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Gabbard G.O. (2002). Una prospettiva sul transfert basata sulla neuroscienza cognitiva

Testo della relazione di G.O.Gabbard (Sabato 7 Dicembre 2002 – Convitto Ecclesiastico della Calza) che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autore. Traduzione di Maria Ponsi

PROSPETTIVE PSICOANALITICHE SUL TRANSFERT
Il concetto di transfert di Freud (1912) all’origine implicava la nozione di spostamento. Il transfert era “un clichè” in cui i desideri libidici suscitati nell’infanzia venivano trasferiti dall’oggetto genitoriale originario sull’analista. Nei sui lavori sulla tecnica egli si sforzò di chiarire quanto il transfert fosse una forma di resistenza al processo analitico oppure l’espressione di una relazione oggettuale interna che si poneva al centro del lavoro analitico (Friedman 1991).

Freud affrontò e discusse anche il problema di quanto il transfert riflettesse il nuovo e il vecchio. Nel suo classico lavoro sull’amore di transfert (1915), Freud ad un certo punto negò che l’amore di transfert fosse da collegare con un qualsiasi aspetto della situazione o della relazione attuale, affermando che esso “è interamente costituito da ripetizioni e copie di precedenti reazioni ” (p.167). Solo due anni dopo, comunque, egli descrisse il transfert come qualcosa che implica “nuove edizioni di vecchi conflitti” (1917, p.454), sostenendo che esso fosse un qualche tipo di amalgama di rappresentazioni vecchie e nuove.

La nozione di identificazione proiettiva ha portato gli analisti kleiniani e quelli che appartengono alla Scuola Britannica delle relazioni oggettuali aconcettualizzare il transfert come qualcosa che implica la proiezione di aspetti del paziente nell’analista. Una tendenza presente in contributi recenti (Feldman 1997, Gabbard 1995, Joseph 1989, Ogden 1979, Spillius 1992) ha messo in evidenza che il paziente può comportarsi in determinati modi per esercitare una pressione interpersonale sull’analista che così viene indotto a comportarsi in un modo simile agli oggetti del passato, e cioè ad assumere le caratteristiche di tali oggetti del passato in lui proiettati. Perciò, in questo modello, il transfert implica una sottile trasformazione dell’analista in una serie di oggetti transferali. Questo modello implica un certo grado di enactment, o di “responsività”, di controtransfert che rinforza la percezione transferale.

Inoltre, Ogden (1983) propone che sia la rappresentazione di sè che la rappresentazione dell’oggetto possa venire proiettata nell’analista in modo che il paziente possa venire identificato con un oggetto interno dell’analista, mentre l’analista viene indotto a sentire e a comportarsi come qualche aspetto o rappresentazione del paziente. Dal momento che il paziente non proietta in un contenitore vuoto, deve esserci un “uncino” nell’analista che facilita l’introiezione di qualsiasi cosa vi possa venire proiettata (Gabbard 1995). In questo modo, può dipendere dal mondo interno dell’analista e dal controtransfert creato congiuntamente da entrambi che la percezione di transfert venga confermata o meno.

I contributi di Kohut (1971, 1977, 1984) forniscono un altro modello di transfert. Kohut si è focalizzato sui transfert di oggetto-sè. Specifico di questa nozione è che il sè del paziente sia incompleto e che sia, di fatto, reso intero dalle funzioni svolte dall’analista. Il termine oggetto-sè implica l’idea che l’oggetto transferale sia un’estensione del tutto necessaria oppure un completamento del sè. L’analista perciò svolge delle funzioni che non possono venire svolte dal paziente stesso e che non furono adeguatamente svolte dagli oggetti-sè originari del paziente.

Partendo dall’accezione del termine propria della psicologia del sè, alcuni intersoggettivisti come Storolow (1995) hanno proposto di considerare il transfert come fondamentalmente bidimensionale. Una dimensione è costituita da un aspetto ripetitivo strettamente correlata con la nozione freudiana di transfert come clichè che guida la percezione. Questo è un aspetto riparativo che ha molto in comune con i transfert oggetto-sè. Secondo questa concezione, che ha una qualche somiglianza con la teoria della padronanza-controllo (Weiss 1993) il paziente cerca inconsciamente di ripetere una vecchia relazione oggettuale, sperando al tempo stesso che la nuova versione della relazione sia in qualche modo diversa, e cioè che sia riparativa o capace di guarirlo.

