Ciak si gira 2013
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Repulsion, proiezione del 4 novembre

4 novembre 2013

Repulsion

di Lucia Carboni

Girato a Londra nel 1965, Repulsion è il primo film (insieme a l’inquilino del terzo piano e Rosemary’s baby) della cosiddetta trilogia dell’appartamento, in cui Polanski indaga sulla follia individuale e di gruppo giocando su binomi che tendono a presentarsi come antinomie, ma ci spingono a riflettere, partendo dal nostro stesso disagio e dalla nostra paura, sulla complessa relazione che intercorre p.e. tra attrazione e repulsione, docile passività e reattività aggressiva; ad interrogarci su quali confini esistano tra l’esperienza di Sé e dell’altro da Sé; che cosa distingua soggettivo da oggettivo, vero da falso, reale da immaginario, sanità mentale da follia. Definito da qualcuno “un lucido incubo espressionista”, Repulsion presenta in realtà la combinazione di più elementi stilistico -narrativi. Da una parte la visione propria della nouvelle vague -né idealizzante né moralistica- consente uno sguardo attento agli aspetti freddi della realtà oggettiva. La luce naturale della strada, la casa, sciatta e priva di quella grandiosità Hopperiana vista in Psycho qualche anno prima, riportano i dati di una quotidianità banale esaltata dal bianco e nero della pellicola e sottolineata, negli interni, da silenzi prolungati o deboli rumori di fondo e, negli esterni, dal frastuono anonimo del traffico e dei lavori stradali. Tuttavia, questa è solo la cornice all’interno della quale Polanski colloca la ricostruzione in chiave espressionista di un diario intimo, reso agghiacciante dalla distorsione allucinatoria di Carole e dalla rappresentazione in stile surrealista del suo pensiero delirante (basti pensare al corridoio sempre più animato e costrittivo o alla consistenza argillosa delle pareti, su cui resta l’impronta, cedevoli e molli come gli orologi di Dalì).

La nostra visione si sovrappone frequentemente a quella di Carole (vediamo le crepe, sentiamo gli schianti, diventiamo testimoni dell’incontro con il violentatore) grazie all’alternanza nelle riprese di punti di vista oggettivi, soggettivi e, soprattutto, falsamente oggettivi, come nell’inquadratura di Carole allo specchio e la fugace apparizione minacciosa alle sue spalle dell’ Altro, proprio mentre tenta di mettersi nei panni della sorella e guarda, con desiderio forse inconfessabile, l’abito da cocktail che ne faceva risaltare la femminilità adulta. Noi stessi, pur comprendendo rapidamente l’inevitabilità della tragedia, a tratti siamo messi in uno stato di confusione sui confini tra vero e falso, e pervasi da un sentimento angoscioso di sospensione. La massima inquietudine, ci ricorda Polanski, deriva per Carole, ma anche per noi, proprio dall’incertezza. Così anche l’apparente rivelazione trasmessa nell’inquadratura finale della fotografia, in cui rivediamo lo sguardo obliquo e rigido che Carole bambina volge verso il padre (?), più che sicurezze consolanti, suggerisce dubbi. Le stesse caratteristiche del film che sembrano difetti (la lentezza a volte esasperante del ritmo, la fissità amimica di Carole/Deneuve nel suo girovagare inconcludente con lo sguardo perso o in contemplazione dell’abisso oltre le fratture dell’asfalto, l’insistenza sulla ripetitività di gesti routinari che inducono fastidio perché sembrano rituali vuoti) diventano occasione per noi di sperimentare almeno in parte, e protetti dalla condizione di spettatori, le sue percezioni disturbanti, quelle emozioni o quegli stati mentali che vogliamo credere totalmente distanti: la disperante perdita di certezze, il senso panico di solitudine e di vacuità, l’assenza angosciosa di confini.

Carole, a cui la giovanissima Deneuve (22 anni) presta la sua bellezza abbagliante ed ancora acerba, non è poi molto diversa da quella bambina della foto; il suo corpo adulto e capace di seduzione involontaria ospita un pensiero immaturo che respinge non solo la possibilità di contatto sessuale, ma d’ogni altra relazione capace di produrre un’intimità avvertita come mortalmente pericolosa. Degli aspetti giocosi dell’ infanzia, forse già a suo tempo piena di tormenti e distanziamenti (come pare suggerire nella foto la disposizione su più piani e lo sguardo disanimato), non sembra rimanere traccia attuale se non nell’apparente festosità delle novizie in bianco – e quindi asessuata e claustrale- che ogni tanto giocano a palla nel cortile accanto; o nelle risate condivise (ma risuonano false in Carole come derivassero da un contagio di ilarità più che da reale piacere) con la collega di lavoro che racconta il suo divertimento alla visione del film di Charlot. E da quel passato remoto forse vengono le notti con occhi sbarrati, turbate dai rumori dell’intimità amorosa nella stanza accanto, suggestiva ripetizione di un’intollerabile scena primaria.

