di Giangaetano Bartolomei*
Di recente, nel rovistare in un mio vecchio computer fuori uso da anni, mi sono imbattuto in uno scambio di mail con Sandra Filippini riguardo all’intervento che, allora (dicembre 2006 – gennaio2007), stava preparando per il convegno sul tema “Conflitto e violenza intrafamiliare”, che si sarebbe svolto il 2 febbraio 2007, nell’Auditorium dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, con il patrocinio del Comune di Firenze, dell’Ordine degli Avvocati di Firenze e della Fondazione per la Formazione Forense di tale Ordine. Sandra era del tutto consapevole che la sua grave malattia le concedeva ancora pochi mesi di vita (ci avrebbe lasciati il 10 agosto 2007), ma non per questo aveva interrotto la sua attività clinica e le sue ricerche e riflessioni sui temi da lei trattati nel saggio Relazioni perverse, uscito verso la fine del 2005 presso Franco Angeli. In particolare, poco prima del convegno, Sandra mi spedisce, in una mail del 26 novembre 2006, la prima pagina di un suo nuovo lavoro (Nuove riflessioni sulla perversione relazionale), nella quale riassume i punti di approdo provvisori della sua ricerca e i problemi a suo avviso rimasti aperti. Riporto, qui di seguito, il testo di questa pagina.
Dopo avere scritto Relazioni perverse ho continuato a vedere donne che soffrivano a causa di rapporti di coppia caratterizzati dalla violenza perversa. Alcune donne mi hanno scritto, altre hanno chiesto una consultazione, altre ancora un trattamento. Ho continuato inoltre a riflettere e a discutere con le operatrici dell’Associazione contro la violenza a cui devo gran parte dei pensieri che hanno costituito l’oggetto del libro precedente e che costituiscono l’oggetto di questo. Mi hanno inoltre stimolato a continuare a pormi domande sul tema i dibattiti che ho potuto avere in occasione delle presentazioni di Relazioni perverse e le discussioni con colleghi psicoanalisti interessati all’argomento. Rimane aperta una serie di questioni, restano irrisolti diversi problemi, mentre mi sembra di scorgere qua e là, se non proprio contraddizioni, almeno difficoltà inerenti la logica interna di alcune delle spiegazioni allora proposte.
Posso dire che questo l’ho saputo fin dall’inizio. Ho sempre avuto presente l’incompletezza che caratterizza il mio lavoro e che considero, in gran parte, inevitabile perché irriducibilmente legata al tema.
Ho voluto presentare il mio punto di vista, che era il prodotto – auspicabilmente “provocatorio” di nuovi pensieri – della mia esperienza professionale che coniuga insieme la formazione e l’attività clinica psicoanalitica con la sensibilità femminista ed il lavoro con il Centro contro la violenza. D’altra parte credo che, poiché si tratta di un fenomeno interumano molto complesso, quello del maltrattamento psicologico o della perversione relazionale, è un problema che non ha una spiegazione, ma piuttosto molte, e spesso concorrenti, spiegazioni parziali.
Tra le obiezioni che mi sono state poste, una di quelle che è ricorsa più di frequente è che, nel libro del 2005, ho tracciato un profilo di personalità del perpetratore mentre ho sostenuto che non si può tracciare un profilo corrispondente per quanto riguarda la vittima. Come se volessi sostenere che perpetratori si nasce, mentre vittime si diventa. Non è proprio così che la penso, per quanto ritenga, come ho già detto, che quello del diventare vittima è un percorso che molte donne potrebbero fare e non fanno perché non hanno incontrato un perpetratore, oppure che molte donne fanno quando incontrano un perpetratore, ma che, se riescono a lasciarlo, possono non ripetere più nella vita.
Ho insomma voluto sostenere che una volta attratte nelle spire di una relazione perversa, le donne annaspano per molto tempo senza riuscire ad uscirne. Quali siano le ragioni di questa spesso lunga permanenza in un rapporto che fa soffrire; se, come ho sostenuto sulla scorta di altre autrici, questo dipenda dalle caratteristiche della perversione relazionale, piuttosto che da un profilo di personalità precedentemente stabilito – e identificabile – costituisce, appunto, una questione che ammette multipli livelli di risposta.
Nessuno dei quali può prescindere comunque da una preliminare descrizione dei modi in cui il maltrattamento si verifica e dalle tappe che, una volta entrata nel tunnel, la donna si trova a percorrere.
Nella prima decade del gennaio 2007, poi, Sandra ha ultimato la stesura definitiva del testo del suo intervento al Convegno, nella quale sono confluite anche le riflessioni contenute nella pagina qui sopra riportata. Fortunatamente mi trasmette, per e-mail, il testo completo e definitivo del suo intervento al Convegno, che oggi siamo in grado di pubblicare per la prima volta. In questo suo intervento si delineano, tra l’altro, le nuove domande che Sandra si andava ponendo riguardo ai temi trattati in Relazioni perverse (2005) e si intravedono le nuove, promettenti linee di ricerca che intendeva seguire.
(Giangaetano Bartolomei)
Quando la coppia non funziona. Conflitto o violenza?
