantasia si configura come una variante laica (e sostanzialmente sadica) della parabola dei talenti, secondo cui l’analista ha sconfinate aspettative sulle potenzialità e sulla creatività del paziente che deve dimostrare di saperle mettere a frutto al massimo grado.

Dopo alcuni anni di lavoro in seduta Luca prende ad allontanarsi dalle abituali pratiche religiose: pur mantenendo una certa deferenza nei confronti della Chiesa come istituzione e delle iniziative svolte nel suo ambito, il paziente diviene più isolato, più assorto, più per conto proprio, anche per quel che concerne i momenti di devozione; un analogo cambiamento sembra estendersi ai rapporti personali (colleghi di lavoro, amici, ma soprattutto la moglie) e all’attività di compositore, che a un certo punto si concentra soprattutto sullo studio degli oratori e le cantate di J.S.Bach – un autore molto amato dall’analista che ha una formazione musicale di tipo amatoriale – e della musica religiosa contemporanea. In particolare, Luca si sofferma ripetutamente sul recitativo n. 64 della Passione secondo Matteo di Bach. «Sul calar della sera, quando l’ora era più fresca, la caduta di Adamo fu palese; di sera lo avvilisce il Salvatore. Di sera ritornò la colomba portando in bocca una foglia d’ulivo. O bel momento! O ora della sera!».1 Il paziente ragiona a lungo e con passione su quella che gli sembra l’essenzialità del brano e la formidabile tensione interna alla materia musicale che aderirebbe perfettamente alle parole di Picander. E si addentra in intricate cabale di linee melodiche, accordi armonici, cambiamenti di tonalità, eccetera, seguite solo in parte dall’analista. Questo è a grandi linee lo sfondo della seguente vignetta clinica.

In apertura di una seduta della fase di terminazione dell’analisi il paziente dichiara di aver toccato il fondo dello sconforto. Non si riconosce più nelle sue relazioni affettive di lunga durata e sente di doversi radicalmente ridefinire come musicista col timore di non riuscire a trovare nuove identità e nuove forme espressive; infine, paradigma dello sconcerto e della confusione del momento è l’impressione di stare perdendo la fede. «Un dato così sicuro, così solido che ha da sempre riempito e guidato la mia vita». Dopo qualche laconica considerazione, Luca si chiude in un cupo silenzio che si protrae per una ventina di minuti. Per quanto simili dichiarazioni siano già circolate in passato, questa volta la stanza parrebbe progressivamente e inopinatamente invasa da un’oscura atmosfera di solitudine e perdita, percepita dall’analista quasi sensorialmente come vuoto, mancanza, una specie di “freddo” da tagliarsi col coltello. Tale clima si diffonde addosso e dentro all’analista, che ne è via via turbato. C’è un climax di Assenza che aumenta sempre di più, fino a una sorta di salto che fa mutare lo statuto fenomenologico dell’esperienza controtransferale: da quella che parrebbe in prima istanza una reazione emotiva intensa, ma nei parametri più o meno consueti di una seduta – con uno sguardo di “benevola neutralità” su una questione cruciale – l’analista piomba in uno stato d’animo di disperazione “metafisica”: come se all’improvviso si fosse stagliata davanti ai suoi occhi, quasi in una rivelazione, la Gestalt del Ritrarsi di Dio, con un oscuro terrore per l’enormità dell’evento.

In altre parole, in quel frangente al terapeuta sembra che il senso di abbandono, che l’analizzando gli ha trasmesso, abbia davvero assunto dimensioni cosmiche, analista incluso, con un immediato sbigottimento, per non dire un timore reverenziale, quale si può provare di fronte a un’epifania, a una Verità Folgore (per usare l’espressione di Foucault). Ovvero, la risposta emotiva dell’analista si è in certo modo ampliata, oggettivata e universalizzata: egli sperimenta per qualche istante – l’acme di questo stato d’animo dura una manciata di secondi – il paradosso di una Presenza assente, di un Oggetto trascendente che se ne è proprio andato, lasciando lì da soli, il paziente e lui stesso, nella loro perentoria piccolezza, finitudine e vulnerabilità.

Per giunta, l’analista ha la sensazione che, al di là della menzionata credenza di realtà, sia pure in gioco un sentimento di riconoscimento, che gli si sia presentato qualcosa di specificamente indirizzato a lui, quasi che il suo destino si compia lì e ora, travolgendolo, mettendolo del tutto a nudo, senza filtri, né strumenti di conoscenza o di difesa.

