Intervento alla Giornata su Franco Fornari organizzata dal Centro Psicoanalitico di Firenze, sabato 14 maggio 2005, Accademia Toscana di Scienze e Lettere La Colombaria Via S.Egidio 23/1 – Firenze
Quando alcuni mesi fa, nell’ambito della Società Psicoanalitica Italiana, si è programmata una serie di interventi da tenere in diversi Centri di Psicoanalisi per ricordare Franco Fornari a venti anni dalla sua morte, ho provato una emozione particolare.
Al di là dei motivi più ovvi, essa mi è sembrata da ricondurre a qualcosa riassumibile in una sola parola : Finalmente! Perchè in questi venti anni, che per me sono stati anche di intensa partecipazione alla psicoanalisi italiana, prima sul piano delle responsabilità istituzionali, quindi su quello della partecipazione alla attività analitica a livelli diversi, congressi, seminari, scritti, etc., Franco Fornari era come rimasto sullo sfondo, una presenza fondante del mio passato, più che una presenza dialogante nell’attualità ed una fonte di ispirazione per l’orizzonte analitico futuro.
Certo non sarei qui a dire questo, se ritenessi tutto ciò qualcosa da ascriversi ad una esclusiva mia esperienza individuale. Penso invece di avere riconosciuto in questa esperienza i miei modi personali di condividere un fenomeno collettivo che, sia pure con espressività variegata, ha interessato per, tutti questi anni, la più parte del gruppo analitico italiano.
Credo che nelle grandi linee questo fenomeno, in cui come gruppo siamo incorsi, possa essere pensato nei termini di una difficoltà ad elaborare il lutto della perdita di Franco Fornari. E più precisamente ad elaborare il lutto per la perdita di colui che solo vivente ci permetteva di partecipare alla pensabilità del suo pensiero. Con la sua scomparsa credo che per lungo tempo molti di noi si siano sentiti incapaci di pensare i molteplici pensieri che Franco Fornari ci ha espresso negli anni. Intendo la difficoltà ad elaborare il lutto della perdita di Fornari nel senso quindi della difficoltà ad una interiorizzazione del suo pensiero declinato in aree molteplici, interiorizzazione necessaria a renderlo soggettivabile, riesprimibile e sviluppabile secondo una sufficiente invarianza che ne riproducesse la sua vivente originalità.
Le ragioni della difficoltà alla elaborazione del lutto del pensiero di Fornari, credo che vadano ricercate sia nelle caratteristiche del pensiero psicoanalitico circolante nel nostro gruppo tra gli anni ’70 e gli anni ’80, sia, e forse soprattutto, nella peculiarità del pensiero di Fornari stesso. Cercherò di addentrarmi in questo ultimo aspetto; ma poichè questo non può non esprimere che un giudizio mio personale, pur se filtrato da una prolungata e rinnovata compartecipazione collettiva, conviene accennare alla storia del mio incontro con lui.
Esso risale a molto lontano, prima dell’inizio della mia formazione. Da poco laureato, nel settembre ’53, potei partecipare a Roma alla Sedicesima Conferenza degli Psicoanalisti di Lingue Romanze. Mi restò impressa la relazione di Servadio, Il ruolo dei conflitti pre-edipici, soprattutto per avere avvicinato il pensiero di Melania Klein a quello di Bergler. Fu per me il primo incontro con il manipolo di quegli analisti con cui di lì a poco avrei iniziato il mio cammino: oltre Servadio, la principessa di Lampedusa, Musatti, Perrotti, Corrao, Molinari e, appunto, Franco Fornari. Il ricordo di alcuni, in quella giornata, mi si confonde con le immagini dei tempi successivi, così forse anche per Fornari, di cui però, come una sorta di imprinting, registrai e mi rimase stampata, tra i capannelli, durante il coffee-break, l’alta figura con la testa reclinata sulla spalla sinistra e lo speciale sorriso con cui si rivolgeva, nel dialogo, all’interlocutore del momento. Ma poi passarono in buona parte gli anni cinquanta.
