Psicoanalisi e dintorni
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L’unità psiche-soma nella cura psicoanalitica di Maurizio Stangalino – Recensione di Maria Pappa

cura psicoanalitica

La vita, la morte, il divenire

(FrancoAngeli ed., 2023)

Il libro “L’unità psiche-soma nella cura psicoanalitica. La vita, la morte, il divenire”, di Maurizio Stangalino, ci offre una ricca e preziosa esplorazione psicoanalitica di problematiche che incontriamo sempre più frequentemente nella clinica contemporanea, sulle quali siamo chiamati a interrogarci, che rendono necessario un ampliamento delle nostre visioni teoriche e un’estensione delle nostre conoscenze ad altri ambiti, tra i quali quelli della fisica, della neurobiologia, della neurofisiologia, e delle neuroscienze. L’Autore parte da una riflessione e da una preoccupazione riguardanti la condizione di quei soggetti, spesso giovani, attraversati da una tendenza all’auto-annientamento, con un’estrema difficoltà a sentirsi vivi. “I pazienti a cui ci si riferisce sembrano avere affrontato, nelle loro iniziali esistenze, una circostanza acuta e protratta di non-vita psichica, nel senso di una assenza o insufficiente apporto di un essere umano (genitore o suo sostituto), in grado di alleviare l’angoscia primaria e di innescare una indispensabile scintilla vitale” (p. 17). Si fa largo l’ipotesi che laddove manchino indispensabili condizioni iniziali e si verifichino invece circostanze traumatiche, possa attivarsi un nucleo latente e invisibile di auto-distruttività, che va a intaccare il “soffio vitale”, la propensione alla vita, in altre parole la pulsione di vita. In questi casi in cui la pulsione di morte non risulta più sufficientemente “legata” e compensata dalla pulsione di vita, si può avere una vasta gamma di espressioni sintomatiche: da un piano solamente rappresentativo e simbolico, nelle fantasie del sogno notturno e diurno, alla canalizzazione somatica, fino ai passaggi all’atto sotto forma di “suicidio mascherato”, e allo sviluppo di gravi psicopatologie, come ad esempio depressioni gravi, psicosi, stati borderline, anoressie, perversioni e dipendenze di vario tipo.  Come evidenzia Anna Ferruta nella sua prefazione al libro, a contatto con queste situazioni, il vissuto controtransferale dell’analista può essere particolarmente impegnativo e difficile, implicando anche un livello somatico di proiezioni, e affetti non simbolizzabili. L’analista si trova immerso in un’atmosfera oscura, in cui il soggetto comunica l’impressione di un lento declinare dell’Essere, dello scivolare verso una “morte psichica”, che talvolta può portare addirittura verso una morte reale. Nell’indagare le dinamiche intrapsichiche e relazionali che caratterizzano tali evenienze, nella prospettiva di una cura psicoanalitica,  Stangalino  mette in luce quanto sia fondamentale l’apporto della psicoanalisi infantile per la psicoanalisi tutta,  e quanto sia indispensabile il riferimento a modelli teorici, come quelli di Bion e di Winnicott che diano la dovuta importanza all’ambiente e alle figure di accudimento nell’assetto mentale dello psicoanalista. L’Autore dà risalto al ruolo centrale dell’Altro per divenire mentalmente vivi, alla centralità della relazione per ogni essere vivente, in particolare quella madre-bambino. Il fulcro del libro è dunque rappresentato da una attenta e fine ricerca sulle origini del funzionamento psichico nella sua essenza di unità psiche-soma e sui successivi sviluppi, in relazione alle interazioni con l’ambiente interno-esterno. Nel cercare di comprendere l’insorgenza e le dinamiche delle varie forme di malessere che incontriamo nella modernità, l’Autore scandaglia la dimensione della relazione primaria e i modi con cui la mente emerge dal corpo, in