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Badoni M. (2006). Incontro al transfert

Testo presentato ai SEMINARI CLINICI 2006 DEL CENTRO PSICOANALITICO DI FIRENZE sul CONTROTRANSFERT, Accademia Toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”, Via S. Egidio 23/1 Firenze – Sabato 1 Aprile 2006

“Ancora. Un poco di sè emerso. Da qualche
parte emerso. Dapprima lo spirito solo. Un pò di
spirito soltanto. Peggio poi emerso anche il
corpo. Anche un po’ di corpo. Si che alla fine gli
occhi non invitati s’aprano”
S. Beckett da ” Soffitto” in: Per finire ancora

Quando mi è stato chiesto di partecipare a questi vostri incontri vi ho inviato un mio lavoro sul transfert e, in particolare, su aspetti primari e primitivi del transfert che mi hanno indotto a parlare di transfert tirannico. So che voi avete impostato le vostre riflessioni sul controtransfert; mi è parso allora utile guardare al mio materiale da un altro vertice: ho scelto per queste riflessioni il titolo di “incontro al transfert”.

Mi sembra in effetti difficile, dopo Bion, limitarsi alla dialettica transfert/controtransfert senza interrogarsi sul lavoro di trasformazione che avviene nella mente dell’analista quando entra in contatto con il paziente e quindi anche col suo transfert. Transfert del paziente sull’analista, ma anche dell’analista sul paziente. A partire dalla funzione alfa e dal valore comunicativo attribuito da Bion alla identificazione proiettiva, andare incontro al transfert segnala una inevitabilità, ma anche una disponibilità, da parte dell’analista, a fare i conti con la proprie trasformazioni, eventualità che mi sembra più ricca di spunti rispetto al problema del controtransfert, sia che esso venga inteso come bussola orientativa ai fini del formulare l’interpretazioni, sia che venga considerato come ostacolo nella comprensione del paziente; il termine “funzione alpha”, che informa la reverie materna, compare per la prima volta in “Cogitations” (Lopez-Corvo, 2005), essa presume una serie di passaggi che, seguendo Bion sono: prestare attenzione alle impressioni sensoriali, conservarle nella memoria, mutarle in ideogrammi, e, a seconda del principio che domina l’attività mentale, trasformarli in ricordi o espellerli; andare incontro al transfert significa quindi che non solo non si può fare a meno di incontrarlo, ma neppure, incontrandolo, di seguirne gli accadimenti.

Se la funzione alfa è ben stabilita, in altre parole se la madre è capace di reverie, avverrà una trasformazione a partire da dati sensoriali ed emotivi (elementi beta) in alfa, essi andranno a costituire una barriera di contatto tra conscio e inconscio, capace di produrre pensieri.

Ecco perchè mi piace pensare a come andare incontro al transfert, piuttosto che al controtransfert.

Quest’ultimo termine è infatti in qualche modo guerriero, sia che lo si idealizzi come strategia per capire quanto succede nella mente del paziente, sia che lo si stigmatizzi come baluardo che impedisce al paziente di avvicinarsi. Mi paiono assai opportune in proposito le seguenti riflessioni, tratte da un lavoro gentilmente inviatomi da Stefania Manfredi Turillazzi e credo, non pubblicato:
“Il controtransfert è un ingrediente ineliminabile delle nostre interpretazioni. Usarlo è inevitabile anche se non ne siamo coscienti. Capire coscientemente come possiamo usarlo di deliberato proposito per costruire o scegliere le nostre interpretazioni al paziente, è incerto o comunque difficilmente possibile, se prima non lo abbiamo usato per capire noi stessi e non soltanto noi stessi in quel momento” (sottolineatura mia).

Ritorno così all’inizio del mio precedente lavoro (Badoni, 2005): “L’idea di riflettere su questi temi costituisce un tentativo di organizzare un pensiero attorno a esperienze cliniche particolarmente intense e faticose. Ho vissuto queste esperienze a volte con pazienti adulti, più sovente borderline, ma, nella forma più costante, intensa e di lunga durata le ho incontrate nel trattamento analitico di bambini. Nella forma più devitalizzante e insidiosa essa mi è apparsa nel trattamento dell’autismo infantile, laddove la persona del terapeuta è, nello stesso tempo, colonizzata e negata. Non è tuttavia a quadri di autismo che intendo riferirmi in questo lavoro.

A connotare questo tipo di situazione stanno una serie di indizi, che potremmo chiamare indizi di controtransfert, che ora cercherò di sondare e di descrivere: l’analista prova un sentimento angosciante di oppressione, spesso accompagnato da tensione a livello muscolare, sente compromessa la sua capacità di pensiero, si sente anzi espropriato di un funzionamento mentale in grado di trattare gli accadimenti della seduta e di dar loro un senso: è in balia della concretezza del corpo, a rischio di agire concretamente l’ansia, ma il suo stesso corpo è diventato alieno, altro, indecifrabile: non solo esso non è di nessun aiuto, ma costituisce un ingombro. Mi sono pertanto interrogata sul significato di questi indizi e a che tipo di accadimenti psichici essi corrispondessero. Infatti, l’avvertire che questo doloroso e persecutorio sentimento di impotenza ha qualche cosa a che fare con comunicazioni molto primitive da parte del paziente non basta, perchè l’analista sa o impara che la scommessa è ora, prima che tra sè il paziente tra sè e sè. Infatti, la pressione a che l’analista agisca è in questi casi assai forte: è necessario in primo luogo poter resistere a questa pressione, tenersi ancorati alle proprie percezioni nella speranza di poter comprendere in che regime si stia lavorando.