Terminata l’analisi, fu durante la mia prima supervisione con Musatti che manifestai l’intenzione di rivolgermi a Fornari per la seconda. Mi fa una certa tenerezza, ricordare la benevolenza con cui Musatti tentò timidamente di dissuadermi perchè Fornari era troppo kleiniano per me, già a rischio di compromissione, evidentemente, in questo senso. Aveva infatti già suscitato una certa perplessità la mia volontà di tradurmi Invidia e gratitudine, appena uscito. Il vero incontro con Fornari fu di lì a poco, in via Plinio, ove una mattina gli presentai due casi che potevano iniziare l’analisi. Scelse lui, praticamente, quello di un paziente la cui sintomatologia ossessiva mi impegnò in seguito nella gestione analitica delle sottostanti importanti angosce e modalità relazionali psicotiche che Fornari mi insegnò a cogliere e di cui mi aiutò a leggerne il senso, assieme all’attenzione per il rigore del setting e per la processualità dell’evoluzione fantasmatica. Fu lì che cominciai a farmi un’idea del modo di pensare di Fornari.
Un modo che immediatamente mi affascinò e che indubbiamente attivò in me una tendenza imitativo-identificatoria. A distanza di anni, dopo il percorso che ha segnato il costruirsi di un mio modo personale di soggettivizzare la psicoanalisi, sia nell’operare che nel rifletterci sopra e teorizzarla, modo quindi oramai distinto da quel pensiero di Fornari che tanto mi aveva coinvolto, credo di essere in grado di descriverlo e valutarlo e quindi di ripensare sulle ragioni della difficoltà ad elaborarne il lutto.
Il Fornari di quegli anni (fine ’50 inizio ’60) veniva dall’esperienza psichiatrica con gli psicotici che aveva cercato di dilatare in senso psicoanalitico e fenomenologico con la frequentazione di Margherita Sèchehaye a Ginevra, ma ormai era decisamente aperto alla assimilazione ed elaborazione del pensiero di Melania Klein, secondo le cui linee sviluppava la sua visione metapsicologica classica.
L’intensità della assunzione, nel suo pensiero analitico, della concezione delle relazioni oggettuali, a costituire l’universo fantasmatico della realtà interna secondo le descrizioni della Klein, ma anche con attenzione particolare a Money-Kyrle, soprattutto per quanto attiene alle vicende che ne configuravano la posizione schizo-paranoide e la posizione depressiva,alla loro gestione attraverso l’identificazione proiettiva ed introiettiva e quindi alla riparazione, certo mi colpì molto.
Nella supervisione, nel seminario continuativo che tenne a molti di noi sul caso Richard, nei suoi primi lavori anche pubblicati sulla Rivista di Psicoanalisi e negli interventi a riunioni e convegni ed in parte nei contributi confluiti nei Nuovi orientamenti della psicoanalisi, che uscì poi da Feltrinelli nel 1966, l’identificazione proiettiva, la scissione, la negazione e l’identificazione introiettiva come modalità difensive dall’angoscia dell’aggressione al Sè nella posizione schizo-paranoide e come difesa dall’angoscia dell’attacco all’oggetto, con l’apertura quindi dell’universo della colpa, nella posizione depressiva, mi parvero costituire il suo nucleo di pensiero all’epoca più appariscente. Dopo, a ripensarci, mi accorsi che a suo fondamento già da prima era sostanziale in lui l’assunzione dell’idea di Freud dell’istinto di morte. E che lo sviluppo che ne dette la Klein sul piano clinico contribuì alla sua adesione al mondo fantasmatico che ella descrisse.
A dire il vero Fornari si era espresso sul punto già nel 1950, nel Secondo Congresso Nazionale della SPI. Nel suo intervento dal titolo: Aggressività narcisistica e aggressività oggettuale, riferì su alcune manifestazioni distruttive infantili prive di tensione aggressiva verso l’oggetto, che egli considerava narcisistiche in quanto espressione di una tendenza autoaggressiva pura, distinguendole da manifestazioni aggressive edipiche con impronta di tensione aggressiva oggettualizzante, ritrovando una equivalenza tra auto-aggressività ed istinto di morte. (Le due Gradive, 1982, p.54.) Per quanto questo iniziale aspetto del giovane Fornari non mi fosse allora così presente, negli anni successivi, quando mi trovai ad identificare la formazione del Sè, elaborando la teoria del pensiero di Bion, col costituirsi della pellicola di pensiero nella mente primitiva, connettendola al narcisismo libidico contrastante le angosce alimentate dal narcisimo distruttivo, mi resi conto che i miei riferimenti espliciti a Rosenfeld si impiantavano su un sottofondo di pensiero che si rifaceva all’influsso di Fornari che mi portavo dentro.