un’interazione strutturale mente-corpo, Io-Altro, riconducendo le sue profonde osservazioni alle più aggiornate teorie della fisica quantistica, delle neuroscienze, oltre che della psicoanalisi. Per quanto riguarda quest’ultima, prendendo le mosse dal pensiero freudiano, Stangalino si concentra soprattutto sullo scritto Al di là del principio di piacere (1920), e sulla dialettica tra pulsione di vita e pulsione di morte. A questo proposito egli propone punti di vista diversi, che risentono delle più recenti acquisizioni fornite dalla fisica del non equilibrio; dalla neurobiologia, dalla neurofisiologia; dalla psicoanalisi, con gli sviluppi postfreudiani bioniani (1965, 1974, 1977). Questi ultimi concepiscono nel contesto relazionale la base per lo sviluppo di pulsioni di vita, e nella barriera di contatto uno strumento di continuo passaggio tra conscio e inconscio, corpo e mente, Io e Altro, presupposto per il costituirsi di equilibri fluttuanti e vitali. Sempre secondo questo orientamento, al contrario, l’isolamento porta alla non vita e al divenire preda della pulsione di morte. La dialettica tra pulsione di vita e pulsione di morte viene descritta da Stangalino come una dinamica tra attrattori, tra stati mentali diversi emergenti da una matrice biologica. Il bambino, per sviluppare il suo psichismo, necessita di un altro, la madre, che accolga e gli invii i segnali della pulsione di vita come attrattore, contrastando così l’attrattore di morte, che spinge verso l’isolamento e l’autoannullamento. Laddove nel corso dello sviluppo prevalga l’attrattore/pulsione di morte, analogamente a quanto accade in biologia con l’apoptosi, la morte cellulare, l’isolamento, la disregolazione affettiva e del legame, portano a seguire il piano inclinato del non investimento, del decadimento, indicato con il termine alloiosi. Allora è come se ci fosse una “invisibile ‘guida’ del destino individuale verso la distruttività, o addirittura l’autoannientamento, verso il Nulla” (p. 14). Nell’ottica winnicottiana è l’incontro tra la mente materna e quella del bambino che genera la dinamica “illusoria” tra ciò che viene percepito e ciò che viene soggettivamente creato, e la modalità di funzionamento ludico, che favorisce la crescita del mondo psichico del soggetto attraverso processi autopietici (Winnicott, 1971). Dobbiamo immaginare il delicato processo di transizione verso l’acquisizione dell’esperienza “soggettiva” di un Sé nascente, “con una membrana che lo limita, un interno e un esterno” (Ferruta, 2021), come un processo di graduale accettazione della realtà esterna riconosciuta come non-me , differenziandola da quella interna. La dimensione creativa dell’area transizionale, per Stangalino, apre a degli interessanti risvolti nell’ambito della fisica dei sistemi complessi e delle particelle elementari: “Una dimensione ‘potenziale’, un campo di esperienza aperto e con frontiere (ancora) indefinite, in cui è in atto una momentanea sospensione del compito mentale di differenziare la realtà dalla fantasia e in cui possono coesistere ‘stati sovrapposti’ appunto: ‘essere’ e al tempo stesso ‘non essere l’altro-oggetto’, essere separati e al contempo in unione con l’ambiente” (p.146). Nel dare risalto alla questione dell’integrazione corpo-mente, l’Autore mostra poi una rivalorizzazione della centralità della sessualità nel pensiero freudiano, vista come libido, che nell’apertura intersoggettiva, diviene Eros, e si contrappone a Thanatos. Stangalino inoltre considera la formazione dei sintomi come prima creazione psichica del soggetto  psicosomatico unitario e come tentativo di guarigione, non come semplice evacuazione del mentale nel corpo, ma come espressione di una ricerca creativa di soluzioni da parte del soggetto sofferente.

