Relazione presentata nel seminario psicoanalitico “Senza paura, senza pietà. Lavorare psicoanaliticamente con adolescenti violenti e deprivati”
13 dicembre 2014, Ist. Montedomini, Sala del Giardino d’Inverno, via dei Malcontenti 6, Firenze.
Prima di tutto vorrei contestualizzare il mio intervento. Visto che, come sappiamo, la conoscenza avviene anche a partire da un vertice osservativo, vi specifico il mio.
Come psicoanalista sono stata a lungo consulente dell’Ufficio Sociale Minori in cui da più di 50 anni lavorano persone ed équipe orientate in senso psicodinamico, che hanno prodotto una ampia e documentata cultura su come conoscere e come lavorare con i ragazzi che commettono reati. (Senise, Giaconia, Roi e più recentemente Maggiolini con l’equipe del Minotauro)
Dopo quasi 15 anni di questo lavoro indirizzato alla valutazione, alla formulazione di progetti a supporto del Giudice e di trattamenti di sostegno psicoterapeutico agli adolescenti autori di reato in messa alla prova, ho chiesto io di essere messa alla prova come Giudice Onorario.
Qui mi sono ritrovata a rivisitare i miei parametri di comprensione del lavoro con gli adolescenti autori di reato e ad integrare il mio vertice di osservazione con un punto di vista giuridico, che avevo vissuto da commensale esterna, cercando quindi di “far lavorare” il mio essere psicoanalista in un contesto altro, di acquisire una funzione nuova senza perdere il mio modo di funzionare e la mia specificità professionale. Penso che questa sia una necessità costante in questo nostro mondo in cambiamento in cui, come psicoanalisti, ci troviamo ad occuparci di problemi che forse anni fa avremmo considerato territorio di altre discipline o semplicemente di altri specialisti, il lavoro con i migranti per esempio, o il lavoro con i ragazzi che commettono reati, con gli adolescenti deprivati o a rischio psicotico nei servizi e nelle comunità, solo per citarne alcuni, ma sono così tanti….
In particolare il lavoro in queste aree conferma, se ce ne fosse bisogno, quanto l’adolescenza ponga gli adulti che se ne occupano continuamente dinnanzi alla necessità di rinnovare i propri parametri. E con buone ragioni, se la consideriamo cerniera tra interno ed esterno, come l’età in cui l’intrapsichico è relazionale e in cui le trasformazioni sociali non sono sociologia ma investono profondamente la costruzione di sè.
E voglio ancora una volta citare la felicissima espressione di Jeammet che parla del mondo esterno dell’adolescente come di “uno spazio psichico allargato”.
Nel 1918 in Vie della terapia psicoanalitica Freud, a seguito degli sconvolgimenti del dopoguerra e del bisogno di cura che veniva da una società traumatizzata e lacerata, immaginava già delle istituzioni terapeutiche, che descriveva come “ambulatori dove lavoreranno un certo numero di medici con preparazione psicoanalitica, che si serviranno dell’analisi per restituire capacità di resistenza e di lavoro a uomini che altrimenti si darebbero all’alcol a donne che minacciano di crollare sotto il peso delle privazioni e a bambini che hanno di fronte a sé l’inselvatichimento o la nevrosi… Dovremo allora affrontare il compito di adattare la nostra tecnica alle condizioni che si saranno create”.
La profezia di Freud si è avverata benché solo in parte e in questo momento con non poche difficoltà, anche legate all’emergenza economica, che ha ridotto le risorse per i servizi psicosociali.
Per gli adolescenti in grave difficoltà e per le loro famiglie ci sono i servizi pubblici socio assistenziali e specialistici e le comunità terapeutiche.
Ma, come dicevo, uno psicoanalista può incontrare il disagio mentale grave al suo esordio anche in altri luoghi, il Tribunale per i Minorenni ad esempio è un luogo in cui la competenza analitica può aiutare ad aprire a percorsi trasformativi quella che si presenta come una via d’ingresso alla malattia psichica grave.
L’incontro con gli adolescenti che infrangono le regole, che mettono in atto comportamenti dirompenti, che ripetono fughe, vandalismi in famiglia e fuori, che agiscono una sessualità precoce, promiscua e rischiosa, oppure si chiudono in ritiri sociali acuti, pone di fronte al problema di come si possano trasformare in domanda di cura comportamenti che incapsulano oltre al dolore la sofferenza psichica, di cui spesso non esiste alcun riconoscimento.