Se quindi Fornari seguiva la Klein e ce la proponeva nei termini della relazione d’oggetto, mi fu chiaro fino da allora però che sulla traccia di un linguaggio che attingeva alla fenomenologia, egli preferiva il termine di presenza al termine di oggetto, considerando il primo adatto alla descrizione di vissuti psichici originari e meno esposto ad equivoci adultomorfi, e quindi facendo intravvedere con ciò un peculiare statuto metapsicologico. Egli scrisse nel ’63, al termine della Vita affettiva originaria del bambino (p. 196) :
“Poichè la presenza si determina in quanto riconosce come mondo esterno (esternalizzazione) ciò che essa è originariamente (animazione autoplastica dell’esperienza) la presenza stessa può riconoscersi secondariamente nel mondo esterno, sia sotto forma di figura umana che sotto forma di qualsiasi altro oggetto del mondo, nel quale la presenza, come fatto originario, possa presentificarsi (….). Il mondo può diventare testimone della presenza originaria non semplicemente in funzione della tensione istintiva, ma soprattutto in funzione della intensità del bisogno di inveramento della presenza originaria nel mondo (sottolineatura mia); formulazione questa che può essere accostata alla concezione freudiana della libido nei suoi aspetti libidici narcisistici e oggettuali, contemporaneamente però presenti fin dall’inizio. La saturazione della tensione istintiva sotto forma di soddisfazione sembra però una condizione indispensabile per il favorevole e sempre più esteso sviluppo dell’area del mondo suscettibile di fare da ricettacolo alla esperienza buona originaria. Questo bisogno di vedere presenziati nel mondo reale e nelle sue apparenze percettive (bisogno per il quale Merleau-Ponty definisce la percezione come un atto di fede) i contenuti della presenza come esperienza originaria, costituisce a nostro modo di vedere, la radice di tutte le funzioni rappresentative degli oggetti, i quali, sul piano affettivo, avrebbero, all’inizio della vita psichica e, in parte, per tutta la vita, lo scopo di testimoniare il più possibile e di inverare, la originaria esperienza buona, generata dalla esperienza di piacere. Ne viene di conseguenza che, in mancanza di soddisfazione istintiva adeguata (che animandosi nella presenza buona permette al bambino di vivere testimoniando la presenza stessa del mondo) quando cioè il bambino vive una frustrazione eccedente, si trova esposto all’universo della presenza cattiva. Questa può essere considerata come la presentificazione degli istinti di morte, dalla quale il bambino finisce per essere più o meno mortificato in ogni sua possibilità evolutiva biologica e psichica. Nei casi normali la funzione del mondo di testimoniare al bambino la presenza buona originaria viene assunta in modo specifico dalla madre, nella misura in cui la esperienza primitiva di piacere è offerta al bambino dalla madre e presenziata dal volto di essa”.
Ho citato per esteso queste parole di Fornari perchè mi parvero fin da allora aprire nuovi orizzonti. Al bisogno di inveramento della presenza originaria nel mondo tornava in anni successivi il mio pensiero quando mi addentrai a mettere a fuoco, oltre alle reverie, il concetto bioniano di preconcezione nell’incontro con la realizzazione e quindi con lo svilupparsi del pensiero nella concezione. Direi che l’assimilazione della visione di Fornari aveva reso pacifico per me il discorso di Bion, e questo anche sul punto dell’atto di fede nella trasformazione in O, come modalità di formazione del pensiero in presenza dell’oggetto e non in relativa sua distanza-assenza parzialmente frustrante, come nella trasformazione in K. La trasformazione in O, ove il Sè diventa l’oggetto presente ma ignoto si poteva ricondurre per me all’affermazione di Fornari che la saturazione della tensione istintiva sotto forma di soddisfazione, e quindi di presenza dell’oggetto, è condizione indispensabile per il favorevole e sempre più esteso sviluppo dell’area del mondo, suscettibile di fare da ricettacolo alla esperienza buona originaria.