Un altro più attuale punto di vista sul transfert è rappresentato dalla prospettiva costruttivista (Hoffman 1998). In accordo con le prospettive ermeneutiche e post-moderne, questo approccio mette in questione l’idea di un transfert oggettivo che possa venire capito ed interpretato al di fuori dei contributi dell’analista. Il modello costruttivista si focalizza sul coinvolgimento personale dell’analista, che si ritiene eserciti un effetto continuo su ciò che sia il paziente che l’analista comprendono del paziente e della loro interazione. Oltre a ciò l’analista influenza, tramite il proprio comportamento reale, l’esperienza che il paziente fa della situazione analitica.

Ad esempio, se l’analista è silenzioso ed emotivamente distaccato, il paziente può sviluppare un transfert riguardo all’analista come di una figura fredda e distaccata – oppure il paziente può prestare selettivamente attenzione a quegli aspetti del comportamento dell’analista che corrispondono al prototipo appartenente al passato di una figura genitoriale fredda e distante. Così, mentre certe percezioni del paziente possono venire riferite ad oggetti appartenenti al suo passato, molte altre sono in rapporto con il comportamento reale dell’analista nel setting analitico. La maggior parte degli analisti oggi si riconoscerebbe nell’idea che il transfert è sempre un’amalgama di aspetti reali dell’interazione con l’analista e di una ri-edizione di vecchie relazioni d’oggetto.

I MODELLI DELLE RETI NEURALI
Per costruire un ponte fra le concezioni psicoanalitiche del transfert e la neuroscienza cognitiva, è utile avere un qualche background sulla teoria delle reti neurali. Le rappresentazioni interne sono distribuite lungo una rete di unità neurali la cui simultanea attivazione è l’essenza della rappresentazione (Westen & Gabbard, in stampa). La componente fondamentale delle reti neurali è, ovviamente, il neurone, che è essenzialmente l’unità di elaborazione dell’informazione che trasforma una varietà di segnali in arrivo (input) in segnali di uscita (output) (Spitzer 1999). La conduzione dell’impulso da un neurone a quello successivo procede in una sola direzione, e questa proprietà della trasmissione uni-direzionale fra i neuroni è di fatto la base di tutti i modelli basati sulle reti neurali (Jeffrey & Reid 1997). Un neurone può ricevere dovunque da 1.000 a 10.000 assoni afferenti da altri neuroni. L’assone finisce in una sinapsi, ovviamente, e tale sinapsi può avere vari gradi di efficacia. Una sinapsi può essere eccitatoria, e in tal caso è in genere definita “+1”, o inibitoria (ed è definita “-1”).

L’importanza, o il peso, di una sinapsi tra due cellule nervose può variare da +1 a -1? – ovvero può variare da un valore massimo di eccitazione ad un valore massimo di inibizione: questo indica appunto il peso di una sinapsi. Il neurone che riceve un input fa la somma di tutti i segnali d’input ricevuti, ovvero somma i vari pesi sinaptici. Solo se la somma di tutti i segnali eccitatori è superiore alla soglia di eccitazione di quel determinato neurone, allora il neurone si eccita e dà il via ad un potenziale d’azione. Se la somma degli input di tutti i segnali in arrivo resta al di sotto di tale soglia, allora il neurone non si eccita.

Questo fenomeno dei pesi sinaptici ci porta alla seconda proprietà che è comune a quasi tutte le reti neurali – e cioè alla possibilità che le connessioni fra i neuroni si modifichino secondo determinate regole. Se una cellula è collegata ad un’altra cellula ed esse vengono attivate contemporaneamente, ne consegue che la connessione fra di loro viene rinforzata. L’attività futura nel primo neurone è più probabile che produca un’attività anche nel secondo neurone. I pesi sinaptici non fanno parte del genoma che ereditiamo. Le reti neurali sono addestrate durante un processo in cui i pesi delle connessioni sinaptiche possono cambiare. L’apprendimento avviene tramite l’esperienza (Spitzer 1999). Piccoli cambiamenti dei pesi inducono le reti a estrarre aspetti generali dall’input e a generare regole dagli esempi.