Questo stato d’animo, con l’impressione di abbagliante evidenza che l’accompagna, lascia l’analista costernato, col fiato mozzo, in certo modo “schiacciato”: come davanti a una prova ontologica di Dio, esperita per un attimo in corpore vili e subito irreversibilmente perduta. Nel cercare di fronteggiare e magari metabolizzare questo vissuto così insolito, egli fatica a ricollocare il tutto nelle tradizionali coordinate e dinamiche del processo analitico. È soltanto in campo il venir meno di un Oggetto Idealizzato trasmesso attraverso una penetrante comunicazione emotiva che rischia di indurre una risposta a cortocircuito nell’analista? E ancora: in cosa consiste la sostanziale funzione per il Sé svolta da questo Personaggio, che a un certo punto si sottrae? E come si configura nel descritto scenario il terapeuta, in apparenza investito collateralmente, con l’attenuarsi dell’asimmetria, che postula la situazione di due orfani scaraventati nel deserto? E che tipo di fantasia comune si sarebbe attivata attorno al rapporto con la musica e con le sue implicazioni? Una reciproca “seduzione”, che l’approssimarsi della fine dell’analisi tramuta in un intollerabile e destrutturante strappo? Al di là della difficoltà a formulare qualche ipotesi, l’analista ritiene che in ogni caso ci sia molto di più. Né osa, date le circostanze, rifugiarsi in ovvietà “psi” che non solo gli sembrano riduttive, ma lontanissime, irreali. Nel frattempo il paziente rimane sempre in silenzio, asciugandosi di tanto in tanto una lacrima col dorso della mano.

L’analista, sempre anche lui in silenzio, impegnato a risalire la china del suo sconcerto, è combattuto tra la necessità di rispettare questa pena con le sue risonanze “infinite” e l’urgenza di segnalare la propria presenza, per quanto modesta e nel detto orizzonte puntiforme. Quasi in un sussurro, il terapeuta rompe il lungo silenzio e tenta di descrivere come può, quasi balbettando, la speciale atmosfera che gli sembra aver invaso la stanza d’analisi: riprendendo il testo del Picander prima citato e qualcosa del commento musicale compiuto dal paziente, l’analista mette in risalto l’aspetto fondante della separazione e della perdita, con tutta la nostalgia implicita (l’ora cruciale del dolore vespertino), che, nondimeno, una volta che si sia riusciti ad assumerne fino in fondo la portata, riapre alla speranza e rilancia al futuro (la comparsa della colomba, derivato indiretto e simbolico di essa).

L’incontro si conclude alcuni minuti dopo senza nessuna replica da parte di Luca. Né l’argomento è ripreso nelle sedute successive. Diversi mesi più tardi, poco prima della conclusione, il paziente, che si è poi separato dalla moglie, sembra essersi in gran parte riconciliato con la fede (una fede più triste, più riservata, più solitaria rispetto al passato), – senza parlarne con l’analista – e, ricordando la sequenza prima descritta, afferma di aver apprezzato tanto nel silenzio che nel breve intervento del terapeuta la testimonianza di una presenza solidale: in quel momento di disperazione si era, cioè, sentito un minimo meno solo. Luca aggiunge, inoltre, che durante l’esperienza di quella seduta gli sembra di essersi maggiormente avvicinato alla «sua» verità: come se la sua mente potesse «contenere una maggiore quota di realtà, per quanto molto penosa».

 

Innanzitutto, merita di porre una volta in più l’accento sull’insolita qualità fenomenologica dell’esperienza vissuta dall’analista nel corso di questa vignetta clinica, che richiama quello stato d’animo definito da Di Chiara (1990) «stupita meraviglia»: si tratta di «un affetto forte e primordiale, che … nasce dalla più precoce interrelazione tra gli umani … ha la capacità di estendersi al mondo animato e inanimato e diventa forse il motore di quella vivace curiosità dei bambini e della loro spinta a esplorare il mondo» (445). E a proposito dell’importanza di integrare questa parte di Sé l’autore asserisce: «…la mente primitiva, quando viene recuperata, nel momento dell’esperienza che la ritrova, riconosce e riammette nel mondo interiore, mostra sicuramente la sua caratteristica di appartenere all’animale uomo-primitivo, sensibile e attento all’incontro con l’altro ai livelli basici, ma insieme disorientato, fragile, reattivo» (455, cors. aggiunto).