Il mondo fantasmatico Kleiniano e la sua traduzione in termini di presentificazione nella realtà della presenza originaria intesa come animazione autoplastica della esperienza, segnò fino dagli inizi degli anni sessanta il contributo dell’incontro con Fornari al formarsi del mio pensiero psicoanalitico. Ne posso prendere a simbolo la sua breve dedica sulla copia che mi regalò della Vita affettiva originaria del bambino e che con commozione ho rivisto in questi giorni : Occasione di scambi fecondi. Ma la tendenza, già da allora, a perseguire, da parte di Fornari, che subito mi apparve sentirsi come ristretto nei confini di quella che a me pareva essere la psicoanalisi,a perseguire,dicevo, una dilatazione speculativa che estendeva il suo modello oltre l’ambito dell’operare psicoanalitico, ad ambiti che lo trascendevano, segnò, dopo una prima fase di mia partecipazione, un mio graduale prendere le distanze.
Questo, oggi, mi pare cominciarsi a rivelare nel ’64 al XXV Congresso degli Psicoanalisti di Lingue Romanze, a Milano, quando, col suo rapporto sulla Psicoanalisi della guerra, Fornari conquistò l’attenzione analitica internazionale. Ciò testimoniò Andrè Green nel suo intervento, con queste parole:
“Su un problema così grave ed impegnativo, per la parte della comunità psicoanalitica che noi rappresentiamo, si sentiva la mancanza di un vero rapporto: si sentiva la mancanza di un documento che rendesse conto dell’estensione del problema, del modo in cui ne hanno presa visione i sociologi e gli psicoanalisti, di un lavoro che ci mettesse davanti alle nostre responsabilità morali (….). Per parte mia non esito a dire che il suo lavoro mi pare il più importante, su questo problema, dopo Il disagio della civiltà”.
Ricordo che partecipai al Congresso con giovanile entusiasmo preparando con cura il mio intervento che iniziò sintetizzando come intendevo il pensiero di Fornari :
“La psicoanalisi, nel modo di intenderla e presentarla di Fornari, sembra poter interpretare la crisi della guerra come il fallimento di difese che gli uomini adottano nei confronti di angosce psicotiche che si evidenziano nello strutturarsi e delimitarsi dei gruppi; sembra indicare nella originaria responsabilità riparativa, propria dell’uomo, la via per una più autentica fondazione dei valori; sembra, nell’avvicinare l’atto intellettivo del conoscere alla problematica affettiva del nascere insieme (co-nascere), contribuire al problema della conoscenza”.
Ma, messi a fuoco questi che allora mi apparvero tre punti cruciali del pensiero di Fornari, aggiunsi :
“Tali ampi orizzonti stimolano a riportarci alla quotidiana esperienza psicoanalitica clinica per trovarvi ancoranti e produttivi confronti”.
E sviluppai il mio intervento sul primo dei tre punti sottolineati, cioè su alcune ipotesi sulla fondazione dei gruppi, descrivendo un paziente in analisi alle prese con il problema di adesione ad un partito politico. (Rivista di Psicoanalisi, n. 3, 1964)
Tuttavia, anche se solo oggi me ne sono reso conto, già allora, mentre padroneggiavo quanto Fornari mi partecipava negli scambi che a vario titolo avvenivano tra noi, anche in vista del Congresso, il fatto di avere incentrato su un caso clinico in analisi, rintracciandovi possibili verifiche del pensiero speculativo di Fornari, il mio intervento pubblico, denunciava in me una preoccupazione che peraltro solo più tardi si manifestò appieno. Fu infatti nel 1973, nel XII Convegno Scientifico della SPI che presentai il lavoro Fantasmi, interpretazione e setting. Vi proposi per la prima volta l’idea che il metodo analitico si basasse sulla congiunzione dei parametri costituiti dai fantasmi, dalla interpretazione e dal setting, nella loro integrazione soltanto capaci di promuovere il processo analitico e di individuare i caratteri della relazione analitica.