Due autori di matrice culturale assai diversa, Piera Aulagnier e Wilfred Bion, si sono occupati specificamente degli accadimenti che originano dall’incontro madre/infante. La riflessione di questi autori va ben oltre il campo originario di osservazione, lasciandoci una eredità di pensiero importante sia per la comprensione delle psicosi come per i modi dello strutturarsi della mente. Aulagnier, attiva in Francia e vicina al pensiero di Lacan ha mostrato (1985) come una vera e propria attività interpretativa stia all’origine di questo incontro: il corpo dell’infante viene interpretato dalla madre; l’autrice ritiene vitale che la vita somatica abbia un suo “biografo”, il cui compito è di inscrivere ogni corpo in una propria storia.

Il passaggio da un corpo sensoriale a un corpo relazionale permette alla psiche di ritenere le funzioni somatiche un messaggio e di leggere, nelle risposte date dall’adulto, nel ritorno di messaggi, la fondatezza delle proprie percezioni. La madre certo (e per madre si intende anche il contesto familiare e culturale), prende dei rischi e il suo discorso interpretante in quanto portatore di messaggi familiari e culturali, contiene un certo grado di violenza. Il soggetto infante non è tuttavia un recettore passivo del discorso materno, e la madre scopre ben presto che non è sola a decidere il luogo in cui la situa il suo bambino nella relazione che li vincola. In condizioni normali la madre è infatti capace di ricevere la novità originale che il neonato porta con s?e di adattarvisi. Rispetto a Bion nella riflessioni di Piera Aulagnier sembra essere più pregnante e più attiva la presenza materna, là dove il discorso materno della Aulagnier è “fisiologicamente” interpretante a partire dalla propria soggettività, la reverie di Bion presume una madre disposta a accogliere e a trasformare, ma non si deve dimenticare che nel fare questo la madre mette inevitabilmente in gioco la sua persona, la sua storia, le sue identificazioni.

Quello che ci interessa ai fini di queste riflessioni è, riprendendo il discorso della Aulagnier, che se la relazione madre infante non funziona sufficientemente, il corpo tende a diventare il rappresentante dell’Altro e del suo potere e la relazione non è più tra due soggetti, ma tra il soggetto e il suo corpo. Gli accadimenti somatici, svincolati dal loro interprete, assumono tinte persecutorie, o obbligano il paziente a confinarsi nelle proprie sensazioni, o a trattative estenuanti con un corpo fatto tiranno, percepito come un covo di brutte sorprese. E’ questa modalità privata di relazione col proprio corpo che viene trasferita nella relazione analitica ed è per questo che parlo di transfert tirannico.

La tirannia del transfert segnalerebbe quindi un difetto di presa in carico della soggettività corporea dell’infante ed è particolarmente presente, oltre che nei bambini che arrivano alla nostra consultazione, nei pazienti borderline, per una sorta di rottura consumata con l’esperienza della corporeità, propria ed altrui. (“alessitimia” o incapacità di lettura delle proprie sensazioni-emozioni)
Sia la reverie di Bion, sia il discorso materno, per come la Aulagnier lo intende, possono essere visti, a mio parere, come modalità di andare incontro al transfert. (o di regolare il proprio transfert verso il paziente). Durante un seminario in Brasile Bion affermava che un’analista può tutto al più seguire i suoi sentimenti come indicatori, ma non il controtransfert, in quanto esso è inconscio. E, (seminari di Rio de Janiero) Bion scriveva: “The theory about a countertransference is that it is the transference relationship which the analyst has to the patient without knowing he has it”.

Non è da meravigliarsi che in una relazione così marcatamente instabile come è quella che Bion descrive tra analista e paziente, Bion stesso (1970), sulle tracce del poeta Keats, introduca la “Capacità Negativa”: “capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze, attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare a una agitata ricerca di fatti e ragioni”. Siamo, come si vede molto lontani dall’uso del controtransfert come bussola. Al suo limite estremo credo di poter dire che la capacità negativa abbia a che fare col tollerare di sentirsi negato non solo il proprio funzionamento, ma anche il sentimento del proprio esistere. E’ questa esperienza estrema che mi ha fatto pensare alla tirannia.

Perchè tirannia? Perchè in questi casi quello che tende a essere messo in campo è una lotta di potere il cui esito potrebbe essere si, catastrofico, nel suo duplice significato di tragicità e di inversione di rotta, di cambiamento. La lotta è tra azione e pensiero, tra azione e un pensiero atto a raccogliere l’agire e a trasformarlo. Così rileggendo il mio lavoro mi sono resa conto che esso può essere considerato nel suo insieme un tentativo di andare incontro al transfert tirannico, cercando di sopravvivere e trovando un linguaggio opportuno. La capacità negativa, come capacità di sostare senza agitarsi ed agire, implica un riassetto della relazione che il soggetto intrattiene col proprio corpo, sulla possibilità di trasformazione beta/alfa – dati sensoriali immagini. E’ l’emergere, come dice Beckett, del corpo… “si che alla fine gli occhi, non invitati, s’aprano”.

Forse, abituati come siamo a privilegiare, tra i sensi, l’ascolto, siamo piuttosto refrattari ad invitare gli occhi e gli altri sensi alla mensa analitica, eppure il materializzarsi del paziente nel nostro spazio attiva lo sguardo prima dell’ascolto, lo chiama di nuovo in causa mentre si ascolta. Questa entrata in campo, spesso non invitati, dell’occhio e degli altri sensi, è per Bion ingrediente primo per instaurarsi della funzione alfa, ed è tanto più pregnante quanto è stata deficitaria la capacità della madre di farsi interprete del corpo dell’infante.