Il libro di Maurizio Stangalino, generoso di contributi scientifici e culturali, e scritto in modo chiaro e scorrevole, pone questioni rilevanti, e stimola perciò molte possibili riflessioni. Vorrei soffermarmi in particolare sulle implicazioni teorico-cliniche relative alla scelta del modello di pensiero bioniano, per quanto riguarda la relazione madre-bambino e soprattutto per quanto riguarda l’articolarsi dell’Essere, del Divenire, e dell’esperienza soggettiva del tempo.

 Bion pone la relazione madre-bambino al centro della psicoanalisi in quanto modello di come una mente si crea per la prima volta e di come poi si sviluppa. Come sottolinea Civitarese (2023), qui più che di modello madre-bambino, dovremmo parlare però di modello madre-infante, in quanto il termine “infante” designa il bambino che non è ancora in grado di capire il significato astratto delle parole. Specificare questo ci permette di ottenere un modello esplicativo anche in merito alla comunicazione non verbale nella psicoanalisi degli adulti, un aspetto di cui con il tempo abbiamo colto sempre di più la rilevanza in qualsiasi analisi e con qualsiasi tipo di paziente. Secondo Civitarese, il modello bioniano può rischiare di essere inteso in senso troppo unidirezionale e non contemplare abbastanza la reciprocità che connota la relazione madre-infante sia quando le cose vanno abbastanza bene, sia quando non vanno bene. Si tratta di un tipo di reciprocità che può essere ben rappresentato dall’’idea della “danza”, in cui madre e bambino a un certo punto sincronizzano i movimenti e le espressioni l’uno dell’altra, una danza che non ci sarebbe se fosse presente solo il bambino o solo la madre. Alla fine si crea un sistema dinamico più o meno capace di operare delle trasformazioni delle turbolenze emotive che lo pervadono, grazie alla funzione alfa e alla funzione di rêverie della madre. Quest’ultima va intesa non semplicemente come un fantasticare, ma come un modo di amare, di investire l’altro con uno sguardo di affetto e di preconcezioni di ciò che il bambino diventerà. Nell’addentrarsi nella dinamica della relazione madre-bambino, destinata ad accompagnare tutta l’esistenza, Stangalino correla il modello bioniano alla nozione descritta da Trevarthen (1993) di intersoggettività primaria, di cui continuerà sempre a rimanere traccia profonda nelle memorie implicite. D’altro canto tutta l’esperienza relazionale della madre con il bambino, che possiamo immaginare come un succedersi multiforme di “danze a due”, rende bene la natura del gioco dinamico di interazioni non verbali e microregolazioni reciproche che sostengono il processo vitale di soggettivazione. È a questo proposito che Stern (2010) ha parlato di “forme vitali”, intendendo una qualità intersoggettiva che induce a percepire la relazione in una forma dinamica che trasmette un senso di vitalità. In linea con il modello bioniano, anche le suddette concettualizzazioni ritengono centrale per la sopravvivenza psichica, la qualità della prima esperienza introiettata dell’holding materna, come sostegno dell’esperienza psichica e, secondo Green (1984), come struttura fondante. Infine anche gli studi di Rizzolatti (2006) e Gallese (2013)  ci prospettano un modello diadico in cui si fondono intersoggettività e intercorporeità: una relazione in cui gli “stati mentali” del bambino e della madre, evocano reciprocamente, l’uno nell’altro e viceversa, una risposta empatica, grazie al sistema specchio neuronale. Queste così peculiari reti neurali si attivano tutte le volte in cui si osserva compiere un’azione nell’ambito di un interscambio relazionale, rappresentando la prova dell’esistenza di una comunicazione pre-simbolica e pre-verbale, al di là della consapevolezza, tipica nelle prime interazioni madre-bambino, basata su posture, espressioni, gesti, movimenti muscolari ed emozioni, che confluiscono nella dimensione dell’implicito, del non rimosso. Tali dinamiche sono del resto di facile accesso alla osservazione della ricchezza intersoggettiva del “gioco di sguardi” tra madre e neonato, e sono state magistralmente descritte e approfondite da Winnicott (1971), che afferma: “[…] il precursore dello specchio è il viso della madre […] se il viso della madre non risponde, lo specchio diventa una cosa da guardare, non qualcosa in cui guardare dentro”.