Fu con una certa titubanza che illustrai a suo tempo a Fornari il mio pensiero, perchè avevo chiaro che il suo modello analitico della mente era per lui comunque applicabile alla lettura di ogni campo in cui l’anima umana si esprimesse. Per me invece il mio modello pretendeva individuare certe condizioni riguardanti soltanto la seduta d’analisi ed individuare un tipo di pensiero che poi chiamai funzione analitica della mente che nel modo più compiuto nella seduta di analisi opera. Alla mia titubanza subentrò la sorpresa quando con candore, dopo una piccola pausa di riflessione, Fornari col suo sorrisetto mi disse: Beh, certo si tratta di individuare, in ogni campo che ci interessi esplorare analiticamente, i modi propri di porsi dei parametri del triangolo analitico. Provai ancora simpatia e tenerezza per la sua capacità di ritenere di poter conciliare le cose, ma io sapevo che non erano conciliabili. All’epoca avevo chiaro lo sviluppo vertiginoso del pensiero di Fornari.
Ho riprovato l’impressione che ne avevo allora, leggendo lo scritto di Vittorio Biotti sul tema (Contrappunto, luglio 2004). E’ una messa a punto magistrale. Ne estraggo questo passo:
“La passione speculativa di Franco Fornari, il coraggio della sua intelligenza critica e delle sue utopie, ci sono apparsi straordinari, già in questo suo tratto di cammino. Un giorno qualcuno ne scriverà, da un vertice di competenze multidisciplinare, la storia compiuta. E si potrà allora meglio percepire il significato culturale ed etico, oltre che clinico e di storia delle idee della psicoanalisi, del suo generoso essere nel mondo. In tutti i passaggi, anche nei sentieri interrotti, della sua ricerca. Territorio transitabile dalla psicoanalisi diverrà, nel suo pensiero, ogni atto comunicativo, ogni situazione nella quale si verifichino fenomeni di transfert, quindi il sociale ed il linguaggio, la biologia e la psicosomatica, il testo scritto, la musica e l’opera d’arte, la storia e la politica, il terrorismo e la struttura diabolica del potere segreto. In una nuova psicoanalisi laicizzata ed ostensibile, utilizzabile in contesti più ampi, nel confronto con altre scienze e discipline, nasceranno i grandi temi della seconda metà degli anni ’60, gli studi più compiuti sulla guerra e sulla situazione atomica ed il deciso passaggio ai primi anni ’70, dal mistico alla istituzione. In una parallela continuità di ricerca nei temi clinici delle psicosi, della depressione in particolare, del controtransfert nelle psicosi e nei temi della fantasmatizzazione del parto-nascita, del mondo protomentale del bambino, di una teoria onirica della sua conoscenza del mondo e della psicofisiologia del sogno, alla ricerca di quella luce interna che proviene dai miti, dai sogni, dalle memorie oscure intrauterine. Fornari si occuperà del linguaggio cogliendo le regolarità di significazione dell’inconscio, alla ricerca di competenze affettive primarie metastoriche, comuni ad ogni uomo, di un codice di sopravvivenza originario, naturale, genitale a protezione della vita. Prenderanno forma e spessore la teoria coinemica e poi la teoria dei codici affettivi, che individuano il declinarsi dei codici decisionali inconsci all’interno dell’individuo, nella famiglia, nei gruppi, nelle istituzioni, in un’etica possibile, fondata sulla natura, di consensualità e democrazia di affetti. In un lungo viaggio alla riscoperta dell’anima”.