Sandra Filippini (2 febbraio 2007)
Introduzione
Invitata a prendere la parola a questo incontro, mi sono chiesta quale potesse essere il mio contributo, soprattutto considerando il fatto di trovarmi in un ambiente per me insolito: non tra colleghi “psico”, ma tra giudici e avvocati. So di essere stata invitata perché ho studiato il campo delle “relazioni perverse”, come ho chiamato le relazioni di coppia infiltrate dalla violenza psicologica. Dicendo questo, facendo questa dichiarazione di apertura, entro di fatto in medias res.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha presentato a Bruxelles, nel 2002, il primo rapporto mondiale su violenza e salute, che ha dato l’avvio alla campagna globale per la prevenzione della violenza. Il principio base di questa innovativa iniziativa è che la violenza è un problema primario di salute pubblica nel mondo intero e che bisogna fare congrui investimenti in ogni nazione per prevenirlo e curarlo(1). Cito i titoli di alcuni dei sette capitoli di cui si compone il rapporto: “Abuso e trascuratezza nell’infanzia da parte dei genitori e datori di cure”, “Violenza sessuale”, “Violenza da parte di partners intimi”. In quest’ultimo capitolo, una delle voci, oltre al maltrattamento fisico e all’abuso sessuale, è rappresentata dal maltrattamento psicologico.
L’oggetto della mia riflessione è costituito appunto dalla violenza psicologica nella coppia. Insieme a quella fisica e sessuale, viene chiamata anche violenza “domestica”, sebbene quest’aggettivo, “domestico”, smorzi, poco opportunamente, l’alone sinistro che circonda invece il fenomeno. Gli studi nei paesi industrializzati sono ormai numerosi e mostrano che il 20-30% delle donne ha subito violenze fisiche o sessuali da un partner o un ex-partner nel corso della vita per periodi che possono essere di alcuni mesi o di decine di anni. Le violenze psicologiche sono molto più frequenti e altrettanto distruttive(2). La violenza psicologica nella coppia, benché sottesa a tutte le altre – perché ogni volta che si mette in atto un maltrattamento fisico si attua con ciò stesso anche un abuso psicologico – se si presenta da sola, senza l’aggiunta dell’attacco al corpo dell’altro/a, è tuttavia meno facile da individuare, sovente perfino per chi ne è vittima. Molto spesso infatti questo tipo di violenza viene confuso con la categoria, più rassicurante e normale, del “conflitto” di coppia.
Com’è evidente, infatti, molte coppie, anche ben funzionanti, attraversano fasi di conflitto; ci sono inoltre coppie disfunzionanti e molto conflittuali che tuttavia non presentano lo stigma della violenza.
Che cosa, allora, caratterizza il maltrattamento psicologico, e soprattutto: si tratta di un fenomeno riconoscibile, descrivibile, in termini medici diagnosticabile? Io credo di sì, ed ho cercato, al pari di altri autori, di dimostrarlo. Un fenomeno riconoscibile, dicevo, a patto però che lo si conosca. Si dice, in medicina, che non si possono fare le diagnosi che non si conoscono, e questo è particolarmente vero nel nostro caso. Molto spesso, infatti, il maltrattamento, non riconosciuto e non diagnosticato – quando non si possegga uno schema mentale per comprenderlo – viene interpretato ricorrendo ai più abituali e rassicuranti luoghi comuni: che tutte le coppie hanno problemi, che se la coppia non funziona la colpa va sicuramente ripartita al 50%, che spesso la realtà non è come appare, e che magari la vittima è soltanto in apparenza tale, mentre in realtà è l’agente vero e proprio della perversione della relazione. La domanda “Che cosa fa lei per indurlo a comportarsi come si comporta?”, è, come cercherò di dimostrare, una domanda mal posta.
In questa breve relazione, compatibilmente con gli inevitabili limiti di tempo, cercherò di descrivere la fenomenica del maltrattamento psicologico, di fornirne una sintetica rappresentazione.
Devo premettere che il mio studio e la mia esperienza riguardano quelle situazioni – credo che siano la maggioranza – in cui è l’uomo che esercita violenza sulla compagna. Dicendo questo non escludo di certo che possa avvenire il contrario – cioè che sia la donna a maltrattare il compagno – o che il maltrattamento psicologico avvenga anche in coppie omosessuali, come pure nelle coppie genitore-figlio o tra fratelli. Io mi limito, però, a ciò di cui ho esperienza e su cui ho potuto riflettere.
Il mio interesse per questo tema è nato infatti dal lavoro che ho svolto, e svolgo tuttora, come consulente di un centro per l’assistenza a donne e minori vittime di violenza. Ho avuto anche l’opportunità di avere in analisi o in psicoterapia uomini che m altrattavano le loro compagne e donne che subivano maltrattamento. Ho potuto così mettere a confronto punti di vista diversi: quello di chi lavora sul maltrattamento con tecniche specifiche che risentono di un punto di vista femminista, e quello della mia formazione psichiatrica e psicoanalitica. Lavorando con donne maltrattate e con le operatrici dell’accoglienza, sono sorti in me molti interrogativi a cui, in qualche modo, la mia formazione mi ha aiutato a dare risposta. Ascoltando le vicende del maltrattamento subìto ho cominciato a interrogarmi sulla personalità degli uomini che maltrattano le loro compagne, a chiedermi se si potessero ravvisare elementi comuni, ricorrenze evidenziabili, tratti che potessero condurre sulle tracce di un profilo o di profili di personalità. Mi sono interrogata, nello stesso modo, anche riguardo alle donne che subiscono il maltrattamento. Cominciando con il
chiedermi perché le donne subiscano, a volte tanto a lungo.