Bion fa riferimento al tipo di linguaggio cui ricorrere per affrontare il conflitto tra pensiero e azione: “the language of achievement”:si tratta di un linguaggio che sta tra il fare e il dire e che avrebbe a che vedere (Racalbuto, 1994) con quelle “malattie di rapporto” o “malattie di passaggio”, dove il passaggio, tra bios e psiche, è quello che fonda l’unità psicosomatica. (ibid. pag. 110). La fortuna che ha avuto il termine di rèverie è a mio parere legato al fatto che Bion, introducendolo, è riuscito a comporre una frattura che sembrava destinata a rimanere aperta, tra intrapsichico e intersoggettivo. Tra la teoria del sogno e quella del trauma.

La reverie non è il controtransfert, ma è una attività trasformativi innescata, nell’analista, dall’incontro col transfert (direi anche col mescolarsi del transfert pz/an e analista paziente). Essa richiede un suo timing, una artigianale dimestichezza con gli accadimenti psichici, una capacità di regressione fino a toccare primitivi stati del corpo. Essa si organizza, come ricorda Bion, non tanto sul controtransfert che è inconscio, ma sul sentire dell’analista, su un sapere indiziario: parlo quindi di indizi di controtransfert e non di controtransfert.

Occorre ricordare il primo Freud (Freud, 1895, p.222). Nel Progetto, Freud parla infatti di una “funzione dell’intendersi”: essa comporta una alterazione del mondo esterno che è chiamato a venire in soccorso a un “organismo umano” che non è in grado di farlo da sè Cito: “Essa (l’azione specifica = quella che risponde a un bisogno dell’infante) viene attuata mediante un aiuto esterno, quando un individuo maturo viene indotto a fare attenzione (sottolineatura mia) alle condizioni del bambino mediante una scarica lungo la via della modificazione interna. Tale via di scarica acquista pertanto la funzione secondaria molto importante dell’intendersi, e l’impotenza iniziale degli esseri umani è la fonte originaria di tutte le motivazioni morali” (sottolineature mie).
Vorrei sottolineare alcuni aspetti relativi a queste affermazioni. Seppur competente il bambino umano ha assoluto bisogno di un “individuo maturo”, non adulto solo,ma maturo, consapevole della propria storia, del proprio ruolo, capace di un proprio pensiero; l’individuo maturo è indotto a fare attenzione, il corpo dell’individuo maturo è alterato da questa vicinanza; l’insieme di questi accadimenti avvia una funzione: intendersi, quanto dire, come dice il vocabolario, “percepire e comprendere, che sono in certo modo l’effetto del tendere l’attenzione”.

E’ al corpo che si rivolge in primis la rèverie materna.
La strenua lotta di questi pazienti è lotta per il diritto a essere riconosciuti e quindi, a potersi riconoscere e muovere nel mondo. “Le sensazioni di origine fisica minacciano a tal punto di sopraffare l’individuo che non solo la sua sanità,ma la sua stessa esistenza sono sentite come sottoposte a un assedio” (Ogden, 2001, p.90). Quello che viene sconfessato è l’atteggiamento intenzionale (Vallino e Macciò, 2004) del bambino; si produce così un vissuto persecutorio la cui posta in gioco è una lotta per vedersi riconosciuto il diritto ad esistere. Parlo dunque di transfert, perchè intendo mostrare le vicissitudini di questa relazione, tra il soggetto e il proprio corpo, e le sue ricadute nella pratica clinica. Ciò che viene trasferito ha a che fare in primo luogo con una lotta di potere tra corpo e mente. Come andare incontro a questo tipo di transfert? Direi che il compito dell’analista è quello di trovare lo spazio mentale sufficiente per poter avviare un lavoro di trasformazione, dunque lasciar errare gli indizi di controtransfert.

La sensazione di non esistere o di avere perso la propria mente è infatti in questi casi per l’analista l’unico segnale di cui disporre. Tuttavia l’analista è presente e deve cercare di sopravvivere, come Winnicott ci ha insegnato e come è necessario se il compito è quello di Re-mind the body (restituire la mente al corpo – Ogden, 2001).
Il lavoro analitico dovrà qui prima di ogni cosa fondare uno spazio, promuovere il riconoscimento di un limite, ridare al paziente la fiducia nella propria capacità di comunicare.
Il sovvertimento del setting indica che questo spazio è minacciato: è allora sul proprio assetto, ivi compreso l’assetto corporeo (altrimenti non si potrebbe parlare di feeling, del sentire) che l’analista deve lavorare.

“Private”
“Private” è il titolo inglese di un film italiano di Costanzo, che mi ha molto colpito: racconta la vita di una famiglia palestinese nei territori occupati. Quello che mi ha colpito e che mi induce a parlarne qui è il sentire come vi si rappresenti l’incontro di due follie: da un lato la follia che minaccia continuamente una famiglia così dolorosamente colpita nella necessità essenziale di uno spazio privato in grado di proteggere i propri legami e la stessa esistenza psichica e fisica, dall’altro la follia di chi, per adempiere a un ordine e agire, perde i nessi con il proprio spazio privato e così facendo non è più in grado di leggere nè la realtà propria, nè l’altrui; i primi sono tiranneggiati da un’intrusione insensata quanto violenta, i secondi, per non soccombere a una frammentazione del sè devono arrendersi alla tirannide di una ideologia. Per entrambi sono le radici con il proprio spazio privato che vengono sconvolte. Quello che nel film appare come una straziante lotta tra due parti, nel mondo psichico si realizza come una dolorosa scissione. Il tiranno non sa del suo sradicamento dunque lo agisce, spinto dalla necessità compulsiva di dominare uno scenario di terrore, lo stesso scenario di terrore che incombe sul tiranneggiato.