Se in queste righe troviamo la possibilità di abbracciare con uno sguardo la maggior parte dei contenuti del pensiero di Fornari, vi troviamo, soprattutto nello stile con cui Vittorio Biotti illustra l’apporto di Fornari all’esplorazione di questi contenuti e nell’esplicito riferimento alla sua passione, l’indicazione di quale fosse il rapporto che Fornari ebbe con la sua metapsicologia analitica. Un rapporto che coinvolse la sua identità, perchè intanto bisogna dire che Fornari incarnò quel momento che per primo fu di Freud e che fonda la psicoanalisi, e che sia pure a partire in Freud anche dalla sua autoanalisi e dalle sue analisi con i pazienti, si dispiegò in un ambito riflessivo a costruire una teoria della mente. Questo momento riflessivo che si realizza nella mente di un analista, in misura maggiore o minore, in una posizione di distanza ottimale dalla condizione analitica operativa, è condizione essenziale, assieme appunto al distinto, ma collegato, momento operativo nell’hic et nunc del lavoro analitico, sede del particolare pensiero dell’analista al lavoro, perchè una mente possa definirsi analitica. Fornari ebbe non solo particolarmente sviluppato e fecondo questo momento riflessivo, ma a partire dalla metapsicologia messa a punto da Freud, nella direzione dello sviluppo che ne dette la Klein, cercò di estenderla in forme di pensiero e di linguaggio tali da ritenere di poterla usare ad ogni livello e manifestazione in cui si esprima la mente dell’uomo individualmente e collettivamente. Ma c’è ben di più: con la sua metapsicologia allargata tale in un senso ben diverso da quello di Meltzer, che restava fondamentalmente legato al paziente ed alla operatività analitico-clinica bensì piuttosto quasi in un senso antitetico a quello di Bion, che affermava che la psicoanalisi non poteva contenere tutta la mente umana, Fornari usava l’estensione della lettura psicoanalitica ad ogni espressione dell’anima, come modo appassionato della realizzazione di sè. E’ questo il rapporto di Fornari con i suoi pensieri psicoanalitici. Nel porsi come il pensatore dei suoi pensieri egli da una parte si affermava e cresceva con essi, dall’altra induceva in tutti noi che con lui ci ponevamo in una posizione di ascolto e di elaborazione, a non potere quasi disidentificare i suoi contenuti dal suo modo di argomentarli, di comunicarli, di farsi esso stesso il linguaggio suo proprio attraverso cui li esprimeva. In questa mia visione del rapporto tra Fornari ed il suo pensiero sembrano potersi collocare queste parole di Francesco Corrao su di lui :
“Ho sempre ammirato, talora con stupore, la sua straordinaria capacità di sostenere connessioni concettuali tra elementi eterogenei appartenenti ai campi più disparati del sapere, ed il coraggio ed il candore con cui cimentava il suo pensiero nelle rilfessioni più originali ed in certi casi paradossali”.
E più oltre
“… vorrei anche rievocare la suggestione generata dal suo discorso parlato ovvero di quel discorso da cui era parlato, che negli ultimi anni aveva acquistato i caratteri della fascinazione, come accade alla parola che mira, con tenace convinzione, alla scoperta della verità”. (Da Gruppo e funzione analitica, 1985, n. 3)
Così la vertiginosa capacità di astrazione e generalizzazione, riportando ad una metapsicologia analitica estensibile alla comprensione di una vastissima area della mente e dei suoi prodotti più diversi come espressione dell’individuo e dell’istituzione, diventò appunto, secondo me, la testimonianza dell’identità stessa di Franco Fornari e la via per sostenere il suo bisogno di leadership.
E per arrivare allora al capolinea del filo di discorso che ho intrapreso, fu questo il motivo delle difficoltà che credo tutti noi abbiamo patito ad elaborare il lutto della sua perdita, cioè la difficoltà a staccare da lui come persona il suo pensiero, facendone insegnamento da conservare in sè, ma anche arricchire, dibattere, problematicizzare, trasformare ed integrare nell’evolversi del pensiero psicoanalitico. E così su di lui come analisti italiani abbiamo fatto silenzio.