In altra sede(3) ho spiegato, in forma più estesa di quanto è possibile oggi, quelle che a me paiono essere le caratteristiche essenziali del maltrattamento psicologico, che ho chiamato, con riferimento alle sue caratteristiche psicodinamiche, perversione relazionale. Dal mio punto di vista, che è il punto di vista di una psichiatra interessata a comprendere i meccanismi che sottostanno ai comportamenti e li producono, io vedo la perversione relazionale – o maltrattamento psicologico se così preferiamo chiamarlo – come un insieme di comportamenti messi in atto da uno dei due partners allo scopo di controllare e dominare l’altro, di sottometterlo e trattarlo come una cosa non umana.
Come affrontare dunque il problema del maltrattamento nella coppia, come organizzare uno schema in modo da riuscire a fornire, in poco tempo, un quadro, per quanto incompleto, tuttavia sufficiente a fornire una prospettiva sul campo di indagine? Come rendere il più possibile chiara una situazione così complessa in cui sono in gioco le dinamiche psichiche e i comportamenti di (almeno) due attori(4)? Come evitare di cadere da un lato nella tentazione di considerare soltanto le dinamiche intrapsichiche (che ha come conseguenza il fatto che i comportamenti dei due attori vanno considerati su un piano di parità, affinità, analogia), e, dall’altro, in quella, opposta, della relazionalità a oltranza che, pure, da sola non riesce a rendere conto della complessità degli eventi in questione, o, peggio, rischia di farci cadere in un atteggiamento “buonista” (“lui non si comporterebbe così se non fosse che lei…”)? Ogni volta che ci penso non mi viene in mente che uno schema, quello che ho posto alla base del libro Relazioni perverse. Questo schema si impernia, si può dire, su tre voci, possiamo chiamarle tre titoli, i seguenti: “La dinamica della perversione relazionale”, “La psicopatologia del perpetratore”; e, infine, “La vittimizzazione, ovvero come si diventa vittima”.
La dinamica della perversione relazionale
Ho accennato al fatto che considero la perversione relazionale come la messa in atto di comportamenti atti a dominare e controllare la vittima, a trattarla come cosa non umana.
“Che cosa si intende per maltrattamento (abuse) psicologico? Molte persone, in relazioni strette, si arrabbiano, si criticano, si trovano in disaccordo. Nel calore della lite anche coppie felicemente sposate possono insultarsi o comportarsi in modi che ricordano il maltrattamento psicologico. Ma ciò che rende quest’ultimo differente è la funzione che esso svolge nella relazione di abuso. Per abuso emozionale (psicologico) noi intendiamo l’uso di forme di aggressione verbali o paraverbali – ma non fisiche – per intimidire, soggiogare e controllare un altro essere umano. Non si tratta soltanto di un comportamento spregevole e crudele, ma di un comportamento che serve a consolidare il potere e a mantenere la paura. Esso acquista forza dalla violenza passata e presente e dalla minaccia di violenza ulteriore”(5)
Marie-France Hirigoyen(6), nel suo studio sulla violenza nella coppia, espone una serie di passaggi che il perpetratore percorre allo scopo – più o meno cosciente – di pervertire la relazione7. Il primo è rappresentato dalla seduzione (dal latino seducere, condurre via, sviare, quindi attrarre irresistibilmente, ma anche corrompere, subornare). La donna sedotta, dice Hirigoyen, è: “[…] immobilizzata in una tela di ragno, tenuta a disposizione, psicologicamente incatenata, anestetizzata. Non è consapevole dell’effrazione avvenuta” (p. 99 cit.)
Vengono messi in atto comportamenti tesi all’appropriazione: la donna viene, appunto, tenuta a disposizione. Isolata dal suo contesto non deve avere altro referente che il compagno. Nessun altro, infatti – insinua lui – la può capire veramente. Allo scopo di mantenere il potere, egli mette in atto una forma di comunicazione che si può a buon diritto chiamare perversa e che consiste nel rifiuto della comunicazione diretta e nell’uso di messaggi, per così dire, trasversali, messaggi che minacciano e intimidiscono. Si può realizzare uno scollamento tra messaggio verbale e comunicazione paraverbale (l’insieme dei segnali non verbali come tono di voce, tipo di sguardo, atteggiamento del volto, ecc…); il perpetratore (o perverso relazionale, espressione di cui più avanti giustificherò l’uso) può proferire una minaccia con un tono di voce neutro e con uno sguardo impassibile. Le allusioni enigmatiche, le minacce espresse in tono allusivo e misterioso non servono ad altro che a far crescere la paura nella donna, disorientarla, tenerla sotto scacco. La comunicazione non comunica, non realizza uno scambio, non produce nulla. Così quando lei gli
chiede che cosa sta succedendo, di che cosa lui è scontento, si sentirà rispondere: “Non c’è niente da dire! Tu sei sempre la solita esagerata! Non sai fare altro che lamentarti!”
Se lei non capisce, lui dà sempre l’impressione di sapere. Ma quello che lui capisce di lei è sempre molto frustrante: lei per lui è un’incapace, una scema, oppure è fisicamente sgradevole, brutta, una cattiva madre, ecc… vengono messe in atto, insomma, svalutazione, denigrazione, ed anche derisione e sarcasmo. In altri momenti si passa alle offese, all’uso del turpiloquio per riferirsi alla donna, anche in presenza dei figli. Altre volte i figli sono usati come pedine in questa partita la cui regola fondamentale, per il partner perverso è: “Testa vinco io, croce perdi tu”. Ho visto più di un caso in cui veniva apertamente richiesta ai figli una complicità contro la madre, fino al caso, in una coppia di stranieri di diversa nazionalità, in cui ai figli era proibito parlare la lingua della madre e perfino l’italiano, la lingua condivisa: dovevano per forza parlare soltanto la lingua del padre, che la madre non padroneggiava affatto.
