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Matteini C. (2017). Soggetti segreti, destinatari sconosciuti

edoardo-tresoldi Thinkings-Oltre il Muro 2014, Sapri Matteini soggetti segreti destinatari sconosciuti

Testo della relazione presentata al convegno “Intimità. Variazioni psicoanalitiche”  Pisa 16 settembre 2017, che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autrice.

 

La questione che oggi ci viene proposta è sorprendentemente densa di possibili risonanze, e anche soggetta ad un’infinità di piani di lettura. E’ evidente il rischio di banalizzare una materia tutt’altro che semplice o di forzare in letture rigide una realtà multiforme ed in costante evoluzione. Ho scelto di concentrarmi su una piccola porzione del rapporto umano con il web, ovvero la possibilità di produrre, ricevere, tradurre messaggi. Una caratteristica antropologica fondamentale a cui l’avvento dell’era digitale ha garantito caratteristiche eclatanti.

Mi pare che riflettere sul rapporto fra lo spazio intimo e il web richieda prima di tutto di affrontare alcuni dei paradossi che questa rivoluzione comunicativa ha attivato. È uscito da pochi mesi “Il libro digitale dei morti” di Giovanni Ziccardi (UTET, 2017), prontuario per una questione un po’ di anni fa ancora futuribile e arcana, oggi pressante: che ne sarà, dopo la nostra morte, dei nostri dati digitali, delle foto, dei profili, dei messaggi, delle migliaia di pixel e dati con cui si autodocumentano le nostre vite?

Acutamente recensendo il libro su “Doppiozero” Francesco Mangiapane scrive: “come fare a pensare la vita in una società che ricorda tutto?”.

Allora la questione posta parrebbe essere quella di uno sviluppo ipermnestico, che colleziona, imprime e salva ogni interazione, senza uno spazio per lasciar scolorire quello che ormai è più distante dal momento presente.

Può esistere un mare senza la risacca?

Dunque una questione capitale della cultura umana, il tentativo costante, eroico a tratti disperato, di sconfiggere l’oblio, e con esso la perturbante ombra della morte individuale e collettiva, quella di ognuno, così come di gruppi, popoli, culture, teorie, vincoli, mode e modi dell’esistenza, incontrerebbe oggi il suo negativo: invocare ed inseguire un oblio impossibile?

Ma siamo sicuri che la presenza che il mezzo ci offre possa essere così duratura da essere incancellabile? O questa immagine di costanza infinita, insieme desiderata e temuta, non è che il riflesso della nostra impotenza a trattenere il tempo, dentro e fuori di noi?

E come accostare tutto questo proliferare di vita pubblica e pubblicata con la presenza costante di resti non visti, non ascoltati, non tradotti, nei quali ci imbattiamo ogni giorno fuori e dentro la scena analitica?

Certo il web entra a far parte dell’autorappresentazione dell’uomo contemporaneo e così alla formula dantesca della “Vita Nova”: “in quella parte del libro de la mia memoria”, potremmo sostituire oggi “in quello stato postato alcuni anni fa”. E tuttavia la questione appare riduttiva se pensiamo che il grande apparato digerente della cultura pubblica contemporanea pare espellere più che digerire, con costante brutalità, argomenti, polemiche e domande, che per alcune settimane paiono ipnotizzare le comunità interne ed esterne al web, per poi inabissarsi, travolte dall’ennesima “questione calda”.

Indubbiamente abbiamo assistito e tuttora assistiamo ad un mutamento, che rappresenta l’ennesimo tentativo umano di dare rappresentazione di sé. Dalle pitture rupestri di Lascaux, alle prime forme di scrittura, all’opera infaticabile dei copisti che hanno garantito asilo alla cultura occidentale nel complicato transito dall’epoca classica a quella medievale, dall’invenzione della stampa fino all’attuale era digitale, l’uomo ha costantemente cercato modi di dirsi e di rappresentare la propria vita. E questi modi hanno a loro volta plasmato alcune caratteristiche dell’identità rappresentativa dei singoli e delle epoche culturali. Basterebbe aprire il capitolo delle varianti ad un autografo nell’era digitale, per capire quanto l’attività di ricognizione di un’opera, non solo letteraria, sia stata mutata dalla scrittura al computer.