Ci troviamo di fronte a domande non formulate se non attraverso azioni ripetute e dirompenti, che esprimono un malessere acuto che ha bisogno di essere intercettato sulle soglie in cui quasi casualmente si presenta, per poter essere tradotto e trovare un riconoscimento di senso.
In questo senso il Tribunale per i Minorenni può e deve poter diventare luogo di incontro e di rappresentazione.
Ho in altre occasioni descritto come i servizi terapeutici per la giustizia minorile in Italia siano stati fondati da psicoanalisti, Novelletto a Roma, Senise Giaconia e Roi a Milano e che molte riflessioni sulla tecnica della psicoanalisi dell’adolescenza siano nate dal trattamento degli adolescenti antisociali. Novelletto (1986) ha cercato di sottrarsi ad una spiegazione riduttivamente sociologica e comportamentale dell’antisocialità in adolescenza, concependo il reato come espressione di una fantasia di recupero maturativo, equivalente ad una sorta di “delirio maturativo”, in una prospettiva vicina alla concezione di Winnicott della tendenza antisociale.
Ma già Aichorn intorno agli anni 30 riteneva che la psicoanalisi potesse essere un ottimo strumento di comprensione del significato di un gesto deviante, che fosse una premessa indispensabile per l’intervento di operatori sociali e educativi, per accettare e facilitare l’incontro con la sofferenza psichica grave che spesso lo sottende.
Vorrei oggi sottolineare come si possa esercitare una funzione analitica anche in un contesto in cui non c’è un paziente o una famiglia, portatori di una domanda di cura, e non c’è nemmeno una relazione terapeutica diretta in senso stretto.
Io sono ovviamente convinta che il pensiero psicoanalitico sia efficace anche in contesti non esplicitamente terapeutici, proprio per la sua specifica attenzione alla ricerca del significato dei comportamenti e delle relazioni umane, ricerca che può rendere parlante la sofferenza psichica di minori e famiglie e aprire a vie di cura.
Ma sono anche convinta che la funzione di produrre senso e di ricercare la verità sia anche dell’istituzione giuridica: lo psicoanalista nel TM non propone quindi una logica diversa o peggio antagonistica a quella dell’istituzione in cui opera. Per essere psicoanalista non deve certo ghettizzarsi o diventare pregiato intervento di nicchia.
Al contrario è importante fare lavorare la psicoanalisi in un contesto “altro”, mostrando come solo l’attenzione al significato inconscio del comportamento possa essere la chiave di una risposta efficace.
La verità dell’inconscio e la verità giuridica sono in realtà strettamente intrecciate, etica psicoanalitica ed etica giuridica hanno molti punti di isomorfismo.
Quando si sintonizzano sul vertice comune che mette il soggetto al centro dell’attenzione, permettono di evitare quell’oscillazione tra gli opposti di assistenzialismo e sanzione, che talvolta avviene e sempre impedisce le trasformazioni.
Il diritto ha a che fare con la legge, legge delle differenze di generazione, di collocazione del soggetto all’interno della struttura delle relazioni famigliari e sociali, e questa legge prima di essere riconosciuta nel diritto positivo è la legge costitutiva dell’inconscio.
Per l’etica giuridica il soggetto è soggetto di diritto come per la psicoanalisi la costruzione della soggettività, intesa come processo continuo e non come oggetto di possesso, è un diritto.
Nel TM come psicoanalista che esercita una funzione di giudice onorario incontro adolescenti che delinquono e che in molti casi cercano negli agiti illegali e violenti strade di autoaffermazione, per tenere vivo un sentimento di esistenza quanto mai precario o che, pur non commettendo reati, hanno condotte di vita borderline e rischiose, che fanno temere anche per la loro incolumità, non più contenibili da famiglie che hanno perso o non hanno mai avuto una sufficiente competenza genitoriale e una adeguata struttura di ruoli.
In molti casi quello che si presenta come disturbo del comportamento è l’espressione di un disordine mentale, che viene alla luce quando il compito evolutivo centrale è quello di costruire un senso di sé integrato e socialmente riconosciuto.