Poiché, come dice Racamier, ‘ darsi è perdersi e vivere è morire ’ Carole sembra avvertire con angoscia catastrofica l’idea di accostarsi o farsi accostare da qualcuno, come se ciò comportasse un rischio concreto di dissoluzione o di disintegrazione. Ciò è evidente, già prima del crollo, nel pervasivo sentimento di repulsione provato nei confronti dell’amante della sorella e nel disgusto/attrazione verso gli oggetti di lui. Per certi versi non fa differenza se chi le si avvicina abbia le intenzioni amorevoli, generose ed ingenue di Colin o propositi predatori come quelli del padrone di casa. Parlando di lei in modo sguaiato, ma con qualche evidente ragione, gli amici di Colin al bar dicono che è un caso patologico, ma l’amante della sorella è forse l’unico a mostrare nei suoi confronti una reale preoccupazione per lei quando dice che forse sarebbe bene rivolgersi ad un dottore. Di Cenerentola, come lui la chiama, Carole ha l’apparente docilità, la dipendenza e la passività; non possiede tuttavia il desiderio consapevolmente accolto né la spinta evolutiva capace di trasformare simbolicamente la cucina, da luogo delle ceneri sudice e della degradazione, in focolare caldo ed accogliente, a rappresentare, col superamento del senso infantile di indegnità e di colpa, la riconciliazione con la madre e l’accettazione di una vita adulta ed operosa. Infatti in Carole i gesti familiari e donneschi già poveri, gradualmente si disintegrano, rimanendo in ultimo solo la parvenza della funzione, come quando stira la canottiera di Michael con un ferro staccato dalla presa o cuce la vestaglia mentre tutto il resto, intorno e dentro di lei, si strappa.

Cristallizzata, come una Bella Addormentata, in una condizione di vita apparente senza possibilità alcuna di risveglio, Carole appare destinata ad un isolamento privo di calore e di pura contemplazione narcisistica ben oltre i 100 anni previsti dalla fiaba, incapace di sopportare l’incontro con l’Altro. Forse non è un caso che lavori in un centro estetico e sembri circondata da vecchie signore petulanti, streghe maligne e sessuofobiche, dispensatrici di cinismo e diffidenza invidiosa, tanto simili a mummie da sorprenderci con l’urlo di dolore quando C. le fa sanguinare. All’ interno di questa fiaba horror, come abbiamo visto, il bacio del principe riesce a produrre solo repulsione e, più che risvegliare lei rompendo l’incantesimo della solitudine ed interrompendo una lunga attesa preparatoria della maturità sessuale, risveglia in lei spavento ed un risentimento carico di rancore aggressivo. “L’oggetto –ci ricorda Racamier-: ecco il vero nemico per uno psicotico …. L’oggetto è nemico per il solo fatto d’essere investito. Se è odiabile e odiato, è perché è amato. Da qui, essenzialmente, la confusione così frequente negli psicotici tra l’amore e l’odio – una confusione – ci avverte – da non confondere con l’autentica ambivalenza”.

Carole teme e cerca di evitare la separazione da Helene, sorella/madre (amata? odiata?), come teme la presenza notturna di Michael. Il viaggio di piacere in Italia, che Helene si concede, accelera drammaticamente l’involuzione psicotica di Carole sottraendo quella unica possibilità di compensazione garantita in parte proprio da Helene (e che tuttavia, quasi squalificante nella sua cecità, non sa riconosce nella sofferenza di Carole il segno di una pericolosa fragilità – che appunto confonde con la sensibilità). Rimasta sola e quasi senza più pelle, esposta all’attacco di tutto ciò che fino ad allora era stato possibile lasciare fuori almeno in parte, sembra costretta a farsi bosco di rovi, dilaniando chiunque le si avvicini pericolosamente. Suona tragicamente ironico l’avvertimento di Helene nel P.S. della cartolina a non abbandonarsi alla Dolce Vita. Nei 10 giorni che corrispondono alla vacanza di Helene, l’unica difesa possibile di fronte al colpevole desiderio di vivere è per Carole attribuire all’esterno, al mondo, i propri pensieri disturbanti; ma nel delirio il violatore ed il violato si confondono, tanto che non esistono porte o muri che possano proteggerla dagli attacchi del persecutore, poiché distrutto e distruttore sono un’unica cosa. Infine dall’ algida passività di Carole emerge una aggressività spaventosamente efficace.