Nel Fedro Platone ci mostra Socrate che mette in guardia dal proliferare della scrittura attraverso il racconto del dialogo fra il suo inventore Theuth, il dio lunare di Ermopoli, venerato come inventore della scrittura, e il re egiziano, che preconizza un futuro infausto con l’avvento di questa innovazione, temendo che l’alfabeto “ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di sé stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei” (Platone, Fedro LIX).

Ecco che la questione memoria-oblio che noi applichiamo oggi al mezzo digitale era per Platone intimamente collegata alla nascita della scrittura. Questo ci dice che i tentativi umani di autorappresentazione cambiano profondamente nell’evoluzione di differenti tecniche, ma sono anche costante testimonianza dell’oscillazione fra la possibilità e il desiderio di dire di sé e il rischio di “essere detti”, o dimenticati, da un altro.

Dunque ci troviamo di fronte ad un primo paradosso: un’apparente abolizione di resti (di varianti testuali ad una grande opera, di versioni scomode, di polaroid sfuocate, di quaderni pieni di errori, di cartoline sbiadite…) ed una proliferazione di resti come scrivevo all’inizio.

Una delle caratteristiche dell’estroflessione digitale della vita umana è la proliferazione di immagini e parole, situate spesso in un territorio misto, nel quale è difficile distinguere realtà e alterazione, motti generazionali condivisi, pensieri estemporanei, immagini di vita vissuta, vere e proprie nicchie culturali divenute punti di riferimento importanti (ne sono un esempio le molte riviste letterarie on line che ospitano recensioni, brevi saggi d’autore, fotografie di artisti), in una ricchezza e diversificazione che sarebbe assurdo voler ricondurre ad un unico centro.

Può essere utile isolare alcune questioni, collegate al tema dell’intimità e a quello delle variazioni contemporanee delle pratiche umane di condivisione della propria realtà, per cercare almeno di aprire spazi ad alcune questioni.

Come sappiamo Freud introduce il concetto di unheimlich connettendolo attraverso una riflessione anche linguistica al significato ambivalente già presente nei possibili usi di heimlich, che indica il familiare, l’intimo, il domestico, ma contiene anche, come uso secondario, il significato di nascosto. E’ così, attraverso il suo bellissimo incontro con il vecchio dottor Freud sul vagone di un treno, che ci spiega che il perturbante è lo sconosciuto che ci è familiare “Ero seduto, solo, nello scompartimento del vagone letto quando per una scossa più violenta del treno la porta che dava sulla toletta attigua si aprì e un signore piuttosto anziano, in veste da camera, con un berretto da viaggio in testa, entrò nel mio scompartimento. Supposi che avesse sbagliato (…) e che fosse entrato da me per errore; saltai su per spiegarglielo ma mi accorsi subito, con grande sgomento, che l’intruso era la mia stessa immagine riflessa nello specchio (…). Ricordo tuttora che l’apparizione non mi piacque affatto” (Freud, 1919, pag.110 in nota). L’altro da noi dentro di noi, con cui l’operazione analitica deve necessariamente avere a che fare per dirsi tale, che posto ha nell’autoriproduzione digitale? Penso che sarebbe riduttivo dire che l’utilizzo massiccio di photoshop ne abbia dileguato la potenza, perché è proprio l’irriducibilità costituzionale di ciò che di noi non desideriamo o non possiamo vedere, che si amplifica nei tentativi disperati di operare correzioni, non solo digitali, alla nostra realtà interna ed esterna.

Potremmo forse dire che l’intimità nasce dalla nostra possibilità di sapere quanto in noi resta in parte incomprensibile anche a noi stessi, di accettare il segreto che sta all’origine della nostra possibilità di pensare.

Piera Aulagnier in un bellissimo scritto, pubblicato per la prima volta nel 1976, e poi rivisto nel 2009, con il titolo “Le droit au secret: condition pour pouvoir penser” esplora la necessità del segreto nel costituirsi dello spazio psichico. Il segreto dei rapporti fra i genitori, della propria nascita, ma anche dei propri pensieri che si scoprono potenzialmente inviolati, il segreto delle cose non dette, che crea l’area perturbante ed insieme feconda per essere anche ciò che non si vede, per poter immaginare di esistere, al di là dello sguardo dell’Altro. Senza questa operazione inaugurale dello psichico, osserva Aulagnier, non sarebbe possibile ridurre la potenza della percezione di un Altro onnipotente che invade e colonizza gli spazi del soggetto.