Nello spazio analitico
Un bambino di 6-7 anni entra nel mio studio spalancando la porta con violenza, ha un aspetto torvo, non mi saluta, con altrettanta violenza apre la porta della nostra stanza, rovescia il materiale di gioco a sua disposizione, capovolge le seggiole e inizia con metodo a svitare i bulloni che ne fissano le gambe. E’ goffo e si muove male, come se vestisse una attrezzatura bellica ingombrante.
Ogni tanto scoreggia, o abbandona precipitosamente il campoper andare a fare la cacca.
Da parte mia soffro l’invasione, la violenza dell’intrusione e la paralisi di ogni attività psichica.
La lingua italiana e quella francese hanno due espressioni diverse per descrivere bambini di questo tipo: in italiano si parla di “tirare fuori dagli stracci”, in francese di bambini “qui poussent à bout”(spingono al limite) (Ciccone, 2003)- la metafora dell’italiano visualizza la rottura di un contenitore, il francese fa intravedere un movimento: spingere a un limite. Il lavoro analitico scommette sulla tenuta del contenitore e quindi sulla possibilità per il paziente di confrontarsi con un limite. Occorre ricomporre la scissione tra un soggetto che agisce alla cieca senza sapere che cosa lo muove (“Non sono io che faccio tutto questo, è un altro”), e un soggetto che soffre il dolore devastante di una intrusione, senza capacitarsene e senza trovare scampo (“non avrei mai voluto nascere”). Il limite è la premessa perchè si possa costituire uno spazio privato e una identità: esso si può costituire sulle basi di una trattativa tra le parti in campo, tra corpo e mente.
Prima di riprendere la riflessione teorica sui termini di questa sfida e sui possibili modi di farvi fronte, descriverò brevemente il piccolo paziente, cui appartengono le due frasi sopra riportate.

Ho chiamato il mio paziente Achille. Penso all’eroe omerico, unico figlio di Peleo e di Tetide, posseduto da una ferocia pari alla minaccia di morte che incombe sul suo triste destino: “nato per una vita breve”, ci dice Omero nell’Iliade (Kereny, 1984). Potente e vulnerabile a un tempo, per via di una faglia nel tentativo estremo della madre di assicurarselo per l’eternità: la madre che trattiene il piccolo per il tallone, mentre cerca di immergerlo in un bagno che lo renda immortale, è una madre che fatica a lasciare il figlio al suo destino; con lo stesso atto con cui lo vuole suo per sempre, lo consegna a un destino di vulnerabilità.
La vulnerabilità non è tanto il destino di morte, al quale tutti gli umani sono soggetti, ma è una posizione della mente costantemente in agguato proprio per scongiurare questo destino, inaccettabile prima ancora che impensabile. Il “vulnus”, più che la ferita, è la minaccia più o meno remota di essere ferito e ferito a morte, come tale scatena intense angosce persecutorie.

E’ l’assetto narcisistico a essere minacciato e la temporalità: se si nasce alla vita umana, prima o poi si muore. Ferenczi (1929) ci ha ricordato di quale dispendio di energia devono dare prova i genitori per “convincere” i neonati a entrare nell’avventura della vita; ma è difficile partire per una avventura senza iniziazione e senza attrezzi. La rèverie materna va incontro a queste esigenze: è un lavoro di iniziazione rispetto alle impressioni sensoriali grezze del bambino, capace di consegnargli l’attrezzatura necessaria per orientarsi nell’ambiente.
Achille ha 5 anni al momento della consultazione. I genitori si sono separati e sono in grave conflitto.

La madre mi dice di Achille che “è rimasto a quando aveva i due genitori assieme”, che è impacciato nei movimenti, soffre di incubi notturni, disegna solo con colori scuri, attira su di sè l’attenzione non benevola degli adulti (alla scuola materna in particolare) con comportamenti eccitati e aggressivi; i suoi amici sono in genere i più scapestrati della classe, spesso viene punito, tanto che le insegnanti hanno segnalato il suo comportamento, più volte, ai genitori. Achille appartiene alla categoria dei bambini “qui poussent à bout”.

Non solo Achille, ma anche la madre, figlia a sua volta di genitori separati, è rimasta a “quando i due genitori erano assieme”, ma la coppia genitoriale alla quale la madre si riferisce profondamente è un idolo, rispetto al quale ogni separazione è impossibile. Nonostante che la separazione sia avvenuta con una larga partecipazione da parte di Elena (così chiamerò la madre), Elena vive una intensa nostalgia per una coppia coniugale che tuttavia non è mai esistita. Achille, la cui nascita è stata preceduta e poi seguita da un aborto è figlio di un miracolo e figlio di nessuno. Elena mi inquieta per la qualità della sua sofferenza: la sento percorsa da una rabbia disperata nascosta sotto un velo di ragionamenti apparentemente pacati, soprattutto la sento molto lontana da Achille.
Nonostante la sua richiesta esplicita, non sembra chiedere aiuto per lui, quanto un risarcimento danni (per sè per essere a sua volta figlia di genitori separati) e una vendetta nei confronti del marito. Sono molto colpita dal linguaggio che la madre usa con Achille, nei contenuti e nel tono: la madre si rivolge ad Achille come si potrebbe rivolgere a un adulto con ragionamenti in apparenza pacati, di fatto intrisi di violenza. Il padre di Achille, che nel frattempo ha formato una nuova famiglia, è infastidito dalla presenza di questo bambino difficile e che fatica a capire. Achille si lamenta perchè la madre ripete tutto quello che lui dice.
Di fatto Achille non esiste nella mente dei genitori: cresciuto da una madre in grande difficoltà è destinato, dopo la separazione dei suoi, a far da tramite in un legame coniugale estremamente conflittuale e a curare la depressione materna.