La casa in cui si barrica inutilmente diventa rappresentazione di quanto sia illusorio il baluardo difensivo eretto da Carole a protezione dal mondo, ma nel contempo è espressione simbolica della sua fragilità strutturale. Ai suoi stessi occhi, nel delirio, è un’ architettura che scricchiola, si crepa e tende al collasso, incapace di realizzare quel miracolo di stabilità di cui la torre pendente di Pisa – che entusiasma Helene nel suo viaggio in Italia – dà invece testimonianza nei secoli. Ĕ anche rappresentazione dell’interno psichico devastato di C., di un ambiente interno in cui vanno accumulandosi i segni dell’incuria, della disorganizzazione caotica e della disintegrazione. Le stanze della casa perdono progressivamente il loro significato funzionale: nella camera da letto C. non riesce ad addormentarsi se non tardi e solo dopo essere stata visitata dal violentatore; al mattino la vediamo abbandonata a terra dopo una notte che sembra di Passione erotica e nel contempo di Crocifissione. La stanza da bagno diventa deposito per tutto ciò di cui Carole vorrebbe disfarsi negandola, come la canottiera di Michael od il cadavere di Colin. In cucina le patate germinano, rappresentazione simil -allucinatoria di una natura ostile, distante e vorace, in cui vita e morte sembrano confondersi, capace solo di gelida e distaccata osservazione; sembrano occhi disgustosi, come il rosone di stucco che incombe dall’alto e la trafigge immobilizzandola e schiacciandola a terra quasi fosse lo sguardo di un dio punitivo o di una crudele istanza superegoica. Il coniglio, mai cucinato, resta in balia delle mosche, a testimonianza macabra dell’incapacità di Carole a preparare, trasformandola, qualunque cosa; sanguinolento e sempre più avvizzito, viene collocato in salotto, privato -anche lui – della testa.

L’inquilino del terzo piano, interpretato proprio da Polanski, si interroga, poco prima del suo crollo psicotico e del volo dalla finestra, sul mistero dell’auto –identità chiedendosi quale differenza vi sia tra perdere un braccio o una gamba e perdere la testa. Carole non sembra abituata a farsi domande, ma sembra altrettanto terrorizzata, privata com’è di quel sentimento di esistere capace di farci sentire esseri umani unici ed irrepetibili proprio in virtù del pensiero, che, più di quanto accada per il corpo, sentiamo nostro e di nessun altro. Nella catastrofe che coinvolge Sé ed Altro da Sé ed annulla i confini tra soggettivo ed oggettivo, l’unica possibilità per Carole di rappresentarsi e rappresentare simbolicamente il mondo è offerta dall’incubo, strumento di pensiero, tuttavia, povero e rigido che, anziché salvarla, la ingabbia e la condanna alla ripetizione. Destinata ad aggirarsi in eterno, come nel corridoio del suo delirio, tra pareti molli e non contenitive all’interno di un percorso senza uscita, imprigionata come un insetto dentro una boccia di vetro, fa venire a mente ciò che Racamier dice di Teseo lo schizofrenico.

Sappiamo che per uscire dal labirinto, ed è anche il caso di Carole, non gli fu sufficiente uccidere il mostro divoratore di giovani e vergini; gli fu indispensabile l’intelligenza e l’amore di Arianna ed il suo filo rosso capace di riportarlo fuori, in salvo. La sfida terapeutica, in un caso del genere, consisterebbe in questo: entrare con prudenza nel labirinto del paziente per comprendere il senso del suo tormento e uscirne per non esserne aggrediti o distrutti, come succede a Colin; consentire a Teseo o a Carole – come scrive Racamier – di entrare nella pelle dell’analista, e poi tirarsene fuori –entrarvi per farsi narcisisticamente riconoscere, ed uscirne per fare riconoscere l’autonomia psichica.

Di questa possibilità di evoluzione e risanamento dalla follia esiste un esempio cinematografico nel “Diario di una schizofrenica”di Nelo Risi, film nel quale si racconta di una sfida terapeutica vinta. In quel caso capace di garantire, attraverso la definizione e la difesa dello spazio di relazione, una creativa restituzione di senso alle metafore deliranti ed un’ opportunità per la paziente di riconoscere in sé, integrandoli, gli aspetti negativi della propria identità e nell’altro, oggetto odiabile e amabile, un modello positivo utile alla propria ricostruzione. Intorno a Carole, al contrario, gli spazi interstiziali si sono ridotti fino a collassare (con lo sfondamento intrusivo dei confini) o si sono allargati a dismisura generando deserto. Gli inquilini, partecipi solo quando tutto è già avvenuto, ma comunque incapaci del minimo contatto, se non quello dello sguardo intrusivo o carico di sgomento, pur non avendo le caratteristiche persecutorie o demoniache che i vicini di casa hanno negli altri due films della trilogia, ci spingono a riflettere, attraverso il racconto di Polanski, su un mondo a sua volta malato e tendenzialmente arido, distratto, cinico, superficiale e profondamente intriso di diffidenza, capace al limite solo di spicciative funzioni di cura (come Madame o Helene) e assai poco di amore.

Scheda Repulsion

http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=9127

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