Lo spazio intimo, chiarisce Aulagnier, non può darsi al di fuori della possibilità di custodire un segreto, tracce della propria esistenza psichica sottratte alla luce accecante dello sguardo altrui.

Da questo punto di vista il segreto per Aulagnier può essere accostato alla capacità di essere solo in Winnicott, aree di edificazione di un’esperienza psichica soggettiva, in presenza di un Altro che possa permetterlo. Masud Khan parla del segreto come uno spazio potenziale nel quale in situazioni drammatiche forme di vita psichica sopravvivono alla desertificazione del trauma. Come nel  bellissimo caso della paziente che aveva sotterrato nel giardino dei genitori un candelabro d’argento, ricomparso sulla scena analitica attraverso i segreti da non svelare all’analista, oggetti lasciati nella sua sala d’attesa, preziosi contenitori di grumi identitari in giacenza. Da qui Masud Khan parte per creare in un altro saggio la metafora del “lasciare a maggese”, come un luogo della mente umana, prima che dell’analisi, dove le cose riposano, protette dallo sguardo del soggetto e da quello altrui, in attesa di poter essere viste senza scatenare il terrore di un’effrazione.

Ci potremmo chiedere: che spazio potenziale concede la società contemporanea al diritto al segreto, che cosa ci consente di lasciare a maggese?

Forse prima di rispondere potremmo riflettere su una fondamentale area dello psichismo, quella del trattamento del tempo, che l’utilizzo del web può amplificare, sottolineare, espandere o tentare di deformare, ma che rimane al centro dei tentativi umani di padroneggiare l’esperienza. Il tempo come tempo interno che si accosta si discosta, a volte traumaticamente, dal tempo esterno.

L’intimità è fondamentalmente legata allo sviluppo dell’esperienza di un tempo interno, che nasce anche attraverso le prime percezioni di un’area segreta all’interno dei propri pensieri, e, in condizioni sufficientemente buone prosegue, con il costituirsi di un’esperienza singolare della realtà, sperimentata imparando a riconoscere lo strutturarsi di un proprio tempo interno, quello per esempio del ricordo, dell’azione, della condivisione, della solitudine, del sonno e del sogno.

Un’intimità insomma che è la percezione individuale di una particolare modalità di sperimentare la temporalità, come indissolubile concentrato di realtà interna ed esterna. Questa percezione è ovviamente costruita nel corso della vita e si struttura attraverso le variazioni e le esperienze. E’ un essere in sufficiente intimità con l’estraneo che è in noi che ci permette di entrare in intimità con un altro, di cui accettare il mistero, la sconvolgente, intrattabile alterità. Compare lentamente anche nello scenario analitico e si intreccia con l’intimità che stabilisce fra analista e analizzando, quella dello spazio potenziale di un “secondo tempo”. Certo una delle caratteristiche più eclatanti dell’avvento dell’era digitale riguarda la percezione del tempo, tempo per cercare, per spedire, per ri-vedere, tempo che appare costantemente limitato, contratto, tagliato. Questo rende più difficoltoso forse uno spazio di sosta, per pensare. D’altra parte come analisti conosciamo la tendenza all’agire,  l’angoscia del soffermarsi a pensare, l’incontro difficile con quel pensiero inopportuno, che come l’anziano dottor Freud sul treno, ci compare davanti e ci turba. L’operazione analitica è pensata per tollerare il difficile impatto con questa intimità, e in questo senso potremmo dire che il web tenta un azzeramento del tempo frammentato che compare in analisi.

Ma ne siamo sicuri?

Potremmo ovviamente dire che come ogni tecnologia è la modalità di utilizzo che ne qualifica caratteristiche e potenzialità. D’altra parte però ogni tecnologia rappresenta un tentativo umano di avere a che fare con alcuni bisogni, desideri e caratteristiche che ne plasmano l’indirizzo.

Questa intimità con sé stessi, condizione che permette lo strutturarsi di un’intimità con l’altro, ci porta ad un’altra questione. Per introdurre il secondo paradosso che vorrei proporre è assolutamente necessario restringere e chiarificare il campo generico dell’intervento di oggi. Vorrei concentrarmi qui su quelle operazioni online che richiedono suppongono o fantasticano la presenza di un’Altro (ma esistono forse operazioni umane che non procedono in questo senso?). In una lettera a Fliess del 6 dicembre 1896 Freud scrive: “Attacchi di vertigine e crisi di pianto sono tutte cose dirette verso l’Altro, e per di più verso quel preistorico indimenticabile Altro che in seguito non sarà mai uguagliato da nessuno” .