Baranes sostiene che tutti gli adolescenti attraversano passaggi psicotici o funzionamenti psicotici transitori. Per questo l’adolescenza costituisce un modello fisiologico della psicosi e in questo senso dà informazioni velate sul funzionamento psicotico. La psicosi giovanile può essere considerata come l’espressione del fallimento di questo lavoro dell’adolescente nella costruzione della propria individualità.
La logica del tutto o niente, il carattere impressionante ed eccitante del mondo interno, le fantasie di intrusione, la confusione tra il dentro e il fuori, la sperimentazione di stati di depersonalizzazione, sono alcuni degli elementi di confine tra normalità e patologia del funzionamento adolescenziale.
Il problema dell’adolescenza è l’organizzazione simbolica di un mondo interno che è sentito come estraneo, caotico e pericoloso.
Come ci ricorda Raymond Cahn, l’assenza di riti iniziatici organizzatori dell’identità e del ruolo del soggetto nel gruppo sociale, viene sostituita da un’odissea che è una sorta di epopea individuale alla ricerca di un Sé.
Il corpo sociale viene esplorato attraverso la pratica quotidiana dell’eccesso, che sostituisce il rito collettivo presidiato dagli adulti e funzionale al riconoscimento delle trasformazioni nella continuità tra le generazioni.
Nel corso di questa odissea possono sorgere espressioni psicotiche, segnale del fallimento della funzione di contrattazione con la realtà esterna e della mancanza della definizione di un confine tra questa e la realtà interna, confine che anche nella vita “normalmente nevrotica” va continuamente negoziato.
I disturbi della condotta che caratterizzano gli adolescenti “intercettati” dal Tribunale per i Minorenni, sono l’espressione del fallimento dell’ambiente, per citare Winnicott, che non ha sostenuto e promosso la negoziazione tra significati soggettivi e significati sociali e non ha sostenuto il processo di individuazione, la costruzione soggettiva di sé, che avviene in una continuo interscambio tra la realtà interna e la realtà esterna.
Anche i breakdown psicotici in adolescenza non sono, quindi, solo qualcosa che avviene nella mente dell’adolescente, ma sono anche l’espressione di una disorganizzazione caotica dei ruoli familiari e dell’ambiente che dovrebbe sostenere il suo sviluppo, riconoscendolo come persona soggetto di bisogni, di diritti e di doveri, all’interno di una dinamica strutturata delle relazioni interpersonali.
All’origine di questi blocchi non si trovano sempre singoli eventi traumatici puntuali e destrutturanti, ma spesso vi sono microtraumi che, a partire dall’infanzia, si snodano lungo l’arco di sviluppo in una continua microrottura della barriera antistimolo, segno del fallimento dell’ambiente a regolare i bisogni di relazione e di crescita.
E’ frequente rintracciare in queste storie vicende transgenerazionali. La storia di ciascuno si basa sul progetto e la fantasia che i suoi genitori avevano organizzato prima del suo concepimento. Ogni bambino è portatore di un progetto, di un desiderio originario, che lo colloca nel posto che si trova a occupare nella propria storia famigliare. La psicoanalisi ha mostrato come il riconoscimento del figlio e della sua soggettività sia normalmente interferito da processi di proiezione, quando il narcisismo del ruolo di padre o madre può prevalere sulle esigenze di sviluppo del bambino, portando a diversi esiti patologici, dalla costruzione di un falso Sé adattato, a conflitti nevrotici, a violente rotture fino al crollo del Sé. (Aulagnier, Kaës)
La dinamica centrale che può essere riconosciuta al fondo di un rischio di destrutturazione psicotica in adolescenza, si basa su queste proiezioni transgenerazionali da parte della famiglia che minano alla radice la costruzione della soggettività e che esplodono quando il compito evolutivo centrale diviene quello della seconda nascita, la nascita sociale.
Se le radici del problema sono spesso nell’infanzia, è nella prima adolescenza che prendono forma drammatica, quando la ricerca di rispecchiamento diventa più ampia in funzione della propria autorappresentazione e più acuti i contrasti.
La domanda centrale sulla propria identità in questi casi trova risposte che non sostengono la ricerca di sé e chiudono ogni possibile sviluppo, imprigionano in una rappresentazione frutto delle proiezioni genitoriali che soffoca la nascita di un’idea di sé evolutiva.
La drammaticità di questa crisi, che si manifesta anche attraverso i comportamenti, se non trova uno spazio espressivo in cui la drammatizzazione diventi parte di una struttura relazionale e in un rispecchiamento rispettoso, può portare ad una sconfitta della nascita del soggetto, che si esprime nell’impossibilità di accedere ad uno spazio psichico autonomo differenziato e a un pensiero originale.