Un modo molto efficace per tenere la donna sotto controllo è spaventarla. A questo scopo si usano minacce a volte molto esplicite: “Ti posso picchiare quando voglio!” dice il compagno a una mia paziente, ma anche frasi come “Ti spezzo, ti rompo le ossa, ti ammazzo!” sono alquanto frequenti.
Pure nella sfera sessuale la donna viene tenuta sotto scacco: costretta ad accettare i ritmi, i gusti e le fantasie del marito – e soltanto queste. Di lei, dei suoi desideri e dei suoi gusti non viene tenuto alcun conto.
Nel film Angoscia, Charles Boyer interpreta il ruolo di un marito che cerca di fare impazzire la moglie facendo in modo che la donna (Ingrid Bergman) non si fidi più delle proprie percezioni.
A questo scopo, tra l’altro, altera la luce delle lampade a gas della casa. La donna vive con comprensibile angoscia la sensazione di stare impazzendo. Il finale del film rivela allo spettatore che il marito è uno psicopatico criminale. Dal titolo inglese del film, Gaslight, è derivata un’espressione, gaslighting, che si può trovare nella letteratura anglosassone per indicare comportamenti messi in atto allo scopo, più o meno cosciente, di far sì che una persona dubiti di se stessa e dei suoi giudizi di realtà, che cominci a sentirsi confusa o a temere di stare impazzendo. Gaslighter è la persona che si pone come agente di questo particolare tipo di maltrattamento. Di gaslighting si parla nella letteratura psicoanalitica nordamericana, in cui viene considerato una sottospecie della relazione perversa. Riporto molto brevemente, a questo proposito, un esempio tratto dalla mia esperienza di lavoro in questo campo.
Maria e Giacomo sono sposati da alcuni anni ed hanno un bambino. Fino dall’inizio della gravidanza Maria ha cominciato a notare un cambiamento nell’atteggiamento del marito. Egli era diventato più critico, sempre pronto al rimprovero, svalutante nei confronti dell’aspetto che il corpo della moglie veniva assumendo. Se la donna si lamentava, se si risentiva o chiedeva di parlare di questi comportamenti, veniva tacitata subito: “Non ti si può dir nulla, non sai stare allo scherzo…” In particolare, durante una gita in motoscafo, a gravidanza avanzata, Giacomo, che era alla guida, continuava ad accelerare in modo tale da fare battere la barca sulle onde, suscitando ansia e paura nella moglie, a cui continuava a rispondere che era “fifona”, incapace di seguirlo, di stare alla sua altezza… In sostanza Giacomo, pur creando una situazione di oggettivo pericolo di cui la moglie si preoccupava, metteva in dubbio le percezioni di lei accusandola di esagerare, di essere, lei, in qualche modo, anormale, patologica, sbagliata.
Accenno solo di sfuggita al maltrattamento economico – che, a mio parere, costituisce un sottotipo di quello psicologico. Spesso la donna è ricattata attraverso il denaro che l’uomo non le dà, dopo avere preteso, magari, che lei lasciasse il suo lavoro. Altre volte l’intero peso del mantenimento dei figli viene posto a carico della madre, oppure, addirittura, essa viene derubata dal compagno, con mezzi più o meno sofisticati.
La psicopatologia del perpetratore (8)
Mi propongo adesso di accennare, nel modo più conciso, ai tratti essenziali della personalità dell’uomo che compie violenza psicologica sulla donna. Ho mostrato altrove come la base e il fondamento della psicopatologia del perpetratore sia costituita dal narcisismo nella sua forma arrogante, grandiosa, “a pelle spessa”, ma anche in quella timida, introversa, “a pelle sottile”. Il narcisista arrogante, pieno di sé, sempre pronto a pontificare, a sfruttare le occasioni e le persone, ma anche l’introverso, che è tutto concentrato – per quanto negativamente – su sé stesso, pronto a rimarcare i torti subiti, veri o presunti che siano, risentito verso tutti e tuttavia in fondo gonfio del senso del proprio valore (secondo lui non riconosciuto)(9); entrambi questi tipi di personalità (su cui per motivi di tempo non posso soffermarmi quanto sarebbe necessario) possono andare a costituire il profilo del perpetratore se ad essi si sovrappone il marchio della perversione. Parlo di “marchio” della perversione, ma potrei dire anche “tratto di carattere perverso”, come nella letteratura psicoanalitica esso viene spesso indicato(10).
Se la caratteristica principale del narcisismo è la grandiosità dell’Io – che può o essere manifesta, esibita, oppure inconscia e dunque non evidente – il tratto perverso si caratterizza invece per l’indifferenza per la persona dell’altro, per la mancanza di empatia, per il tentativo costante di trasformare in relazione di potere la relazione con l’altro/a, nel disconoscere, dell’altro, l’umanità e nell’usarlo a proprio piacere. Nel deumanizzare l’altro/a. Nel corrompere la relazione per ottenerne il controllo. Il perverso prova piacere – un senso di trionfo – nel controllare l’altro, nell’obbligarlo a fare, attraverso la manipolazione e la minaccia di un ricatto (psicologico), quello che l’altro non vorrebbe fare. E’ come se il perverso dicesse: “Sono incompetente a creare sicurezza e benessere, ma almeno ho il piacere di squalificare, diffamare, isolare e controllare l’altro come uno pseudooggetto, un mero burattino, uno specchio che non si rende conto che è solo uno specchio”.