Personalmente sono stato aiutato ad uscire da questo silenzio ripensando ai passaggi dell’incontro di Fornari con Bion. Nel ’72, quando Bion venne per la prima volta a Roma, all’Istituto di via Salaria, Fornari restò deluso del seminario e mi disse amareggiato che Bion era matto. Credo dipendesse dalla frustrazione per l’impossibilità di incontrarsi con Bion su un terreno di elaborazione logica. Bion spiazzò l’aspettativa di discutere le sue teorizzazioni cercando come suo solito di riproporre nel seminario un clima comunicativo a livelli di pensiero primitivo, fatto di parole, azioni e silenzi, destrutturando quello più organizzato con cui i presenti si ponevano nel seminario. Tale condizione cercava naturalmente di recuperare, a livello di gruppo, l’auspicabile condizione mentale dell’analista nella situazione di lavoro col singolo paziente. Questa condizione negativa rispetto al pensiero conoscitivo tradizionalmente inteso è poi, si sa, il punto di partenza della teorizzazione analitica aperta ed insatura che Bion ci ha lasciato. Di questo primo incontro con Bion in Italia ho scritto già anni addietro e anche allora raccontai delle reazioni di molti di noi, tra cui di Fornari stesso. Ma dopo di allora Fornari si cimentò in una riflessione profonda sulla teorizzazione di Bion. Nel Convegno con cui commemorammo Bion a Roma, appena dopo la sua scomparsa, e che fu raccolto in un numero monografico bilingue della Rivista di Psicoanalisi del 1981, Fornari partecipò con un lavoro intitolato: Da Freud a Bion. Nella parte centrale del lavoro egli discute il tema della trasformazione in “O” che molto lo aveva colpito. Fornari ci racconta Bion scrivendo che :
“”O” rappresenta l’ignoto, l’inconoscibile, ciò che non si è ancora evoluto. L’analista può solo essere all’unisono e per conseguire questa condizione deve sottoporsi alla disciplina della astensione dalla memoria e dal desiderio ed infine anche dalla percezione sensoriale e dal conoscere stesso (….) ma per Bion la condizione psichica scientifica dell’analista l’atto di fede. La trasformazione in “O” è quindi chiamata cambiamento catastrofico che avviene nello psicotico ed è caratterizzata da sovversione del sistema, violenza e invarianza. L’analista per cogliere la realtà psichica, deve negare la realtà sensuale”.
Continua Fornari :
“Bion non esita a consigliare il distacco dalla realtà che può essere accostato alla cadaverizzazione di Lacan, come forma di disciplina, che unita alla memoria sognante permette di arrivare in contatto con “O”. In tal modo egli arriva alla stupefacente conclusione: Il campo psichico psichico presenta la seguente caratteristica: esso non può essere contenuto nell’ambito della teoria psicoanalitica. In tal modo, dopo un intenso lavoro rivolto a definire la psicoanalisi come scienza, getta la spugna. Riferendosi alla sua stessa costruzione teorica ed alla griglia, in Trasformazioni, annota: Non bisogna credere che una comprensione di questo genere sia necessaria. Al contrario è possibile scorgere in questa comprensione uno sfondo di memoria e desiderio e quindi la necessità di evitarla”.
Prosegue Fornari
“E’ dunque possibile osservare all’interno del processo di evoluzione del pensiero di Bion, una rottura di continuità che vorrei definire come attacco di Bion stesso alla sua conoscenza, nel senso preciso di attacco a ciò che egli stesso ha teorizzato come trasformazione di conoscenza (K)”.
Evidentemente Fornari era rimasto assai scosso da questi punti del pensiero di Bion. Più oltre, infatti, prosegue:
“Partito dunque con l’ipotesi di un attacco alla conoscenza, messa in atto dall’Es e dagli assunti di base, Bion finisce con il mettere in atto lui stesso attraverso il concetto di trasformazione in “O” un attacco alla conoscenza psicoanalitica in generale e in particolare alla teoria psicoanalitica (K) elaborata da lui stesso (….) Il concetto di trasformazione in “O” contiene dunque una aporia non risolta. Essa rivela una contraddizione interna al pensiero di Bion che merita una chiarificazione. Bion doveva avvertire un certo disagio a proposito della elaborazione del suo ultimo pensiero. Si tratta in fondo di un disagio che ci ha lasciato in eredità, come un abbozzo di depressione che il mistico anzichè elaborare ha lasciato in eredità all’istituzione. Le riflessioni stimolanti di Bion su Il mistico e il gruppo nel capitolo di Attenzione e interpretazione, mostrano che egli intendeva oscuramente coinvolgere il gruppo psicoanalitico nei riguardi della sua avventura scientifica, che lo poneva evidentemente nel vertice del mistico. Doveva essere certo di scandalizzare il gruppo psicoanalitico nel proporgli un discorso mistico. Questo Convegno potrebbe allora costituire il luogo dove l’aporia non risolta che è nel pensiero di Bion, potrebbe dare origine ad una depressione nel gruppo anzichè essere elaborata dal singolo individuo”.