Eco e rèverie: la legge materna
Scrivevo che la rèverie materna è un lavoro di iniziazione rispetto alle impressioni sensoriali grezze del bambino: in questo modo il bambino può sentire come proprio un funzionamento che altrimenti rischierebbe di vivere come una presenza aliena da espellere. Si potrebbe dire che il bambino fa proprio, assieme al nutrimento (di cibo, di tatto e di parole), il senso di una alterità da scoprire, alterità del corpo proprio, al quale la madre sufficientemente buona e capace di rèverie lo inizia, alterità dell’ “individuo maturo” alla conoscenza del quale il bambino si addentra a poco a poco grazie appunto a quegli strumenti che il proprio Io-corpo gli ha di volta in volta fornito. (Pittogramma della Aulagnier).

Io-corpo (Freud, 1922) a sottolineare un corpo mentalmente attrezzato, sentito come proprio e separato rispetto all’altro. Parafrasando l’insieme di questi accadimenti potremmo dire che è come se la madre si rivolgesse al suo bambino così ti racconto cosa ti succede in modo che tu possa utilizzare questa sapienza per esplorare quello che succede tra di noi e quale è la tua posizione rispetto a me. In questo modo si costruisce da un lato l’identità, dall’altro si delimita uno spazio che partecipa, come Winnicott dice, dell’Io e dell’oggetto e che è quindi in grado di orientare il soggetto rispetto al mondo.

Quando la funzione di rèverie è disturbata si viene a creare un legame di tipo particolare in cui il bambino (o il soggetto ) non impara dall’esperienza che fa, ma si muove come pilotato da una normativa lasciata cadere da una distanza assurda: assurda non per essere lontana fisicamente, ma per essere assolutamente distante rispetto alle esperienze che il bambino sta vivendo. Un atteggiamento normativo sostituisce l’ascolto empatico e la funzione di rèverie è sostituita da un funzionamento in eco. Questo funzionamento in eco è fatto di parole che, non portando il peso dell’esperienza, si rimandano da distanze rigidamente fissate e immutabili, l’eco di una presenza che non esiste se non perchè invocata dalla parola dell’altro. La parola materna diventa legge, ma, contrariamente alla legge paterna che riconosce la presenza dell’altro e ne regola i modi, questa legge materna disconosce l’alterità, l’esistenza separata e l’identità. Achille un giorno inciderà con grande violenza il suo nome sulla scatola di cartone che contiene il materiale a sua disposizione: il suo nome compare in effetti, ma come un vuoto, mentre i pezzi di carta ritagliati (che sono il pieno tangibile del suo nome) finiscono dentro la scatola: essi saranno soppesati da Achille con meraviglia e con una certa difficoltà a rimetterli assieme nell’ordine giusto. Nell’ultima seduta di un lavoro durato cinque anni, Achille riprenderà la sua scatola e, accanto al nome “bucato” disegnerà rapidamente e in modo tridimensionale il suo nome, non il nome completo, ma il diminutivo col quale è conosciuto e riconosciuto. Potremmo dire che Achille è passato da una angoscia senza nome a un nome che genera angoscia. Affermare la propria presenza nel mondo muove della paure, ma Achille ora non si fa coraggio tiranneggiando il suo corpo e l’altro, ma è capace di chiedere aiuto.

A questi pazienti, disconosciuti di fatto come aventi diritto a una esistenza autonoma e separata, occorre ridare a poco a poco la fiducia nella propria capacità di essere parte attiva in un rapporto e capaci di istruire l’oggetto.
Se un funzionamento in eco sostituisce la funzione di rèverie si sottrae al soggetto il senso della propria esperienza e si impedisce la formazione di tracce mnestiche atte ad orientarlo nel rapporto col suo corpo e col mondo. Ne risulta un vissuto persecutorio che riguarda sia il rapporto col proprio corpo come il rapporto con l’ambiente. La mente smette di considerare il corpo come sorgente di informazioni in grado di segnalare angosce e di esprimere, assieme ai propri bisogni,la posizione del soggetto rispetto al mondo; si produce così un avvitamento sul proprio corpo che, scisso dalla mente che lo comprende, funziona per conto proprio.

Gaddini aveva cercato di esprimere questo stato di cose parlando di fantasie nel corpo e distinguendole dalle fantasie sul corpo che sono invece indizio della possibilità della mente di intendere e di rappresentare un funzionamento somatico. Occorre dunque restituire la mente al corpo; questo vale nel lavoro con i bambini ma anche con gli adulti e in particolare con i pazienti borderline per i quali si è consumata una rottura tra corpo e mente. Occorre restituire ai pazienti la fiducia nella propria capacità di insegnare, etimologicamente: imprimere segni nella mente. Occorre poter imprimere nella madre il segno della propria presenza. Achille mi ha a lungo tiranneggiato imponendomi di costruire aeroplanini di carta che venivano immediatamente distrutti da lui, in quanto mai corrispondenti alle sue aspettative; i movimenti controtransferali segnalavano un mio stato di inadeguatezza, una totale sfiducia nelle mie performances e nella possibilità di intendere cosa Achille andasse cercando. Questo era tanto più complicato in quanto, alla impossibilità di costruire aeroplani come Achille chiedeva, facevano seguito comportamenti distruttivi del tipo di quelli sopra descritti. Le cose hanno preso una piega diversa quando un giorno dissi all’incirca così “se tu non mi insegni come vuoi che io costruisca gli aeroplani, non posso aiutarti”. Achille si mise con grande impegno a insegnarmi come piegare la carta per fare l’aeroplano, lo fece con molta meticolosità, piega dopo piega, preoccupato che io non perdessi nessun movimento e lo seguissi attentamente, facendomi sentire letteralmente pendere dalle sue labbra. Rispetto alla “distrazione materna”, sperimentata in origine e rinnovata nel transfert, Achille chiedeva ora una attenzione totale e totalizzante, capace però di seguirlo indicazione dopo indicazione. Non era tanto il risultato finale a contare, ma questo intimo e quieto momento di apprendimento.