Un autore francese, Eiguer,(11) afferma che un tratto caratteristico della perversione è rappresentato dal cinismo. Se a questo termine diamo il significato che gli dava Oscar Wilde il quale sosteneva che ciniche sono quelle persone che conoscono il prezzo di ogni cosa ma il valore di nessuna, credo che possiamo davvero includere il cinismo nella fenomenologia del carattere perverso. L’altro per il perverso non ha un valore, ma può avere un prezzo. In questo senso esso diventa un vero e proprio oggetto che può essere acquistato e usato a proprio piacere. (E’ per questo, come dicevo prima, che io penso che lo strumento economico, anzi, il ricatto economico rappresenti uno dei modi in cui si realizza la violenza psicologica).
Il perverso non ha la possibilità di mettersi nei panni dell’altro, perché l’altro è per lui un mero oggetto da usare per le proprie necessità psicologiche. Una delle quali (forse la principale) è di natura difensiva: l’altro/a viene usato per espellere in lui/lei le proprie parti deboli, fragili, sofferenti; ciò gli permette di denegare la propria debolezza, mentre di quella proiettata nel partner egli detiene il controllo. Ogni volta che fa soffrire la compagna verifica che non è lui il personaggio debole: debole, piuttosto, è lei, e lui può regolarne il grado di sofferenza con il suo comportamento.
Ricordo un paziente perverso che, poiché una sera la moglie, che stava preparando una cena particolarmente elaborata, lo aveva sollecitato a tornare presto, aveva deciso di non tornare affatto, di dormire in albergo, per farla stare in pensiero e darle, in questo modo, una lezione. Era come se lui dicesse: “Di noi due è lei il personaggio debole, non io. E questo posso dimostrarlo facendola soffrire come e quando voglio!” Così, attraverso il diniego della propria debolezza e fragilità, il narcisista perverso ottiene il suo trionfo.
Ho in mente, in sostanza, personalità il cui principio organizzatore consiste nell’avere potere sugli altri e nel manipolarli – con diversi livelli di consapevolezza di farlo. Penso che queste persone abbiano spesso una maggiore aggressività di base degli altri, che abbiano un temperamento (uso questo termine per riferirmi all’insieme dei fattori congeniti, – non acquisiti – che vanno a costituire la personalità) più aggressivo, più reattivo, a volte più attivo e più capace di compiere sforzi. Per questo accade che spesso siano perpetratori persone di successo; persone molto decise, spesso di pochi scrupoli ma molto capaci di produrre sforzo, attività, lavoro. Sono persone poco capaci di empatia, di attitudine al rispecchiamento nell’altro. Sono di solito figli di genitori a loro volta narcisistici, che hanno usato i figli come un’estensione grandiosa del proprio Sé senza essere capaci di dare loro affetto in modo disinteressato. Sono stati bambini in qualche modo sfruttati dai genitori, e che hanno sofferto di questo. Cercano, diventati adulti, di invertire i ruoli, diventando perpetratori e facendo interpretare alla partner il ruolo di vittima che essi hanno forzatamente interpretato da piccoli.
Così, da adulto, il narcisista perverso cerca relazioni che gli diano lustro, sicurezza, che nutrano il suo io. A questo scopo spesso seduce donne di valore, dalle capacità e dai meriti riconosciuti. E’ capace di sedurle perché ha davvero all’inizio un forte interesse nei loro confronti e spesso una notevole intuizione delle loro inevitabili fragilità. Le seduce e se ne appropria mantenendo sempre il ruolo di protagonista. Mai un cedimento, mai un gesto che possa far pensare a una sua debolezza.
Ricordo un altro paziente, sposato da più di 20 anni che non aveva mai detto a sua moglie di amarla.
Il narcisista perverso non si può permettere il rischio di diventare dipendente, perché della dipendenza infantile gli sono rimaste sensazioni dolorose. Il controllo onnipotente è diventato la sua operazione difensiva primaria, essa lo difende, tra l’altro, dal senso di vergogna connesso all’essere stato debole e vulnerabile – e dal temere di poterlo diventare di nuovo. Del narcisista ha l’indifferenza alla relazione, se non in quanto e fin tanto che gli dia lustro o comunque porti carburante al suo Io; del perverso ha la mancanza di empatia, il disinteresse per l’altro inteso come persona dotata di sentimenti e capace di sofferenza.
La vittimizzazione: ovvero come si diventa vittima
Spesso l’inizio di una relazione con un partner narcisista è, per la donna, molto gratificante. Il narcisista, infatti, finché ha bisogno di entrare in possesso della donna, è capace di essere molto affascinante (pensiamo al personaggio di Don Giovanni). Lei è molto coinvolta e ha la sensazione di vivere il rapporto più importante della sua vita. In questa fase la donna, come è normale, è particolarmente esposta ed è in questo momento appunto che si realizza la prima tappa della vittimizzazione, l’effrazione, come viene chiamata da chi si occupa di maltrattamento. L’effrazione consiste in una sorta di colonizzazione della mente dell’altro/a, come se il perpetratore prendesse possesso della mente della donna instillando in quest’ultima l’idea che lui sa, più e meglio di lei, che cosa veramente lei vuole, di che cosa veramente lei ha bisogno.