La mente non è più accompagnata ma invasa dall’altro e niente più può essere così sicuro da permettere di sentirsi al riparo dalla sua presenza intrusiva, dal suo sguardo minaccioso.
Ogni rappresentazione autonoma di sé, ogni ricerca di sé, che può avvenire grazie alla presenza rispettosa dell’altro, che sola consente di sopportarne le tribolazioni, diviene proibita
L’agire e la ripetizione possono diventare il solo modo per farcela, il niente del negativo è meglio della sofferenza del pensare. L’ansia rispetto al proprio funzionamento mentale e al rapporto con il proprio corpo sessuato impedisce di tollerare le incertezze e i dubbi del cambiamento.
Vorrei spiegarmi raccontando una storia:
Maria 14 anni compiuti da poco vive con la nonna dopo che sua madre, che conduceva una vita confusa, è morta, forse di infarto. Maria, la terzogenita da padri diversi, aveva allora 6 anni, ed era in quel momento sola in casa con lei e ha inutilmente cercato di soccorrerla.
Dopo una permanenza in comunità, con l’affido alla nonna ha trovato stabilità e ordine, il fratello che è il preferito della nonna sembra non aver problemi, la sorella ha invece avuto giovanissima un bambino, che ha lasciato nella comunità alloggio in cui aveva trovato ospitalità, in cui lei non riusciva a stare, e dove non è più andata a riprenderlo.
Anche Maria fino all’inizio delle medie non ha apparentemente dato problemi, poi è successo il finimondo e alla fine…. erano continue fughe da casa, furti, rapporti sessuali promiscui, droga.
La nonna non ha più autorità, le sue regole non sono più osservate, Maria è violenta anche con lei, l’aggredisce fisicamente, distrugge gli oggetti in casa e poi si dispera per quello che ha fatto.
La nonna chiede che la mettano in una comunità educativa, ma questo non migliora il suo stato.
La descrivono come una furia: quando le salta, distrugge quello che incontra, porte, letti, suppellettili, aggredisce fisicamente gli educatori e si procura delle ferite.
La risposta degli adulti riesce solo a rispecchiarla come cattiva, arrivano le denunce anche dalla comunità, le minacce di allontanarla.
I sui agiti sono certo inaccettabili, ma non sono nemmeno interrogati, ammutoliti dalla definizione di disregolazione del comportamento.
Anche la nonna non vuole più saperne di lei, Maria è come sua madre e lei non vuole più avere a che fare per questo, non vuole ricordare, non vuole nemmeno capire e aiutare a capire che cosa nel tempo abbia scatenare le sue furie.
Sembra che quello che si aspettava, il fantasma che aveva messo in Maria e che doveva prima o poi uscire, abbia preso corpo e lei con il suo sguardo lo ha cementificarlo.
Le continue segnalazioni portano “la situazione” davanti alla Procura minorile e da qui parte la richiesta di indagine al Tribunale.
La vedo, l’accompagnano gli operatori della comunità e quelli territoriali che seguono la famiglia. La nonna non viene, non se la sente, ha chiuso con Maria.
Maria si aspetta che il tribunale la punisca. Mi dice sprezzante e con lo sguardo perso che non c’è niente che la interessi: “Non mi importa di niente, non c’è futuro, voglio solo vivere oggi la mia giovinezza e voglio tornare a casa”.
Le chiedo di lei, racconta, ma soprattutto chiede. Dice che quello che la fa infuriare in comunità sono i no, quando chiede una sigaretta e non gliela danno perché ne ha già fumate 5, la dose massima, non capisce perché 5 e non 6, lei proprio non capisce.
Pian piano sembriamo avvicinarci al problema, quello che la fa infuriare è che non capisce, non capisce il senso delle cose di quello che le accade, a partire dalle regole che sono l’espressione della voce degli adulti, una voce che per lei è senza senso.
Una voce che la disturba anche quando è sola. Allora rompe tutto.
La sua trasgressività violenta è la sua reazione disperata di fronte al non capire il mondo e se stessa imprigionata nella rete delle proiezioni.