Il pensiero di Fornari su Bion ci dà la misura del disagio che procurava in lui un impedimento a livello logico l’aporìa che gli sembrava evidente. Ciò lo confrontava con una distanza che lo faceva soffrire perchè c’era qualcosa in Bion, per lui, che gli pareva non riconducibile al pensiero scientifico. Per lui questo non poteva non comportare anche una sofferenza depressiva in Bion stesso e Fornari già in questo lavoro si investì del compito di portare avanti una sorta di riflessione riparativa. Per parte mia, che partecipai a quella commemorazione di Bion parlando della psicoanalisi non come teoria, ma come funzione psicoanalitica della mente, aprendo il discorso quindi proprio nella direzione di ciò che conteneva i motivi di perplessità di Fornari, colpì assai che lui fosse così turbato dal concetto di trasformazione in “O”, da non fermarsi sulla descrizione del legame che Bion affermava tra O e K col parlare della centralità dell’oscillazione O<=> K. Tanto che nel tempo io ho sempre ritenuto assumibili assieme gli elementi (contenuto/ contenitore), PS <=> D, O <=> K. Tutti e tre nella centralità della loro interdipendenza. Bion ha colto che la conoscenza psicoanalitica per mantenersi scientifica, se proprio volessimo mantenere per essa questo attributo, è modificata dall’oggetto di cui si occupa: la mente umana. Ed è modificata in modo tale che l’atto conoscitivo deve operare attraverso tutti i livelli del pensiero, da quelli più primitivi a quelli più evoluti, con necessarie sospensioni di alcuni di essi in particolari momenti della relazione analitica. La depressione che Fornari attribuisce a Bion mi sembra molto connessa alla sua sofferenza a dilatare la conoscenza oltre ciò che Bion ha indicato con K, e che credo corrispondere in Fornari alla sua grande capacità di coerenza ed astrazione attraverso la quale metteva in gioco se stesso. Fornari ha recuperato un suo ordine logico sul punto quando è approdato a confrontare quanto detto con la sua visione del funzionamento mentale nei termini ritmati del funzionamento del giorno e del funzionamento della notte. Nella stessa relazione citata, sviluppando questo pensiero, concluse come con una apertura di orizzonte la relazione stessa.
Di lì a poco, entro quattro anni, fece un ben altro magnifico sforzo. Riprese in mano l’opera di Bion. Ce ne ha lasciato una stesura inedita, che poi Francesco Corrao, avutala da Bianca Fornari, ha pubblicato l’anno della morte di Fornari su Gruppo e funzione analitica. Sono 44 dense pagine. Ho rinunciato a parlarne. Chiedono uno studio ed un commento meditato. Mi sono interrogato sul senso che questo confronto deve aver avuto per Fornari. L’affetto e il rispetto, che mi hanno legato a lui, hanno fatto dire a me stesso che se mi fossi cimentato con questo suo scritto in modo da parlarne a fondo vi avrei voluto dedicare tutta la riflessione e la disponibilità affettiva di cui potevo essere capace. E perciò, davanti ad esso, oggi mi sono fermato. Domani, tentando di verificare, se possibile, il carattere delle differenze tra il pensiero di Bion acquisito e sviluppato negli anni e quello che Fornari di lui ha inteso negli ultimi tempi della sua vita, potrò eventualmente verificare anche se sono stato capace di sbloccare e raccontare una parte di quel pensiero di FrancoFornari che per tanto tempo, anche per me, era rimasto congelato.