Abbiamo così potuto sfatare il mito di un adulto onnisciente che accende il sentimento di impotenza e l’invidia, creando al suo posto una situazione molto intima di apprendimento.
Questa esperienza intima di apprendimento credo sia al centro del lavoro analitico. E’ un apprendimento che coinvolge entrambi i membri della coppia analitica, giorno dopo giorno, seduta dopo seduta.Si tratta di poter passare da vissuti immediati, violenti e spaesanti a una situazione intima di ascolto.

Stati corporei e funzione di reverie
J. de Ajuriaguerra (de Ajuriaguerra, J; Cahen, M. 1964) in studi lontani quanto anticipatori, ci ha mostrato come il corpo del bambino dialoghi col corpo materno tramite il tono. Il corpo si costituisce così come soggetto e oggetto della relazione col suo care-giver. Il tono corporeo entra dunque a pieno titolo nella relazione tra infante e madre, ne regola l’intensità, informa sullo stato di tensione dei partecipanti al dialogo, sulla qualità della presenza, sulla disponibilità ad accogliere e a contenere. La corazza muscolare (Reich), la seconda pelle (Bick) sono derivazioni e approfondimenti di questo antico dialogo e delle sue vicissitudini. Il tono è il primo limite e il segnale di un incontro. La nozione di holding di Winnicott si riferisce anch’essa a una funzione di ancoraggio delle sensazioni dell’infante per permettere lo sviluppo di un sistema percettivo.

Tirannia del corpo, tirannia del transfert
A., circa venti anni, era assai tiranneggiata dal suo corpo, aveva avuto una acne furibonda al momento della adolescenza ed era continuamente in agguato per capire in quale parte del suo corpo si annidasse una eventuale malattia. Di sua madre A. diceva: “non mi ha insegnato a parlare”; naturalmente il linguaggio di A. non solo era buono, ma anche molto sofisticato, tuttavia la madre mi aveva molto colpita nel nostro primo incontro per la totale estraneità tra lei e la figlia, tanto da suscitarmi la fantasia che A. si fosse sentita poco bene per la strada e che avesse chiesto a questa persona, che ora era con lei davanti a me, di accompagnarla fino al mio studio. La seduta su cui mi soffermo si volge nel terzo anno di analisi (4/ settimana).

II seduta della settimana
P: &silenzio… ho una piaga dietro l’orecchio che non riesce a guarire, il brutto è che quando sono… nervosa… che sto studiando per esempio, mi gratto e così non mi guarisce… sono andata in farmacia e mi hanno dato una pomata al cortisone, ma mi sembra troppo forte, le fitostimoline non servono, secondo lei (rivolgendosi a me) cosa si può mettere su una piaga del genere?…
(scelgo di stare sul “piatto” per il momento, sentendola molto ansiosa)
A:… forse un po’ di streptosil in polvere
P: ho provato, ma mi fa la crosta
A: un po’ di acqua bollita con dentro il sale (mi ricordo la vecchia cucina di casa mia, i pentolini di alluminio e questo rimedio universale anni’50).
Ah bene, dice la paziente; segue un silenzio quieto, la sento “prendere forma”.
Dopo poco le chiedo allora se ci sono altre cose che hanno dato fastidio alle sue orecchie, oltre alla piaga&
P: eh, si, ci sono sempre molti rumori nel cortile di casa, stanno ristrutturando l’appartamento di sopra e poi giù, in mezzo al cortile, c’è un capannone, mi pare assurdo che ci sia una fabbrica in mezzo alle case.
A: forse le pare anche assurdo che la sua analista fabbrichi ricette!
P: mi è parso un po’ strano, forse non dovevo chiederlo a lei, ho sbagliato medico
A: almeno se la potrà prendere con me se il consiglio funziona male, è sempre così preoccupata, quando parla con sua madre, di non potersi arrabbiare con lei.
P: mia madre, non è che non abbia uno spessore, lei sa fare tante cose, suona il piano, legge, però è sempre stato come si io non avessi bisogno dei suoi consigli, ero considerata, chissà come, la forte, quella che sapeva benissimo cosa fare in ogni occasione& mi ricordo una volta, avrò ‘ avuto dieci anni, sono andata da sola a comperarmi gli occhiali; ho scelto una montatura che sicuramente non andava bene, grossa, di plastica, quando mia madre mi ha visto è tornata dal negozio e ha detto, ma le sembra una montatura da dare a una bambina, è anche firmata, però non le veniva in mente che potesse accompagnarmi o dirmi direttamente, guarda che quegli occhiali ti stanno male… dovevo fare da sola& anche il mio corpo, va per i fatti suoi, a volta mi sento come compressa, tracagnotta come mia madre, a volte grande grande, la pancia gonfia come una mongolfiera,… sono come e peggio di mia madre
A: in fondo il guscio, del quale ogni tanto parla è come avere una misura più fissa, tra tutto o niente, una misura più rigida, meno elastica…parlando poi dei malintesi tra lei e sua madre aggiungo: ”
siete un po’ come due tartarughine, lei e sua madre”
P: perchè
A: ognuna un po’ nel suo guscio, lei con le istruzioni per l’uso, sua madre, nella sua tristezza
P: silenzio breve poi: due o tre giorni fa, ho fatto un sogno che mi ricordo bene perchè era verso il mattino: c’era un uomo che picconava qualcosa di tondo, come un guscio appunto e io ero come dentro e vedevo la scena dal di dentro: il sangue schizzava sulla faccia del picconatore (A. mi aveva chiesto come si chiama quella cosa a punta per scavare: piccone?) io lo guardavo, era una brutta faccia, una faccia da pazzo… poi, quando aveva finito di picconare tutti i denti gli cadevano
A: anche i denti servono per penetrare, dopo il piccone non servivano più
P. penso di essere stata io il picconatore, davvero tante volte mi piccono
A: chiedo se questa sera quando mi ha chiesto qualcosa direttamente e si è ritirata spaventata ha avuto paura di aver picconato anche me.
P: un pò, come aver osato troppo, poi parla di una prospettiva che sente meno lontana di apertura sul mondo, degli esami che sta preparando, esce contenta.