La nonna ha potuto occuparsi di lei solo al prezzo che lei inibisse la sua curiosità, le sue domande sulla verità della sua origine, sulla vita e anche la morte di sua madre, su suo padre. Maria, fin a che ha potuto, è stata in attesa, quanto paralizzata, quanto siderata non sappiamo, ma con l’adolescenza non c’è stato più tempo: doveva sapere di sé, per trovare se stessa come persona.
Ma non aveva trovato nessun contenitore emotivo, che desse senso alle sue domande e potesse contenere la sua angoscia. Senza un rispecchiamento in cui potesse trovare posto una verità tollerabile il suo bisogno di sapere si è potuto esprimere solo in modo folle.
Il silenzio della nonna sulle responsabilità della madre insieme alla negazione sulle proprie, ha distorto la verità delle relazioni e ha inevitabilmente portato alla ripetizione, costringendo la soggettività di Maria in una gabbia fatta di proiezioni e di attribuzioni.
Questa ripetizione pare coinvolgere a cascata anche gli operatori sociali e educativi che sembrano non poter fare altro che rimandare a Maria, che è convinta di non essere riuscita a salvare sua madre, l’immagine di una bambina colpevole, cattiva, irriconoscente, violenta. Sullo sfondo la si può vedere sola e infelice, ma solo talvolta e molto sullo sfondo.
Il susseguirsi delle attribuzioni non fa che rinforzare la rappresentazione negativa di sé in un circolo vizioso in cui il sintomo, nella sua fissità ripetitiva, sembra anche costituire una via d’uscita alla sofferenza.
I legami sono spezzati e senza legami non c’è pensiero.
La progressione nel disinvestimento libidico su di sé e sul mondo quando si è cresciuti in condizioni ambientali e umane traumatiche è ben descritta nel libro di Paul Williams “Il quinto principio”.
Che tipo di intervento si può fare in una situazione come questa? Come si può trasformare il senso di questa vicenda, che viene portata davanti al Tribunale con la richiesta di una decisione?
L’incontro con il Giudice Onorario costituisce un’occasione per riscrivere la scena, per dare un nuovo senso che sia alla base della decisione che sarà presa.
La terzietà di questa valutazione, giuridicamente legittimata, si annoda all’ascolto sulla verità dell’inconscio. Alla base della decisione che sarà espressa dal Tribunale non sono tanto i fatti accertabili ma è la comprensione del loro senso.
Il Tribunale diventa è un setting speciale, è una cornice solenne, un luogo di ricerca della verità, che si pone all’ascolto dell’adolescente e del suo bisogno di verità, ed è questo che orienta la comprensione dei suoi comportamenti.
In questo senso concordo con quanto scrive Riccardo Romano che il setting psiconalitico riguarda più l’etica che la tecnica, più l’essere psicoanalista che fare lo psicoanalista.
In un caso come quello di Maria, come è possibile evitare di ridurre la risposta ad un assistenzialismo regressivante, ad una diagnosi psichiatrica patologizzante o ad una sanzione punitiva?
Se lo sguardo vuole veramente guardare e non attribuire al soggetto una posizione predefinita, meritevole di sanzione o di assistenza, se l’ascolto cerca di riconoscere il senso degli agiti e il bisogno, ma anche il messaggio di speranza, che veicolano, si può sperare di aprire un nuovo interesse per il proprio funzionamento mentale.
Il problema non si riduce a considerare Maria una buona bambina, una vittima da assistere e proteggere, invece che una cattiva adolescente, una colpevole da punire. L’elemento centrale è il riconoscimento della sua domanda, che chiede risposte da un interlocutore sociale che possa offrire una prima forma di cornice di senso.
Questo incontro, che avviene in una cornice solenne, è carico di aspettative e di emozioni, che ne amplificano la forza, fino ad assumere una dimensione iniziatica presidiata da un adulto.
Io condivido l’emozione di questo incontro e leggo la domanda di sapere chi è nel suo sguardo, la cerco nelle sue parole, autorizzandola ad esprimerla.
Questa è una prima esperienza trasformativa la cui forza è potenziata dal luogo in cui avviene.
Con Maria abbiamo convenuto che i rapporti nella comunità in cui stava erano oramai molto logorati, chiedevo a tutti di salutarsi senza fretta, di resistere alle reciproche incomprensioni fino al completamento della valutazione diagnostica della NPI che avrebbe dato delle indicazioni anche sul suo possibile bisogno dell’aiuto di farmaci, che le permettessero di sentirsi meno vittima delle sue crisi di rabbia. Intanto i servizi sociali avrebbero cercato un’altra comunità con cui iniziare un nuovo rapporto.