Lei lo lascia fare, magari si sente lusingata: nessuno l’ha mai capita così. Il problema è però, che a questo punto lei sta cominciando ad abdicare al proprio senso critico per cui, quando il vero e proprio maltrattamento comincia a manifestarsi, lei non è in grado di riconoscerlo. La perdita della capacità di fare un sicuro esame della realtà è, infatti, una delle conseguenze della relazione con un narcisista perverso, ed una delle più dolorose. Come dice Racamier: “A stare con un perverso, quando non lo si è, si soffre”. Una forma specifica di questa sofferenza è la perdita della lucidità, la confusione, il non capire più che cosa sta succedendo. “Penso che lui sia un narcisista…ma non ne sono sicura…” Mi ha scritto una donna dopo avere letto il mio libro…Il senso di insicurezza non è, come si potrebbe pensare, il segno che la donna è capace di criticare le proprie percezioni e i propri giudizi; rappresenta piuttosto la perdita della capacità di fare un sicuro esame della realtà – una delle prime conseguenze dell’azione della perversione relazionale.
La donna comincia a pensare, anche perché è questo che lui le suggerisce, di essere lei quella sbagliata, quella che non capisce, e cerca di adeguarsi alla situazione, di farvi fronte in qualche modo. Mette in atto quelle che vengono chiamate strategie di coping, modi, cioè, per resistere in una situazione che diventa sempre più difficile. A un certo punto accade qualcosa che lei non avrebbe mai pensato di poter sopportare: lui, ad esempio, la offende davanti ai figli, oppure la minaccia, oppure spacca davanti a lei oggetti a cui lei tiene…e lei si rende conto, diversamente da come aveva pensato prima, di potere sopportare. Il limite è ormai spostato, e lei potrà sopportare ancora e ancora…
Inoltre lei non ne può parlare con nessuno, per una serie di ragioni. “Nessuno mi crederebbe, lui è un uomo molto stimato, direbbero che sono io che mi invento le cose”, oppure: “Se ne parlo coi miei, mi rispondono che in tutti i rapporti ci sono dei problemi e che devo sopportare per il bene della famiglia…” Ma soprattutto c’è il fatto che, specialmente all’inizio, è la donna stessa ad essere confusa e incapace di riconoscere che sta accadendo qualcosa di molto grave. Qualcosa che non dovrebbe essere tollerato. L’effrazione ha prodotto il lei un’alterazione del senso di realtà, anzi un’incapacità di fare un esame della realtà.
La donna così si isola: rimane sola con il perpetratore, alla mercé del suo giudizio, che è un giudizio davvero parziale e pregiudiziale. Nascondendo ciò che realmente accade fra loro, finisce con il proteggere il partner che la maltratta. Facendo questo mette in atto una difesa consistente nel denegare la realtà. Il rendersi conto del maltrattamento, oltre che molto difficile sul piano cognitivo, è altrettanto difficile e doloroso su quello emotivo: significherebbe ammettere che il rapporto di coppia, quel rapporto che sembrava così importante, è fallito, che lui non è quello che lei aveva pensato che fosse.
Ma soprattutto, la donna ha paura. Teme il rimprovero, la battuta sarcastica, la minaccia espressa a bassa voce e in tono cupo, oppure gridata durante un’esplosione di collera. Fa di tutto per rabbonire il compagno, ogni suo sforzo va in questa direzione. Farebbe qualunque cosa pur di strappargli un sorriso, un cenno di assenso, un’approvazione. (Anche in questo senso lei si fa carico del problema della perversione di lui). Per evitare la paura lei diventa estremamente malleabile e “ambigua” (come ci ricorda Amati Sas(12)), molto plasmabile e sempre più incapace di riconoscere ciò che sta avvenendo. In questo senso, ad un’osservazione molto superficiale, può sembrare che la donna colluda con il perpetratore. In realtà, come nella Sindrome di Stoccolma, in cui le vittime che si trovano in situazioni estremamente pericolose finiscono per diventare acquiescenti verso gli aguzzini, anzi di legarsi affettivamente a loro, le donne maltrattate si legano in modo sempre più forte all’uomo che le maltratta. Infatti esse vengono completamente assorbite dal compito di mantenere un rapporto minimamente tollerabile con lui. Non si rendono conto di ciò che avviene, perdono il senso della realtà. Almeno finché non interviene qualcosa che apre loro gli occhi (a volte si tratta di scoprire un tradimento da parte del marito di cui non si riuscivano a vedere ‘colpe’, altre volte di rendersi conto all’improvviso, per qualche evento minimo, marginale, di come è lui veramente. Il velo di Maia è caduto).
Ho cercato di esporre il percorso della vittimizzazione come, appunto, un “diventare vittima”. Ma – mi si potrebbe chiedere – qualunque donna può diventare vittima, oppure bisogna esserci in qualche modo predisposte? Detto altrimenti: esiste uno specifico profilo di personalità della vittima designata, allo stesso modo in cui, come ho cercato di dimostrare precedentemente, si può tracciare un profilo del perpetratore? La mia impressione, dopo molti anni di lavoro in questo campo, è che – almeno per quanto riguarda il maltrattamento psicologico di cui mi sono occupata in questa relazione – non lo si possa fare, sebbene si possano evidenziare caratteristiche di oblatività, di capacità e di bisogni riparativi. Tali caratteristiche sono però troppo generiche e non permettono l’individuazione di un vero e proprio profilo(13). Mi sembra più utile, e più interessante, cercare di capire come la vittima diventa tale, quali siano gli esiti, questi sì riconoscibili, dell’avere subito maltrattamento.
Per concludere
In ciò che precede ho cercato di fornire soltanto qualche spunto su un tema molto complesso e difficile. Non ho pretese di completezza, al contrario la mia relazione è deliberatamente insatura.
