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The imposter – Storia di un ladro di identità – commento di Benedetta Guerrini

imposterrotante

Regia di Bart Layton, 2012

A cura di Benedetta Guerrini degli Innocenti

“Da quando mi ricordo ho sempre voluto essere qualcun altro”

Frédéric Bourdin, The Imposter

 

Nel 1994 a San Antonio in Texas, un ragazzino di tredici anni, Nicholas Barclay, esce di casa e scompare nel nulla. Dopo quasi quattro anni la madre riceve una telefonata che la informa che Nicholas è stato ritrovato vivo, a migliaia di chilometri di distanza, in Spagna. La famiglia, incredula e congelata in un lutto impossibile, lo accoglie a braccia aperte. Ma niente è come sembra. Come ha fatto Nicholas, biondo e con gli occhi azzurri, a trasformarsi in un ragazzo con la pelle e gli occhi scuri? E perché ha uno strano accento francese? E perché la famiglia Barclay sembra convinta, nonostante le evidenti differenze comportamentali e fisiche, di trovarsi davanti al figlio perduto?

Questa storia vera, trasformata in un film-documentario-thriller dal genio del regista Bart Layton, che si avvale anche di interviste ai veri protagonisti di questo fatto di cronaca, tra i quali Frédèric Bourdin, l’Imposter, si pone e ci pone una domanda fondamentale per la nostra esperienza umana: che cos’è l’identità di una persona, da cosa prende origine?

E ancora: cosa rende una persona se stessa per l’esperienza che ha di sé e per l’esperienza che ne hanno gli altri? La risposta immediata potrebbe essere: il riconoscersi e l’essere riconoscibile.

L’esperienza di riconoscersi e di diventare riconoscibile è l’esperienza primaria di costruzione di sé, si pone all’origine dell’esperienza psichica, e richiede, per potersi realizzare pienamente, un contesto intersoggettivo, come si dice in gergo, o, più semplicemente, il bisogno assoluto dell’altro. Come la psicoanalisi ci ricorda, questo altro che abbiamo bisogno di incontrare per vivere è, in origine, la madre, o per meglio dire un contesto primario rappresentato dall’apparato delle “cure materne” senza le quali “una simile organizzazione … non potrebbe mantenersi in vita neanche per un breve momento”  (Freud, 1911).

Tutti abbiamo esperienza di persone che sembrano avere organizzato la propria esperienza di sé più in relazione alle aspettative ed alle richieste dell’ambiente che in naturale risonanza con i propri bisogni e le proprie attitudini. C’è un’intera gamma di gradazioni che vanno da un atteggiamento sociale particolarmente educato fino alla falsificazione della propria identità, la vera e propria “impostura” che da il titolo al film.

Nel dizionario Treccani impostóre (dal lat. tardo impostor -oris, der. di imponĕre nel senso di «far credere») è “chi, abusando della credulità altrui e allo scopo di trarne vantaggio, fa uso sistematico della menzogna, o finge di essere e di sapere più di quanto sia e sappia, o diffonde teorie, informazioni false”.

E l’impostura può riguardare aspetti parziali, come ad esempio l’usurpare un titolo professionale (come quei finti medici che operano finché non si scopre che non sono nemmeno laureati), oppure, più raramente, può coinvolgere l’identità stessa del soggetto che assume l’identità di un altro.

Qual è allora l’origine dell’esperienza psichica di colui che, al posto di un’identità in cui riconoscersi, sviluppa un’impostura?

Le teorie psicoanalitiche sullo sviluppo ci mostrano come l’impostore sia un individuo che ha massivamente sviluppato le possibilità dell’imitazione, non avendo alcuna capacità di identificazione, e alcun senso di sé (Gaddini, 1984). Una caratteristica della imitazione è il rapido “contatto” con gli altri, in luogo dell’impossibile “rapporto”.

L’impostore usurpa un’identità, inventa una storia che non è la propria, talvolta fino al punto di crederci. Si fa passare per qualcun altro e funziona. E’ un soggetto che “organizza pertanto delle figurazioni imitative in cui si impersona, ma che per essere vere devono sembrare tali al mondo esterno” (Gaddini, 1984). Potremmo dire che l’impostore non ha un bisogno assoluto dell’altro per sviluppare la propria identità ma per poterne rubare una.