Il passaggio avviene dopo poche settimane. Dopo sei mesi Maria nella nuova comunità, con una blanda prescrizione neurolettica e una psicoterapia proprio agli inizi, ha avuto una sola crisi aggressiva grave. In un incontro successivo gli operatori riferiscono che complessivamente sta meglio, non ha più avuto agiti autolesivi e le voci sembrano cessate.
La violenza dell’unica crisi li ha però spaventati e chiedono ai Servizi sociali un ulteriore aiuto.
Davanti al giudice educatori della comunità e servizi sociali si confrontano, esprimono preoccupazioni e riserve e cercano punti di intesa.
La complessità istituzionale rieccheggia il rimpallarsi delle responsabilità nel prendersi cura di lei che ha caratterizzato la sua vita, ma anche il tentativo di ridisegnarle.
La ferita che si riapre anche negli operatori può renderne il senso accessibile al pensiero o potrebbe aprire un baratro, come nella precedente esperienza comunitaria.
Quelle di Maria restano condizioni preoccupanti, ma è ora possibile pensarle ed è possibile lavorare con lei.
Le dispiace per l’ultima crisi, sente di stare meglio. In questa comunità mi dice, ha trovato solidarietà.
Io spero, staremo a vedere, anche se la strada è lunga.
Forse tutti ricordiamo il caso della conversione di Jean Valjean ne I miserabili di Victor Hugo (1862), in cui, secondo Alexander, Hugo anticipò il principio fondamentale di ogni psicoterapia che mira a stabilire un profondo cambiamento nella personalità del paziente.
La conversione di Valjean, che avviene in poche ore, dopo che il Vescovo anziché punirlo per il furto dei candelabri d’argento, gli risponde con straordinaria e inaspettata gentilezza ricorda i resoconti di Aichorn (1935) su pazienti delinquenti in cui si ritrovano gli straordinari effetti del semplice fatto che l’atteggiamento del terapeuta non era critico e moralista, ma piuttosto attento e supportivo.
Anche Jean Valjean prima di accettare il rischio di riconoscere che nella sua vita si era accesa una luce, compie la sua ultima prepotenza, ruba la moneta al piccolo e disperato suonatore di organetto. Ancora una volta per lui è meno doloroso sopprimere proiettivamente la propria disperazione anziché riconoscerla.
Maria non è Valjean e il Tribunale non è il Vescovado, ma ricordo con emozione che, salutandoci ha appena allungato il collo verso di me, quasi senza volere, ma tanto è bastato perché le chiedessi: volevi darmi un bacio, pensa che lo volevo anche io.
Per chiudere ricordo Baranes quando afferma che “la presenza di uno psicoanalista nell’istituzione non si esprime solo nell’esercitare la psicoanalisi in un contesto istituzionale ma nel riportare le riflessioni nate dall’esperienza psicoanalitica dentro l’apparecchiatura istituzionale perché abbia luogo un’attività di metaforizzazione a dispetto degli attacchi contro il pensiero.”
Curare gli adolescenti che esprimono la loro sofferenza attraverso comportamenti antisociali, significa non solo interpretare immagini arcaiche ma anche mantenere e curare una cornice che offra un sostegno corporeo, sociale e psichico, offrendo una possibilità di introiezione non tanto dei contenuti psichici, quanto della possibilità di trasformazione stessa, contenendo fenomeni la cui elaborazione sarà possibile in un ambiente terapeutico. Questa cornice deve essere offerta da tutte le istituzioni che di loro si occupano, entro le specificità che ciascuna esprime in raccordo reciproco.
L’adolescente a rischio di crollo della funzioni di pensiero utilizza la cornice per aprirsi a una speranza di significato. Questa cornice se non si presta alla speranza produce nuove dissociazioni.
Anche il TM può essere un luogo che offre uno spazio perché gli agiti, attraverso i quali si esprime lo stare male psichico, possano essere visti anche come un segno di ricerca di salute entro un’Istituzione che raccogliendo la sfida degli adolescenti nei confronti della Legge e delle regole, ne riconosca, oltre la distruttività, la critica problematica al mondo, che è anche un diritto fisiologico dell’adolescenza.