Proprio per questo voglio concludere in modo, potrei dire, impressionistico, presentandovi due brevi vignette cliniche, molto semplici e molto tipiche.
1) Vedo, in consultazione psichiatrica, Mariella. Essa lamenta una sintomatologia di tipo depressivo. Si sente insicura di sé, sola e incapace di cercare nuove relazioni, sfiduciata. Parla volentieri con me, ma si vede che non si aspetta molto dal nostro incontro. Ha un tono di voce basso, lo sguardo spento, un abbigliamento un po’ dimesso, sebbene sia una donna carina sui trent’anni. E’ venuta a vivere a Firenze da alcuni anni, per convivere con un uomo conosciuto non molto tempo prima. Nutriva qualche dubbio su questa scelta, nonostante si sentisse compresa da lui, anzi più compresa che in qualunque altra relazione precedente. E poi, lui insisteva tanto e anche la mamma (di lei) non vedeva l’ora di vederla sistemata…Adesso non sa più cosa pensare…Sta male, ma non riesce a metterne a fuoco il motivo. Le faccio qualche domanda sul rapporto con il compagno: è contenta della sua scelta di convivere? Come vanno le cose con lui?
“Non so…” (è la frase più spesso usata nelle sue risposte). Di fatto, da un po’ di tempo – ma a ben pensarci sono già alcuni anni – il suo compagno ha cominciato a mostrarsi scontento, irascibile: la casa non gli sembra mai abbastanza ordinata, la cena, a cui pure lei si dedica con attenzione, è sempre “immangiabile”, e di lei lui mette l’accento sul fatto che è poco attraente (in realtà, se non fosse così abbattuta, sarebbe una donna molto carina). A lei sembra di fare tutto come prima, anzi di più, perché ultimamente, visto il cattivo umore di lui, cerca in ogni modo di compiacerlo…Lui l’accusa di sbagliare in ogni cosa che fa e lei non ci capisce più niente… Le chiedo se ne abbia parlato con un’amica, o con i fratelli. Risponde che qui a Firenze non ha amiche così prossime da poter parlare di queste cose. Ne ha accennato ai suoi familiari, ma loro hanno detto che in ogni coppia “non sono mai tutte rose e fiori”… Così adesso Mariella vive in uno stato di incertezza, di confusione, di perplessità: che cosa le sta capitando? E’ davvero un’incapace e una depressa, come lui dice, oppure c’è qualcosa che non va davvero? E perché lui, nonostante sembri disprezzarla, insiste nel chiedere, o meglio pretendere, che lei, con denari suoi, compri per loro due la casa in cui vivono in affitto? Mariella è spiazzata, incerta, confusa, incapace di valutare la realtà, ma anche isolata e sola. Tutti questi, come abbiamo visto, sono i primi segni – riconoscibili – del maltrattamento, segni che però la vittima non riesce ancora a decifrare.
2) Daniela mi è stata inviata da una psicologa a cui si era rivolta per una psicoterapia di coppia.
Quest’ultima non ha poi avuto luogo, e lei è rimasta in psicoterapia individuale con la psicologa.
Inizia il colloquio enumerando i sintomi ansiosi e depressivi: insonnia, stanchezza, difficoltà di concentrazione, ansia e timore per ogni più piccolo problema, in particolare se riguardante il suo lavoro. A questo proposito mi racconta una serie di difficoltà incontrate all’inizio della professione, che ha sempre fatto fatica a conciliare con la gestione della famiglia; non ha mai potuto contare, per quest’ultima, su nessun tipo di aiuto – né da parte del marito, che glielo ha sempre rifiutato, né della sua famiglia d’origine che vive in un’altra città. Ha voluto intensamente avviare una propria vita professionale; mi dice che anche il marito l’ha sempre spinta in questa direzione, pur non aiutandola in alcun modo.
Comincia a questo punto a parlare della sua vita coniugale e… ben presto mi accorgo di stare pensando: “Eccoci, ci siamo”. Quello che mi viene narrato è, infatti, il racconto stereotipato (se così si può dire) e riconoscibile di una vicenda di maltrattamento psicologico. Come spesso accade, Daniela enuncia la premessa “Non so se capisco bene, se è colpa mia, ma…” ma il marito la maltratta da tempo. “Da quando?” le chiedo, e mi risponde che lei ha cominciato a vederlo cambiare da quando è rimasta incinta. E’ vero che la gravidanza aveva corrisposto più a un suo desiderio che a un desiderio del marito, ma lui l’aveva accettata e – lei sperava che l’avesse accettata volentieri. Però più la gravidanza avanzava più lui diventava più intrattabile, chiuso e totalmente mancante di comprensione nei confronti della moglie. Una volta nato il bambino, aveva esteso lo stesso comportamento verso di lui, come se lo considerasse un inutile peso. Non se ne curava affatto, e aveva cominciato a rivolgergli la parola soltanto dopo che il bimbo aveva cominciato le elementari. Non contribuiva in alcun modo al suo mantenimento. Daniela, con
difficoltà, portava avanti la famiglia da sola, cercando, nello stesso tempo, di affermarsi anche professionalmente – anche perché le sembrava che a questo il marito tenesse, e lei, come suole avvenire in questi casi, cercava ogni modo di compiacerlo e rabbonirlo.