Come ci suggerisce Bion: “la bugia non è limitata al campo del pensiero, ma ha una controparte nel campo dell’essere: è possibile essere una bugia” (1970).

Perché un impostore venga svelato come tale occorre che ciò che egli vuole sembrare esista come vero nella realtà ambientale. Egli conta sul fatto che, prima che la sua falsità si riveli, ci sarà un tempo più o meno lungo in cui i suoi artefatti saranno considerati come fatti reali.

Nella maggior parte dei casi, prima o poi l’impostura viene svelata e a quel punto, a seconda delle situazioni, l’impostore può incorrere nella legge. Ma più spesso si trasferisce altrove, dove può cominciare ex novo le sue obbligate attività imitative.

E qui sta l’intersezione con il campo delle perversioni, intendendo il termine perversione nel senso più ampio di funzionamento mentale perverso.

L’aspetto perverso dell’impostura non risiede semplicemente nel bisogno, che può essere anche difensivo, di creare un’immagine e un’identità ingannevole ma tale da permettere di essere riconosciuto in qualcosa che è altro da sé; l’aspetto perverso si situa nell’incontro tra questo movimento psichico difensivo che sta alla base dell’impostura e l’inattesa efficacia dell’illusione che questa identità ingannevole sembra in grado di generare.

Il bel film di Bart Layton mostra, con una chiarezza sconcertante, l’abbagliante effetto della fascinazione che illumina completamente la figura dell’impostore, lo mette sotto i riflettori, ma in una luce infiltrata dalla perversione che anziché illuminare, abbaglia. Quello che è sulla scena, l’impostore, sembra corrispondere pienamente a ciò che da lui ci si aspetta, ma è falso, mentre ciò che è nascosto e precluso, l’impostura, salta agli occhi senza essere visto.

L’atto perverso di piegare la realtà alla menzogna richiede, ancora una volta, un contesto relazionale cioè la presenza, attiva, più o meno inconsapevole, dell’altro che confermi la veridicità, la realtà della menzogna.

Questo è un tema di scottante attualità, in un’epoca come la nostra in cui la caduta dei riferimenti sociali e culturali ci rende più fragili, più incerti su come esercitare la nostra capacità critica e più smarriti di fronte all’alternativa tra credere in ciò che riteniamo vero o autoingannarci credendo in  ciò che,  semplicemente, vorremmo fosse vero.

E qui arriviamo all’altro nucleo forte di questa storia, l’aspetto forse più coinvolgente e sconcertante. La storia di una famiglia che è immersa nel peggiore lutto che una famiglia debba affrontare: quello di un figlio, che ancora bambino, esce di casa un giorno e scompare nel nulla. Peggiore non soltanto perché niente è più devastante della perdita di un figlio, ma perché il non poter sapere che cosa sia successo crea una situazione di sospensione del tempo, uno stallo in cui la mente oscilla continuamente fra speranza e disperazione, un arresto della vita psichica. Un oggetto per poter essere ritrovato, deve essere prima veramente perduto, ci insegna Freud.

Vi verrà da domandarvi “chi è cosa?” in questa storia?

Non si può parlare di bugie, se non si parla di segreti, come ci ricorda Goisis (2009).  Nell’impostura chi è veramente raggirato? La risposta è tutti. E’ un’esperienza di trionfo, anche se, essenzialmente, è prima e soprattutto una questione di sopravvivenza.

Questo film-documentario narra, con una maestria e una suspence veramente non comuni, la storia dell’impatto sconvolgente fra un impostore in cerca di un’identità da rubare per poter sfuggire i propri fantasmi e una famiglia in cerca di un fantasma da poter riconoscere come figlio.

Bibliografia

Bion W. R. (1970) Attenzione e interpretazione, una prospettiva scientifica sulla psicoanalisi e sui gruppi. Armando Editore, 1973.

Freud S. (1911) Precisazioni su due principi dell’accadere psichico. Opere 6, 453-460.

Gaddini E. (1984) Se e come sono cambiati i nostri pazienti fino ai giorni nostri. Rivista di psicoanalisi, 4: 560-580.

Goisis P.R. (2009) Chi non ha mai detto una bugia? Fra normalità, “come se” e falso Sé. Rivista di Psicoanalisi, 55: 67-90.

16 marzo 2014

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