Commento
si tratta, come per ogni commento di seduta, di pensieri in gran parte après-coup, mentre la traccia degli affetti durante la seduta è rimasta abbastanza viva: la domanda secca e precisa della paziente mi turba e mi dà da pensare, ma l’ansia che la voce veicola mi convince a soffermarmi sulla realtà. L’opzione scelta è quella di prestare attenzione alla richiesta della paziente senza rinnegare le sue percezioni, ma prendendosene cura. Si apre un breve dialogo sui possibili rimedi: la bocciatura dello streptosil, mi ha evidentemente indotto a fare un passo indietro: nel breve tempo trascorso in silenzio si attiva una funzione di rèverie (la vecchia cucina di casa, i pentolini di alluminio, acqua e sale): per accogliere il male della paziente ritorno così ai miei mali e ai relativi rimedi. La mia sensazione che A. abbia preso forma sul lettino corrisponde dal punto di vista psichico al costituirsi di un limite, alla percezione di una frontiera: servono nuove monete o nuovi linguaggi per sostenere un passaggio ulteriore. Abbiamo precedentemente accennato a una funzione di accompagnamento, a un fare ambiente: aprire troppo presto alla metafora: male di orecchio e male di ascolto avrebbe significato per A. uno scarto doloroso rispetto al suo precario sentimento di esistere; sarebbe stato esattamente “mandarla da sola a comperare gli occhiali”, senza provare, senza trattare, senza dare rimandi al “come ti stanno”, senza rischiare. Naturalmente esiste anche il rischio opposto, che io sia una fabbrica di ricette, un “problem solving”, lontana dalla sua sofferenza, estranea, come già è apparsa la madre. Il fatto di sentire A. “posarsi” più quieta sul lettino, disposta al dialogo, mi permette di passare dall’accudimento alla metafora: “Ci sono altre cose che danno fastidio alle sue orecchie, oltre alla piaga”? La risposta della paziente è immediata e mostra che essa è pronta a passare dall’orecchio piagato per la quale ha chiesto aiuto in modo prepotente quanto accorato (liberami dal male) a un orecchio con una funzione di ascolto, ma turbato da un troppo di rumore. E’ più facile a questo punto entrare in campo e cimentarmi con questa sofferenza, nel qui ed ora della relazione analitica: ” forse le pare anche assurdo che la sua analista fabbrichi ricette”!

Il fatto che A. avverta a questo punto chiaramente la mia presenza – forse non dovevo chiederlo a lei – e si situi rispetto a me, apre uno scarto tra oggetto “madre” e un nuovo oggetto cui potersi urtare – così potrà prendersela con me – (l’ostacolo accogliente di Racamier ) e rispetto al quale potersi definire: per la prima volta A. si posiziona chiaramente anche rispetto a sua madre.

Da lì in poi si entra nel nostro idioma, in immagini che abbiamo già incontrato e che fanno ormai parte del lessico analitico. Sono proprio queste parole, guscio (la tartaruga morta per rottura del guscio di cui abbiamo a lungo parlato) istruzioni per l’uso- che richiamano da ultimo il sogno in cui A. riesce a rappresentare una effrazione traumatica senza agirla, come purtroppo è sua esperienza.

Potremmo parlare della comparsa, in questa seduta, di un oggetto nuovo, un oggetto con il quale è possibile contrattare, che intende le richieste, che, senza sottrarsi alla violenza, cerca di accompagnare il paziente in una esplorazione sopportabile di contenuti mentali spesso dolorosi.

Per concludere: dagli indizi di controtransfert all’incontro col transfert
Come ci segnala la nostra mente l’incontro con l’altro, col paziente, con un nuovo paziente? Come considerare tante turbolenze che possono infastidirci o incuriosirci, come lavorare quando aspetti eventualmente trascurati della personalità del paziente o dell’analista irrompono d’un tratto nella situazione analitica rischiando di stravolgere il setting?

&”The analyst feels as he is being manipulated so as to be playing a part, no matter how difficult to recognize, in somebody else’s phantasy” 1948 a. Ricomincio da Bion e da questa citazione, due anni prima della pubblicazione del lavoro della Heimann sul controtransfert.
Nel lavoro che vi ho presentato questa “manipolazione” tende a diventare tirannide: chiunque ha potuto osservare la situazione madre neonato ha potuto constatare quanto essa si situi in un limite molto sottile tra accoglimento e tirannia. Così è potenzialmente in ogni incontro prima che la parola tessa le sue tele e magari i suoi inganni: il corpo non conosce la bugia e ci riporta impietosamente a una sua verità. E’ su questa verità indiziaria che si fonda quel lavoro di trasformazione che organizza la reverie e che permette, come dice Ogden, di restituire la mente al corpo. Gli inconsci possono incontrarsi, avvinghiarsi, abbracciarsi o disperatamente resistere, se va bene possono affacciarsi al preconscio.