Questo metodo di sviluppare regole dagli esempi è conosciuto come correzione dell’errore (Jeffery & Reid 1997). Il neurone efferente riceve un’informazione di feedback riguardo al segnale inviato, ovvero se ha inviato un segnale in modo corretto o meno. Se, ad esempio, un neurone è stato eccitato quando avrebbe dovuto rimanere silente, il feedback è che esso è stato eccitato inappropriatamente, e che di conseguenza la forza delle connessioni si è ridotta. Se, d’altro canto, il neurone efferente avesse dovuto eccitarsi ma ciò non è avvenuto, le connessioni provenienti dagli inputs attivi vengono rinforzate. Una delle ragioni per cui i bambini giocano è che il gioco è l’ambiente ideale per l’apprendimento

Di fatto, il gioco fornisce un ambiente sicuro in cui le mappature dell’input-output possano venire ripetutamente cambiate e messe alla prova senza pericolo di conseguenze negative. L’esperienza ripetuta del gioco è una forma di apprendimento con una esperienza ripetuta di relazioni input-output. Si verificano piccoli cambiamenti sinaptici che alla fine producono con probabilità crescente l’output corretto, o desiderato. Il contenuto dell’input, naturalmente, verrà determinato dalle esperienza reali del bambino. Spitzer (1999) nota: “Se papà grida sempre quando tenta di insegnare al suo piccolo bambino cosa fare e cosa non fare, il bambino imparerà che papà grida o addirittura che tutti i papà gridano. In paragone alla impressionante regolarità di un tale input, l’impatto di ciò che l’individuo pensa che suo padre gli dice di fare o non fare è quasi trascurabile” (p.58).

Ciò di cui i bambini hanno soprattutto bisogno è un insieme di buoni esempi forniti nel tempo che permettano loro di imparare come funzionare nel mondo. Un input a caso è la cosa peggiore che può succedere a una rete neurale, perchè non può venirne fuori nessuna struttura e niente può venire imparato (Spitzer 1999). Questa modo di comprendere il cervello è del tutto in accordo con il principio consacrato dal tempo secondo cui una funzione genitoriale imprevedibile ed incoerente è altamente dannosa per lo sviluppo del senso di sè del bambino.

Il tipo elaborazione necessaria per modificare le connessioni fra i neuroni e per correggere gli errori nell’output richiede una risposta straordinariamente rapida e complessa. Mentre gli scienziati cognitivi un tempo pensavano che i processi cognitivi fossero lineari e seriali, fossero cioè processi in cui la mente esaminasse un pezzo di informazione per volta, noi adesso sappiamo che una gran parte dell’attività cognitiva è inconscia e che molteplici pezzi di informazione vengono elaborati inconsciamente nello stesso tempo. Poichè questo richiede un modello in parallelo piuttosto che seriale, i modelli di reti neurali vengono anche chiamati modelli di elaborazione dell’informazione in parallelo (parallel distributing processing models) o modelli PDP (McClelland 1989).

I neuroni efferenti ricevono tutto l’input allo stesso tempo, cosicchè essi non possono venire elaborati in serie o uno alla volta. In questo senso l’elaborazione in parallelo è assai più veloce. Di particolare rilievo al fine della nostra comprensione del transfert è la nozione che la conoscenza sta nell’entità, o nei pesi, delle connessioni fra i nodi presenti in una rete. A seconda di quali nodi si sono formati insieme precedentemente, oppure si sono inibiti reciprocamente, questi nodi, analogamente ai neuroni, possono segnalare se una qualche parte di una rappresentazione risulta in accordo con un input sensoriale attuale, se essa corrisponde con altri dettagli di una memoria di un incontro, o se risulta utile come soluzione possibile di un problema. Le rappresentazioni emergono attraverso l’azione parallela di una molteplicità delle unità di elaborazione, ciascuna delle quali partecipa a una piccola parte della rappresentazione (Westen & Gabbard, in corso di stampa). Perciò le rappresentazioni esistono in quanto potenziali che sonodistribuiti attraverso una rete di unità neurali che vengono attivate simultaneamente per produrre la rappresentazione.