Cominciava a realizzarsi – e la vedevo comparire nel racconto di Daniela – quell’asimmetria che spesso le donne maltrattate considerano naturale: loro si fanno carico del rapporto in toto, ivi comprese quelle parti del marito che non dovrebbero essere sopportate. Ad esempio la violenza di lui. Il marito, mi diceva la paziente, la minacciava spesso, in risposta ad ogni più piccola contrarietà: “Ti rompo le ossa, ti ammazzo!”, ma lei pensava che dipendesse da lei, che lei fosse la responsabile degli “scatenamenti” del marito, come se la violenza del marito fosse un problema di Daniela, e non di lui. Come se lei non fosse capace di risolvere il problema di come fare per evitare le esplosioni in cui il marito, gridando, la insultava e la minacciava.
Le due vignette cliniche, pur nell’estrema concisione in cui ve le ho esposte, mostrano abbastanza chiaramente uno degli aspetti caratteristici del maltrattamento psicologico nella coppia, cioè la difficoltà, che la vittima sperimenta per molto tempo, di capire ciò che sta avvenendo e, insieme, la sua difficoltà a comunicare e a confrontarsi su questo problema con persone esterne alla coppia.
Questi aspetti rendono il maltrattamento psicologico un accadimento nascosto, segreto. Una mia amica, Giuliana Ponzio, un’autrice impegnata da molti anni su questi temi, ha intitolato il suo libro, molto a proposito, “Crimini segreti”. Il fatto che si tratti di un accadimento segreto, e che la vittima stessa sia spesso per molto tempo incapace di riconoscerlo, rende difficile intervenire su di esso. Ho cercato di dimostrare, tuttavia, che esso è, al tempo stesso, un evento riconoscibile, le cui manifestazioni tendono a ripetersi in forma abbastanza stereotipata. La “banalità del male”, si può dire, è anche ripetizione, monotonia, mancanza di fantasia.
1 Malacrea M. “Caratteristiche, dinamiche ed effetti della violenza su bambini e bambine”. In: Vite in bilico. Indagine retrospettiva su maltrattamenti e abusi in età infantile. Quaderni del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza. Firenze, Istituto degli Innocenti, 2006.
2 Ventimiglia C. (1996) Nelle segrete stanze. Violenza alle donne tra segreti e testimonianze. Milano, Franco Angeli Romito P. (2005) Un silenzio assordante. La violenza occultata su donne e minori. Milano, Franco Angeli
3 Filippini S. (2005) Relazioni perverse. La violenza psicologica nella coppia. Milano, Franco Angeli, Filippini S. (2005) Perverse relationships: The perspective of the perpetrator. Int. J. Psychoanal. 86,3, 755-774.
4 Non affronto qui, mi limito a citarlo, i problema dei figli che assistono alla violenza.
5 Jacobson N., Gottman J. (1998) When Men Batter Women. New Insight into Ending Abusive Relationships. New York, Simon § Schuster, pag. 148.
6 Hirigoyen M-F. Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro. Torino, Einaudi, 2000.
7 Uso qui la parola pervertire nel senso che le attribuiva Meltzer (in: Stati sessuali della mente. Roma, Armando, 1975) quando affermava che “Non c’è attività umana che non possa venire pervertita, dato che l’essenza dell’impulso perverso consiste nel trasformare la parte buona in cattiva, conservando l’apparenza della bontà”.
8 Una precisazione: io penso che esista un ideale continuum che va dalla violenza psicologica – o perversione relazionale – alla violenza fisica e/o sessuale fino all’omicidio. In modo corrispondente, i suoi agenti, i perpetratori, si collocano in una gamma progressivamente ingravescente di psicopatologia che, a mio parere, va dalle perversioni narcisistiche alle patologie borderline, al narcisismo maligno, al disturbo antisociale di personalità.
9 Un carattere narcisista vulnerabile e difensivamente arrogante mi sembra quello del protagonista del recente film di e con Kim Rossi Stuart Anche libero va bene.
10 Nella letteratura psicoanalitica il termine perversione viene usato per descrivere una forma, coatta, in cui si può esprimere la sessualità, ma anche un tratto di carattere, uno stile di pensiero, un aspetto del transfert.
11 Eiguer A. (1999). Cynicism: its function in the perversions. Int. J. Psychoanal. 80,4, 671-684.
12 Amati Sas S. (1992). Ambiguity as the ruote to shame. Int. J. Psychoanal. 73,2, 329-342.
13 Nei casi più gravi di abuso e maltrattamento fisico e sessuale le vittima sono spesso donne che sono già state vittimizzate nel corso della loro esistenza e che non hanno imparato ad essere protettive verso sé stesse. Si tratta di donne che sono cresciute in famiglie violente nelle quali hanno assistito alla violenza tra i genitori o sono state loro stesse abusate. Esse portano, nella loro struttura di personalità le stigmate del danno subito.
*Giangaetano Bartolomei (Napoli, 1940) è stato per più di trent’anni professore di “Sociologia della conoscenza” nell’Università di Pisa ed ha insegnato “Psicologia dinamica” nella Scuola Superiore di Servizio Sociale di tale università. Come membro associato della SPI ha lavorato a lungo come psicoanalista ed è stato redattore della “Rivista di Psicoanalisi”. Ha pubblicatoEsperienze di crisi. L’orchestrazione sociale del conflitto psichico (1984), Latenze nella teoria sociologica (1992), Come scegliersi lo psicoanalista (2000 e 2012), A clandestine identity: pathways of contemporary femininity (con E.Piccioli)(2003) ed altri volumi e saggi sull’uso della psicoanalisi nelle scienze sociali, sul concetto di ‘devianza’, sull’immagine della donna nella teoria freudiana e su temi di mitologia. Vive a Firenze.