Editoriali
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In ricordo di Stefania Manfredi Trillazzi (In ricordo, 6 luglio 2015)

Il Centro Psicoanalitico di Firenze dice addio a Stefania Turillazzi Manfredi che si è spenta a Firenze, nella sua casa in Via delle Campora, il 6 luglio 2015.

Stefania Turillazzi Manfredi è stata una figura di spicco della psicoanalisi italiana. Analista con funzioni di training, ha formato decine di allievi nei seminari dell’Istituto Nazionale di Training e in gruppi di supervisione. La trasmissione della psicoanalisi alle nuove  generazioni l’ha appassionata e cimentata. Era consapevole dell’importanza di sviluppare una concettualizzazione teorica delle nuove esperienze della clinica. Il suo pensiero è sempre stato orientato nella direzione della ricerca e del superamento delle barriere alla comunicazione con le aree psichiche meno accessibili.

Nata a Grosseto il 20 giugno 1929, si era laureata in Medicina specializzandosi in psicologia. Si era formata a Roma, in analisi con Emilio Servadio e in supervisione con Nicola Perrotti. Nel 1959, a soli trent’anni, era entrata a far parte della SPI che era una Società relativamente piccola. Dal 1972 al 1976 è stata Segretario Scientifico del Centro Psicoanalitico di Firenze e dal 1982 al 1986 Vicepresidente della SPI.

A Firenze, dove si era trasferita e dove è rimasta, ha rappresentato, assieme  a Giovannni Hautmann, l’arrivo della psicoanalisi. Nei primi anni del 1970 gli analisti fiorentini si riunivano inizialmente nelle loro abitazioni. Il piccolo gruppo di quel tempo, oltre a Stefania Manfredi e Giovanni Hautmann, comprendeva Giordano Fossi, Arrigo Bigi, Franco Mori e Gina Ferrara Mori.
La casa di Pian dei Giullari si apriva anche in occasioni istituzionali più importanti, come la venuta di Hanna Segal o di Herbert Rosenfeld.
E’ stata Stefania Manfredi, molto attenta alla psicoanalisi internazionale e amica degli argentini, a far conoscere in Italia il pensiero di Willy e Madeleine Baranger curando, assieme a un giovane Nino Ferro, la traduzione del libro “La situazione psicoanalitica come campo bipersonale”.

I suoi scritti, originali, brevi, lineari e folgoranti come i suoi interventi, restano pietre miliari della riflessione psicoanalitica sul transfert, il controtransfert, l’identificazione proiettiva, l’interpretazione, il rapporto psicoanalisi/psicoterapia.

Fra gli articoli apparsi nella Rivista di Psicoanalisi di particolare rilievo è il saggio “Dalle interpretazioni mutative di Strachey alle interpretazioni delle relazioni tra gli oggetti interni”, comparso per la prima volta nel 1974 nella Rivista assieme alla traduzione del lavoro di Strachey “La natura dell’azione terapeutica in psicoanalisi” pubblicato nell’International Journal nel 1934 ma ancora poco noto in Italia. L’ articolo di Stefania Manfredi è adesso pubblicato in “Reading Italian Psychoanalysis” edito da Routledge a cura di Franco Borgogno e Alberto Luchetti.

Fra i libri: “La linea d’ombra della psicoterapia” (Del Riccio, Firenze, 1979) “Le certezze perdute della psicoanalisi clinica” (Raffaello Cortina, Milano, 1994), “I seminari milanesi di Stefania Turillazzi Manfredi” (Raffaello Cortina, Milano, 1998). I “Seminari milanesi” raccolgono appunto alcuni dei seminari che teneva al Centro Milanese di Psicoanalisi, in Via Corridoni, dove andava sempre volentieri sentendosi a casa. I seminari sono belli e non sono invecchiati perché lo sguardo era lungo e in anticipo sui tempi. Uno per tutti: “Ascoltando Narciso”.

Negli ultimi anni si era ritirata, lontana dalla Società alla quale aveva dedicato gran parte della vita ma nella quale erano venuti a mancare, con il passare degli anni, amici e interlocutori a lei vicini, prima fra tutti Luciana Nissim Momigliano.

Le piacevano i gatti, l’indipendenza, l’ironia. Aveva sempre letto molto, non solo di psicoanalisi, e citava Wislawa Szymborska quando ancora Roberto Saviano era di là da venire e a conoscerla erano in pochi. In particolare, Stefania amava e citava questa poesia, dedicata a chi rimane e aspetta e intanto si aggira, senza sapere che fare di sé, su zampette “molto offese”. Proprio come molti di noi, all’indomani della Sua partenza.

Il gatto in un appartamento vuoto

 Morire – questo a un gatto non si fa.
Perché cosa può fare un gatto
in un appartamento vuoto?
Arrampicarsi sulle pareti.
Strofinarsi tra i mobili.
Qui niente sembra cambiato,
eppure tutto è mutato.
Niente sembra spostato,
eppure tutto è fuori posto.
E la sera la lampada non brilla più.

Si sentono passi sulle scale,
ma non sono quelli.
Anche la mano che mette il pesce nel piattino
non è quella di prima.

Qualcosa qui non comincia
alla solita ora.
Qualcosa qui non accade
come dovrebbe.
Qui c’era qualcuno, c’era
poi d’un tratto è scomparso
e si ostina a non esserci.

In ogni armadio si è guardato.
Sui ripiani si è corso.
Sotto il tappeto si è controllato.
Si è perfino infranto il divieto
di sparpagliare le carte.
Che altro si può fare.
Aspettare e dormire.

Che lui provi solo a tornare,
che si faccia vedere.
Imparerà allora
che con un gatto così non si fa.
Gli si andrà incontro
come se proprio non se ne avesse voglia,
pian pianino,
su zampe molto offese.
E all’inizio niente salti né squittii.

(Wislawa Szymborska)

 

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