In tale cornice la scena/fantasia che nel mezzo di questo lunghissimo silenzio si è imposta, saturando il campo percettivo del terapeuta, pare avere alcune delle prerogative formali del processo primario, del modo di funzionamento dell’inconscio; innanzitutto, c’è una sospensione del principio di non contraddizione (la Presenza Assente) e una contrazione/sovrapposizione temporale di passato, presente e futuro (Dio si rivela nel qui e ora come un’Entità che c’è stata, ma ora non c’è e non ci sarà mai più); inoltre, la perdita è per così dire esperita a un elevatissimo livello quantitativo: sarebbe quasi l’Idea platonica della Perdita, dove convergono e si generalizzano, con i timori relativi, molte altre perdite (esterne e interne), le quali pervengono a un grado di intensità estremo, outré. In seconda battuta, l’analista ripensa ai lutti del paziente nonché ai propri (presenti e passati)

Dal punto di vista dei contenuti, la scena in questione sembra avere qualcosa di molto arcaico: come se un bambino piccolo e impotente sentisse venir progressivamente meno l’abbraccio genitoriale e percepisse passo dopo passo l’angoscia di cadere nel nulla o quantomeno di sperimentare un radicale smarrimento, mentre l’Oggetto Primario tanto importante e tanto investito si va a collocare in un’Altra e Inattingibile Dimensione Spazio-Temporale. Con un’ulteriore sottolineatura della separazione, dato che anche “prima”, nella fantomatica fase della sua presenza, tale Oggetto era ben Distinto e Separato dalla coppia analitica. La sua essenza sarebbe quella di una Figura onnipotente e onnisciente, misteriosamente e severamente attiva nel disegnare il destino umano, unica e imprescindibile erogatrice di senso: forse con una commistione di funzioni materne (nella presenza e nel sostegno) e paterne (nella mansione ordinatrice e giudicante). C’è altresì la figura del Gemello, del Doppio, – il paziente e l’analista entrambi ugualmente derelitti e lasciati soli – che, determinatasi in conseguenza alla descritta imago di Dio, introduce un altro elemento perturbante, tra narcisismo e differenziazione, forse con un’implicazione difensiva verso la radicalità e l’asprezza del confronto con l’Assoluto.

Ciò nondimeno, nel momento dello smozzicato intervento del terapeuta (una sottolineatura più che un’interpretazione), nonostante egli si senta tuttora subissato dall’atmosfera “metafisica”, è forse ravvisabile un parziale ripristino dell’asimmetria.

La scena “luterana” di Abbandono Totale che si ribalta in Speranza Suprema potrebbe essere stata in qualche misura dimensionata dall’analista e comunque riconvogliata nelle coordinate (rigorosamente limitate e “finite”) della cornice analitica: il terapeuta cerca di riproporla come vicenda interiore centrata su una perdita forse non così definitivamente persecutoria e su speranze/bambini simbolici altrettanto circoscritte. Lasciando sospese le questioni ultime.

È stato il paradosso di questa sequenza: in quella sede io ero l’analista che come tale era tenuto a comportarsi e che ha forse provato a farlo, appellandosi in sé e nell’altro alla funzione laica ed “etica” della ragione psicoanalitica: stare lì assieme a cercare, fin dove è possibile, di fronteggiare e di capire il dolore psichico. Eppure, tra i tanti strati di significato, il suo vissuto controtransferale sembrava suggerirgli che il senso principale in gioco trascendesse la situazione analitica stricto sensu e coinvolgesse proprio le questioni ultime. Come potevano eventualmente declinarsi nel Sé tra rifondazioni dell’esserci, da un lato, e, dall’altro, parafrasando Rizzuto (1977), soluzioni integrative in chiave religiosa massimamente evolute.

Vorrei concludere per sottolineare che per il soggetto che la sperimenta un’esperienza come quella descritta – capitatami con questa intensità un’unica volta nella mia vita professionale – è qualcosa a cui si dà un credito speciale, che si prende molto sul serio e che in certo modo lascia il segno.

BIBLIOGRAFIA

Di Chiara, G. (1990) La stupita meraviglia, l’autismo e la competenza difensiva, Rivista di Psicoanalisi, XXXVI, 2, 441-457.

Foucault, M. (2003) Il potere psichiatrico. Corsi al Collège de France (1973-1974). Milano: Feltrinelli 2004.

Rizzuto, M. (1977) La nascita del Dio vivente, Roma: Borla 1994.

1 Am Abend da es kühle war, ward Adamsfalle offenbar. Am Abend drücket ihn der Heiland nieder; am Abend kam die Taube wieder, und trug ein Oelblatt in dem Munde. O Schoene Zeit! O Abendstunde! (tr. di Quirino Principe).

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