Voglio citarvi dei brevissimi esempi:
La paziente di cui ho parlato mi da la mano entrando, automaticamente prendo un golf e lo indosso&mi accorgo con un po’ di imbarazzo di essermi protetta dal freddo prima ancora di realizzare che era la mano gelata della paziente a passarmi questa sensazione acuta e anche così difficile da tollerare. Che fare di questo gelo?

Orlando, 33 anni, è davanti a me per un primo colloquio: la parola, garbata, porta le tracce di una educazione raffinata, ma la voce veicola un lamento, forse una protesta. Tuttavia, quello che mi è rimasto più impresso di questo primo incontro è un lampo di furia che attraversa il suo sguardo al momento di accomiatarci, accompagnato a una mia sensazione che i suoi denti siano troppi, e troppo grandi: vedo davanti a me uno squalo. Più avanti, in analisi: da piccolo era terrorizzato dal pensiero degli squali, che temeva al punto da diventare oggetto di scherno familiare: ne temeva tanto l’uscita repentina dagli abissi, da rinunciare al piacere del mare. Mi è capitato di vedere molto da vicino i pescecani e di essere stata colpita dall’incredibile abbondanza di denti, assieme a una totale ottusità dello sguardo. Vedendo Orlando la prima volta ero stata molto colpita dai suoi denti, lo sguardo però era furioso, vitale. Ottusa invece era stata, in molte occasioni, la modalità adottata da Orlando circa le sue assenze: sedute e sedute inghiottite e trascinate negli abissi dell’oblio, senza parole.
Questi brevissimi flash per ricordare come, che lo si voglia o meno, il corpo con le sue memorie, reagisce all’esposizione al transfert e a suo modo vi risponde: produce sensazioni, angosce, immagini. L’analista non può prescindere da questo sentimento di manipolazione che l’incontro col paziente produce.

Un analista non propriamente e non solamente specchio, ma sollecitato nella sua persona da aspetti risuonanti della struttura mentale del paziente nella propria.
Sia che questo incontro abbia le caratteristiche di una occupazione (v. transfert tirannico) o che risvegli inaspettatamente delle rappresentazioni (lo squalo) o delle sensazioni (il freddo) o degli elementi perturbanti, la nostra analisi dovrebbe averci addestrato ad accogliere queste manipolazioni e a attivare una rèverie, o magari solo a pazientare. La rèverie, ricorda Ogden, sarebbe quindi prima di tutto un’esperienza di contatto tra inconsci, e il terzo analitico, ovvero la capacità a rappresentare, sarebbe il risultato di questa esperienza.

Ma occorre pazienza, nel senso del patire, della passione e del tempo: La capacità negativa, così intrinseca alla funzione di reverie, non è attesa passiva, ma è coraggioso procedere in un mondo ignoto e con strumenti artigianali: gli strumenti dell’esperienza. L’interpretazione è, in origine, interpretazione del corpo proprio e dei suoi segnali: se il corpo non trova il suo interprete, il soggetto è sottoposto a una violenza cieca e condannato, per non soccombere, alla ricerca esasperata di un interprete.

L’incontro analitico ha una valenza iniziatica e non è da stupire se molti pazienti arretrano di fronte a proposte che possono apparire scandalose – ci vedremo a un dato giorno e a una data ora, quattro volte la settimana, per un tempo che non possiamo sapere.

Lo strumento adeguato è quello che meglio mette l’analista in una situazione di reverie e che meglio aiuta il paziente, soprattutto i pazienti di cui ho parlato sopra a trasformare un vissuto tirannico di relazione col proprio corpo, nella capacità di avvertire e tollerare il senso della loro esistenza, a incuriosirsi circa la loro posizione nel mondo, a rappresentare il proprio funzionamento e le modalità di rapporto con l’altro. La funzione di reverie, in quanto capace di iniziare il soggetto contemporaneamente alle sue modalità di funzionamento e alla presenza dell’altro occupa un posto centrale nella possibilità che avvengano delle trasformazioni in analisi. Con Achille non è stato possibile un lavoro che comportasse un alto numero di sedute; mi sono chiesta perchè e le risposte sono molte. Il legame in eco con la madre rendeva necessario sviluppare accanto al lavoro col bambino un lavoro con la madre, la situazione catastrofica dei genitori richiedeva attenzione, ma non è detto che non si debba mettere in conto anche la mia disponibilità a lavorare così intensamente con Achille.

Tuttavia è stato possibile attivare una funzione di reverie e condurre Achille a poco a poco da un dolore di stampo persecutorio alla consapevolezza di una sofferenza legata al sentirsi espropriato del proprio Io. In una delle ultime sedute mi diceva, parlando della sofferenza che ancora gli procura la separazione dei suoi: “io mi sono dato una ragione che il papà e la mamma sono separati,ma vorrei una casa mia” e, poco prima di lasciarci nell’ultima seduta, fatto nuovo per lui, costruisce col pongo una persona. Di getto: “adesso costruisco una persona: costruisco un uomo”.

L’operazione richiede un po’ di tempo, io osservo in silenzio e, a lavoro concluso, commento
A: E’ la tua ultima opera: una persona intera, con una testa per pensare, delle braccia per dare una mano, un corpo per vivere e due gambe per andare lontano.
P: è la mia ultima opera, te la lascio qui, così ti ricordi di me.
Una casa sua, uno spazio privato per poter crescere come persona libera.
Per l’analista, come ad ogni commiato con un paziente, il senso di un tempo di vita trascorso:di nuovo Achille che viene a salutarmi dopo qualche tempo dalla fine analisi.
Posso farti un ritratto? Acconsento. Achille si impegna e disegna il mio volto, si ferma, mi guarda di nuovo attentamente e dice: hai le rughe, ma devo farle… E’ il necessario tributo al senso di realtà.

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