The Erratics.
Mostra di Darren Harvey-Regan alla Galleria Passaggi, Pisa, 18 aprile – 27 giugno 2015.
Maria Grazia Vassallo Torrigiani
Pietre, massi, blocchi di roccia solitari, impongono la loro immobile presenza nei lavori di Harvey-Regan in mostra a Pisa. Modellati dagli agenti atmosferici nello scorrere implacabile del tempo, o scolpiti dalla mano dell’artista, costituiscono una sorta di dato grezzo, la materia del mondo su cui l’artista opera una trasformazione in immagine attraverso scatti fotografici in bianco e nero. Dalla “cosa” alla sua rappresentazione, dall’oggetto nella sua rocciosa tridimensionalità all’astratta esistenza bidimensionale sulla pellicola; e da qui un ulteriore passaggio processuale: la creazione della fotografia come nuovo oggetto del mondo – la fotografia nel suo significato di entità materiale costituita dalla stampa su supporto cartaceo, la cornice, il vetro …
Il focus della ricerca di Harvey-Regan interroga operazioni e processi trasformativi e creativi in grado di ampliare le possibilità di senso e significato. Afferma l’artista: “Penso che fotografare i materiali sia un modo per prendere in considerazione le modalità di creazione di significato […] È un modo di trasportare materia in altra materia, aggiungendo nuovi significati e pensieri nel corso di questo processo”.
Aggirandosi nella galleria dove sono esposti i lavori, si è rapiti da una sorta di poetica bellezza, dall’eleganza ed equilibrio formale delle singole opere e dalla rete di rimandi e connessioni che tra loro va ad intessersi; l’occhio è catturato in un gioco compositivo che trasmette un ritmo dinamico ed armonico – fondato su rapporti tra linee verticali ed orizzontali, tra ripetizioni e variazioni, tra pieni e vuoti, tra bianchi, neri e grigi.
Il titolo della mostra è “The Erratics”. Nel comunicato stampa leggiamo che “erratic è un termine che in geologia definisce una formazione rocciosa che, trasportata a fondovalle da un ghiacciaio, quando questo si ritira viene a trovarsi in un ambiente difforme e lontano dal proprio luogo di origine”. Ma anche altri significati vengono trasportati – o si condensano – nel termine “che deriva dal latino errare, i cui significati comprendono «vagare senza meta», e «deviare dal vero»”. Allora mi viene da pensare che questa sobria notazione è come una dichiarazione di un modo di porsi – di fronte alla pratica artistica, all’esistenza, alla conoscenza – che sceglie di procedere erraticamente, senza una meta predefinita, affrontando l’ignoto e aprendo l’esperienza ad una processualità di sperimentazioni, fallimenti, suggestioni, ripensamenti, mossi comunque dall’inquieta ed incessante ricerca di un approdo – sia pur temporaneo – che forse si troverà forse no, e che solo quando sarà incontrato/creato potrà essere riconosciuto e diventare conquista, epifania, piccola solida roccia a cui ancorarsi.
In ogni percorso, in ogni narrazione, c’è un incipit. All’inizio del percorso espositivo ci sono due piccole riproduzioni che incorniciano l’una un particolare della famosa incisione di Dürer (Melancolia I -1514), l’altra quella di un dipinto di Magritte (Il mondo invisibile – 1954). L’artista afferma di averle tenute per mesi appese nel suo studio prima di cogliervi una significativa connessione formale: sostanzialmente c’è una pietra in entrambe le opere, che “sembra voler rappresentare diversi modi di concepire il mondo, l’uno come se cercasse di formarlo e l’altro di osservare la sua forma”.
Direi che queste due immagini iniziali creano comunque delle suggestioni, evocano anche particolari stati mentali ed emotivi che rimangono impigliati nello sguardo dello spettatore quando poi lo rivolge alle opere esposte, riconsegnandole in ulteriori cornici di senso. Il poliedro irregolare di pietra evoca la musa malinconica di Dürer, tradizionale icona del processo creativo: la malinconia come stato d’animo o meglio come metafora di una attitudine riflessiva, di immobilità e presa di distanza dal mondo – un fare il vuoto affinché qualcosa possa poi nascere e prendere forma. E quale condizione mentale è più distante dall’immersione nella realtà fenomenica, se non la condizione onirica del sogno? È allora che si presentano oggetti incongrui ed “erratici”, che ci interrogano enigmaticamente sulla loro presenza decontestualizzata, provenienti da chissà quali esperienze psichiche che abbiamo abitato – così come si presenta quel masso sul balcone nella tela di Magritte.
Harvey-Regan dichiara che il progetto esposto a Pisa deve molto alla lettura di un saggio di Wilhelm Worringer del 1906, Astrazione ed Empatia. Worringer fu uno dei molti studiosi di estetica che nel periodo a cavallo tra ’800 e ’900 rivolsero la loro attenzione al ruolo che nella fruizione dell’arte veniva giocato dall’empatia, e pur se il concetto di empatia fu variamente declinato dai vari autori, il presupposto condiviso era che le forme si danno sempre in relazione ad un soggetto che le percepisce, le sente, le vive emotivamente – dunque in una dimensione relazionale e non astratta e assoluta. Per inciso, dopo le scoperte neuroscientifiche sui neuroni-specchio, oggi si assiste ad un rinnovato interesse in questo campo di indagine.
Tornando al testo che aveva colpito Harvey-Regan, l’empatia nell’accezione utilizzata da Worringer, “descrive non solo il nostro bisogno di relazionarsi psicologicamente al modo visibile attraverso la rappresentazione di forme oggettivate, ma di apprezzare la nostra sensazione nel farlo. Per contro, l’astrazione è considerata un mezzo per fare fronte alla sovrabbondanza minacciosa del mondo fenomenico, sottraendo gli oggetti alla loro collocazione spazio temporale e distillandoli in pure linee, forme e colori”. Era un momento di crisi creativa, e l’artista partì per il deserto egiziano portando con sé una vecchia macchina fotografica alla ricerca di monoliti gessosi sparsi in quell’area geografica. Sono le immagini diventate poi punto di partenza del progetto “The Erratics”, dove l’empatia in senso worringeriano si è coniugata all’astrazione, in quanto ha suscitato nell’artista l’emozione ed il piacere della pura bellezza delle forme astratte, andando a rianimare la sua creatività che è espressa nei lavori di questa bellissima mostra.
Per tutte le immagini: courtesy dell’artista; foto in galleria di Dania Gennai. ©2015 Galleria Passaggi, Pisa.
Darren Harvey-Regan (Exeter, Inghilterra 1976), vive e lavora a Londra. L’artista ha esposto in numerose mostre in spazi pubblici e privati. Tra le personali ricordiamo: A Shifting Sense of Things, Sumarria Lunn, Londra (2013), Phrasings, The Ravestijn Gallery, Amsterdam (2013), A Collection of Gaps, Phoenix, Exeter (2011) e Fact, Room Gallery, Londra (2011). Le mostre collettive includono A History of Photography, Victoria & Albert Museum, Londra (2014), Act & Application, Lawrie Shabibi, Dubai, EAU (2014), GeoGráfica, FOTOTROPIA, Città del Guatemala, Guatamela (2013), I’ll Be Your Mirror, Monte Vista, Los Angeles e Nancy Kranzberg Gallery, St Louis, USA (2012), The Animal Gaze Returned, Cass Gallery, Londra (2011), Object Dada, Edel Assanti, Londra (2011), Catlin Art Prize, London (2011), New Contemporaries, ICA, Londra (2010). Nel 2009 riceve il premio Leverhulme Trust; l’artista fa parte del collettivo Hal Silver.