Per quanto attiene all’Essere e al Divenire, e alla questione del tempo, Stangalino, nel rendere disponibili una vasta serie di conoscenze nel campo della fisica, ci permette di avvicinarci al mistero di un universo che dal “vuoto fluttuante” iniziale si è evoluto verso sistemi a crescente complessità, fino a configurare strutture “aperte”, in grado di scambiare con l’ambiente energia, materia e/o entropia e a raggiungere con l’Uomo e la sua mente un altissimo vertice evolutivo. Si tratta di un divenire complesso, dominato dal non-equilibrio e da una dinamica irreversibile, da un tempo in cui gli esseri viventi nascono, vivono e muoiono, e in cui le nozioni di “reversibilità” della fisica classica sono riconducibili solo a casi particolari. “Il tempo della vita è infatti un tempo complesso, fatto di accelerazioni, di pause, di rallentamenti, ripetizioni e ritorni all’indietro o di “anticipazioni” di qualcosa che si percepisce arriverà. Un tempo insomma molto più affine a un testo musicale che al monotono scandire di un orologio” (p. 34).  È solo con l’avvento della meccanica quantistica che vengono gettate le basi per l’affermazione di una irreversibilità temporale, e che si rende necessario prendere in esame il ruolo dell’osservatore, e dare risalto all’elemento “probabilistico’ e “soggettivo” dei fenomeni osservati. Per Einstein l’irreversibilità del tempo rimarrà come una illusione derivata da una soggettiva ignoranza delle condizioni iniziali, rimanendo di fatto, pur nella straordinaria novità dell’approccio, ancorato alla fisica classica. Il tempo dunque per Einstein non esiste: noi non vediamo mai il tempo; noi seguiamo con gli occhi il pendolo che oscilla, osserviamo il colore delle foglie degli alberi mutare, le stagioni passare. Ma il passato non esiste in quanto non è più, il futuro non esiste in quanto non è ancora, e il presente sembra essere quell’eterno istante che separa il prima dal dopo. Con la teoria della relatività, Einstein ci rivela che il tempo non è ciò che abbiamo da sempre immaginato: il tempo non è assoluto bensì relativo, visto che l’unica entità ad essere costante è la velocità della luce, e che il tempo si deve adattare a questa velocità, sempre costante. Per quanto riguarda la valorizzazione della coscienza soggettiva del tempo, in passato, è solo con Agostino (398) che il tempo viene ad assumere il significato di “tempo vissuto”, che acquista senso pieno, come dimensione del presente, solo quando è posto in relazione a un orizzonte temporale. Questo è un passaggio cruciale, che da una parte porterà agli ulteriori sviluppi della “filosofia dell’esistenza”, attraverso Pascal (1669) e Kierkegaard (1843), per giungere sino ad Husserl (1917), Bergson (1938), Heidegger (1927,1969) e infine a Binswanger (1970) e Borgna (1988); dall’altra  costituirà il presupposto per una visione divaricante, ancora esistente, tra cultura umanistica e cultura scientifica. Nel campo della fisica è solo con Prigogine (1986, 1988) che si è infine raggiunta una formulazione dell’irreversibilità che abbraccia sia il mondo microscopico che quello macroscopico, all’interno di una visione in cui la concezione statica dello spazio-tempo è sostituita dalla connotazione dinamica della “temporalizzazione dello spazio”, e in cui il tempo ha un ruolo creativo. Prigogine (1986) prova a rispondere alla questione fondamentale di come nasca il tempo, affermando che il tempo rappresenta il prerequisito dell’universo, in quanto precede l’universo, è un qualcosa di già esistente in forma germinale, prima che si sia determinata quella “instabilità”  che ha mosso il “vuoto inquieto” da cui ha avuto origine l’universo. Prigogine ha a lungo studiato i comportamenti della materia in condizioni di non-equilibrio, introducendo il termine strutture dissipative, dimostrando come la dissipazione dell’energia e della materia diventi, lontano dall’equilibrio, fonte di ordine e possa dare origine a nuovi stati della materia. Quando si forma una struttura dissipativa, l’omogeneità del tempo e dello spazio può essere infranta, e le condizioni di non-equilibrio e di turbolenza portano un cambiamento, a una “situazione nuova”, fino ad assumere una qualità di “mutamento catastrofico”. Prigogine stesso ha accennato alla possibilità di considerare il prodotto dell’attività cerebrale, il pensiero e la coscienza, attingendo al modello funzionale proprio delle strutture dissipative. Se intendiamo portare avanti questa linea di pensiero, dobbiamo tener conto del fatto che l’elemento primario e centrale della dimensione del non-equilibrio è il tempo. È lo stabilirsi nel corso dello sviluppo individuale di una dimensione cosciente del tempo a rappresentare e rendere possibile un ponte verso il mondo reale del divenire e della trasformazione. Sulla scia di tutte le suddette considerazioni, nel rivolgere l’attenzione alla piena espressione dell’Essere, al suo divenire pensante, cioè alla nascita psichica individuale, non possiamo non immaginarla disgiunta dall’ingresso nell’esperienza soggettiva del tempo e a una graduale conquista della dimensione temporale. L’affacciarsi alla vita è un emergere progressivo dalla condizione turbolenta e marasmatica pre-perinatale, grazie alla relazione diadica con la madre. Ferrari (1992) individua il passaggio dell’ingresso nel flusso temporale come il momento in cui la rêverie materna determina una precisa spinta organizzatrice e integrativa, per cui il corpo si “eclissa” e si avvia la nascita psichica. In linea con Ferrari, Lombardi (2016) considera “la percezione del tempo uno dei primi principi organizzatori che permettono l’avvio dell’eclissi del corpo e la costituzione di uno spazio mentale”. Andando a ritroso, agli inizi della vita fetale, sono oltremodo interessanti le riflessioni di Mancia (1980, 2005,2007) sul “sogno come esperienza presimbolica”, sulla peculiarità del sonno fetale che emerge nelle ultime settimane di gestazione, l’organizzazione delle funzioni nervose che compaiono nel feto sotto forma di “sonno attivo”. Quest’ultimo secondo Mancia sarebbe il “contenitore” in cui si pongono le basi per la formazione di un primo nucleo di attività psichica, in cui si può rintracciare la prima fase dell’incontro che Bion ha presupposto debba poi avvenire tra rappresentazioni mentali ereditarie (preconcezioni) ed esperienze sensoriali costituite da forme elementari di percezione. A questo livello gioca un ruolo fondamentale la “sensorialità” come mezzo efficace per elaborare il “contenitore”. È un ruolo che non termina alla nascita, ma che continua, come dimostrato dagli studi di Bick (1968), e successivamente di Anzieu (1985), sulla “pelle” come organo limite tra interno ed esterno, creando “le condizioni per la costanza del mezzo interno” (Mancia, 1980). Stangalino evidenzia come già nelle condizioni proto-oniriche fetali, in un’ottica bioniana, si intravede la possibilità di accogliere e intervenire sulle prime esperienze mentali, a partire da elementi sensoriali ancora grezzi e indifferenziati, “elementi beta”, per avviare quello sviluppo trasformativo che potrà poi portare alla formazione di “elementi alfa” e al pensare i pensieri.