E’ una notazione che apre già il campo allo sviluppo del transfert, inteso come operazione umana universale, che ci porta costantemente alla ricerca di quell’interlocutore, nel tentativo costante di tradurre, narrare, vivere (a seconda degli orientamenti psicoanalitici potremmo dare all’operazione sfumature differenti…) quello che che rimane in cerca di un senso.

Partendo dalla dinamica del transfert, inteso non solo come luogo di sviluppo del processo psicoanalitico, ma come tentativo umano di reindirizzare un messaggio rimasto sospeso, in attesa di risposta, rispedito al mittente con l’indicazione di un destinatario sconosciuto, possiamo immaginare di precisare le leggi della linguistica strutturale. Certo che in ogni comunicazione sono sempre previsti un mittente un messaggio ed un destinatario, ma non necessariamente questi tre elementi sono univoci e definibili.

Potremmo dire che ogni messaggio è la comunicazione di un mittente dichiarato ad un destinatario specifico, ma conserva in sé anche il messaggio di un mittente segreto ad un destinatario sconosciuto, che rimane tale spesso anche per chi confeziona quel messaggio.

Ecco che osservata da questo punto di vista una delle caratteristiche della vita online, quella che si dispiega nei social, e anche nelle chat, assume caratteristiche differenti.

Perché se è vero che c’è un continuo proliferare di immagini e comunicazioni, non dovremmo mai dimenticare che non è necessariamente chiaro quale o quali siano i destinatari di quelle comunicazioni, e che anche il soggetto del messaggio può avere differenti sfumature. Come per ogni operazione umana, nonostante questa sia tecnologicamente avanzata e dotata di caratteristiche prima mai esperite, anche quella della comunicazione digitale mantiene un’opacità strutturale. In effetti così come il paradosso oblio/proliferazione documentale si collega all’angoscia della scomparsa individuale e collettiva, così il paradosso costante raggiungibilità/destinatari e mittenti sconosciuti evidenzia il tentativo umano di eliminare la possibilità di molteplici letture, che certo confondono e spaventano, ma, come ci capita spesso di osservare, garantiscono la vitalità della nostra esperienza del mondo.

Così il web diventa una specie di mare in cui navigano milioni di bottiglie con messaggi in attesa di raggiungere un destinatario sconosciuto.

Una cosa colpisce infatti nella fantasia degli utilizzatori più giovani dei social, quelli cioè che hanno con il mezzo una confidenza e una naturalezza date da una conoscenza profonda e primaria. Nel consultare i profili degli altri è costante la fantasia sui possibili contenuti criptati, su ciò che solo alcuni in quella pagina possono vedere, sulle conversazioni nascoste, sui destinatari segreti dei messaggi postati, spesso genericamente enunciati, in apparente assenza di un bersaglio definito. Su quello insomma che non si può vedere, che non si può sapere, dal quale si è esclusi.

Questa seconda caratteristica delle comunicazioni digitali pare assolutamente pregnante, se se ne osservano le peculiarità adottando un punto di vista laterale, rispetto alle necessità di autorappresentazione.

Forse, per concludere, dovremmo allenarci a intravedere nelle misteriose, spesso assurde e inquietanti leggi dell’era digitale quello sconosciuto sul treno che ci guarda perplesso e un po’ infastidito, convinto che abbiamo sbagliato vagone.

Bibliografia:

Aulagnier P. (2009), “Le droit au secret: condition pour pouvoir penser” in Aulagnier P. La pensée interdite. PUF, Paris.

Freud S. (1919), Il perturbante, OSF, 9.

Freud S. (1985), Lettere a Fliess 1887-1904, Bollati Boringhieri, Torino, 1986.

Masud Khan M. (1983), “Il segreto come spazio potenziale”, in Masud Kahn M. I sé nascosti. Teoria e pratica psicoanaliticaBollati Boringhieri, Torino, pp. 106-118.

Masud Khan M. (1983), “Come un campo lasciato a maggese”, in Masud Kahn M  op. cit. pp.198-204.

Ziccardi G. (2017). Il libro digitale dei morti. Memoria, lutto eternità e oblio nell’era dei social network. Utet, Torino.

 

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