Sempre a proposito dell’Essere, del Divenire, e della dimensione del tempo, in un lavoro recente Civitarese (2019) avanza l’ipotesi che in A Theory of Thinking Bion elabora una originale teoria del tempo e della sua genesi. Civitarese parte dalla distinzione tra concezione (conception) e pensiero (thought), che Bion lega rispettivamente a una esperienza di appagamento e di frustrazione nel bambino: l’esperienza emozionale di soddisfacimento, data dall’incontro di una preconcezione con il seno reale, conduce a una concezione; l’immagine di un neonato che accoppia la sua aspettativa di seno (preconcezione), con un seno assente, “no-breast”, corrisponde al modello del pensiero. Come sappiamo, il pensare si sviluppa quando il neonato realizzando l’assenza di un seno disponibile, ha la capacità di tollerare la frustrazione, ovvero il dolore. Se tale capacità è sufficiente, il “non-seno”, diventa un pensiero e si sviluppa l’apparato per pensare; se è inadeguata, il neonato ha un’esperienza emotiva dolorosa che non riesce a pensare, ma solo a evacuare come elemento beta, attraverso l’identificazione proiettiva. L’ipotesi di Civitarese è che “concezione” e “pensiero” debbano essere pensati insieme in una relazione dialettica, in cui ogni termine simultaneamente nega e riafferma l’altro. “Una matrice, dunque, che dà origine a un primo ordine temporale pre-riflessivo, che assume lo stato di tempo soggettivo – sia nel senso di durata che di rappresentazione astratta – solo quando è incorporato nell’ordine simbolico grazie alla funzione del linguaggio. Per Civitarese, l’incontro di una preconcezione di seno con la mera alternanza di presenza e assenza del seno, non può generare un concetto di tempo fino a quando non venga dato un nome all’esperienza” (Rugi, 2023).  Il soggetto struttura temporalmente la sua esistenza in termini di passato, presente e futuro, e più tardi sulla base di un tempo consensuale e misurabile. Questa ipotesi è quindi  in accordo con la teoria della mente di Bion, che è totalmente relazionale, e i pensieri senza pensatore sono possibili perché la relazione e la socialità precedono l’origine del soggetto. Il bambino è parlato dal linguaggio, perché è soggetto a esso, e parla il linguaggio, esprime se stesso e dà un significato alle cose. Bion individua dunque il problema della percezione soggettiva del tempo nella qualità della relazione madre-infante e nella capacità di tollerare la frustrazione. Nei casi in cui ci sia un’intolleranza alla frustrazione e a monte gravi difficoltà relazionali primarie, spazio e tempo sono percepiti come cattivi oggetti distrutti, cioè come ‘non seno’ (Bion, 1967). Allora il prevalere dell’identificazione proiettiva conduce alla confusione tra Sé e oggetti esterni, e alla distruzione del tempo, come nell’episodio del cappellaio matto, in Alice nel paese delle meraviglie, in cui erano sempre le quattro.        

Nel concludere il mio commento, vorrei riportare il pensiero di Rovelli, rispetto alla domanda che egli si pone: che cosa è il tempo per noi esistenti? “Il ricordo e la nostalgia. Il dolore dell’assenza”. Questo è il tempo per noi, scrive Rovelli (2017). Egli aggiunge che anche il dolore dell’assenza è buono e bello perché nasce dall’amore e si nutre di ciò che dà senso alla vita. Quando caliamo il nostro sguardo fenomenologico sul tempo soggettivo, è probabile quindi che troviamo il dolore. Il dolore lascia il segno, anche se resta misterioso il suo modo di imprimersi nella carne e nella mente. I segni del dolore sono traccia del tempo. Ogni segno è comunque traccia di un presente vivente, di cui il passato e il futuro sono le vere dimensioni temporali. Deleuze (1968) ricorda che “la cicatrice è il segno non della ferita passata, ma del ‘fatto presente di aver ricevuto una ferita’”. È l’idea bioniana del passato che agisce nel qui e ora, “il segno che ha lasciato ora, su di voi, su di me, o su di noi” (Bion, 1977).

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