Questo processo di formazione delle rappresentazioni è basato sul principio della associabilità, un altro principio comune alle reti neurali (Jeffrey & Reid 1997). Sostanzialmente questa idea si riferisce al fatto che flussi di informazione confluiscono per formare, rinforzare, o recidere le connessioni fra di loro al fine di formare nuove rappresentazioni, che possono venire riattivate più tardi. Queste rappresentazioni non sono localizzate in un particolare magazzino della memoria in un’area specifica del cervello. Le rappresentazioni sono distribuite lungo varie regioni cerebrali. Lashley (1950) ha scoperto molti anni fa che si possono rimuovere sperimentalmente grandi aree di corteccia cerebrale senza indurre una cancellazione selettiva della memoria. Possiamo comprendere meglio i ricordi in generale, e le rappresentazioni in particolare, come potenziali (e cioè patterns di scarica neurale che si verifica in certe condizioni), che si verificano con maggiore o minore probabilità, a seconda che si siano già verificate o meno. In questo senso, un ricordo “debole” è quello con un potenziale di attivazione più basso. Un ricordo, o rappresentazione, che arriva prontamente alla mente è un potenziale che è stato attivato molte volte precedentemente e che perciò esiste in uno stato di potenziale intensificato (Westen & Gabbard, in corso di stampa).

Per un certo tempo la nozione “del transfert” o della “nevrosi di transfert” è caduta in disuso nel discorso psicoanalitico. Dati dalla scienza cognitiva rinforzano la nozione che ci sono transfert multipli. Ciascuno riflette rappresentazioni differenti e differenti attivazioni di reti neurali.

Il transfert è dipendente dal contesto. E’ probabile che segnali provenienti dalle caratteristiche reali dell’analista attivino determinate reti associative. Un analista con la barba, ad esempio, può attivare una rete che esiste in uno stato potenziale riguardo ad un uomo barbuto. Se un uomo con la barba nel passato, come il padre del paziente, ha ripetutamente picchiato il paziente da bambino, il terrore può far parte della rete attivata che compare nella costellazione di transfert emergente. Ovviamente, il paziente stimolerà anche reti particolari che si trovano in uno stato potenziale nell’analista. Perciò il comportamento reale del paziente può far emergere nell’analista delle reazioni che sono desiderate inconsciamente dal paziente tramite l’identificazione proiettiva (Westen & Gabbard, in corso di stampa). In questo senso il modello dell’identificazione proiettiva e il modello costruttivista del transfert possono lavorare sinergicamente per creare una situazione non diversa da quella di una casa degli specchi che si riflettono uno nell’altro. In altre parole, il paziente induce nell’analista, tramite una pressione interpersonale, una certa modalità relazionale, la quale a sua volta contribuisce alle percezioni transferali dell’analista.

La maggior parte dei transfert implica risposte emotive che sono legate alle rappresentazioni delle persone e alle relazioni di ruolo. L’attivazione della rappresentazione e le sue associazioni emotive possono verificarsi in modo totalmente inconscio, come Freud aveva originariamente sottolineato. Troppo spesso nelle discussioni psicoanalitiche, il transfert viene usato come se significasse la verbalizzazione da parte del paziente della sua percezione cosciente dell’analista. Nel classico lavoro della Joseph (1985) sul transfert come “situazione totale” essa ha portato l’attenzione sul fatto che il bisogno che abbiamo di sintonizzarci con i sentimenti sollevati in noi dal paziente sono un indizio che rimanda alle relazioni oggettuali inconsce del paziente così come esse vengono riattivate nel setting analitico. Fonagy (1999) ha notato “Come psicoanalisti, noi sappiamo che i pazienti probabilmente non sono in grado di ricordare perchè si comportano come si comportano L’unico modo in cui possiamo sapere che cosa succede nella mente dei nostri pazienti, che cosa potrebbe essere loro successo, è come essi stanno con noi nel transfert” (p.217). Questa osservazione è in linea con la prospettiva di Freud nel suo classico lavoro del 1914 “Ricordare, Ripetere, e Rielaborare” secondo la quale ciò che i pazienti non possono ricordare lo ripeteranno nell’interazione immediata con l’analista, il significato originale del termine acting out. Le relazioni d’oggetto interiorizzate vengono perciò codificate nella memoria procedurale ed emergono nella modalità relazionale che il paziente porta nell’analisi (Gabbard 1997), in particolare la modalità che viene attivata da caratteristiche definite dell’analista nel setting analitico.

Questa introduzione sulla memoria procedurale ci conduce ad un altro aspetto rilevante della neuroscienza cognitiva – e cioè la distinzione fra diversi sistemi di memoria (Roediger 1990; Schachter 1992). La memoria esplicita (cosciente) implica il richiamo alla mente di fatti, episodi ed idee. Le memorie esplicite possono essere generiche nel senso di una conoscenza ampia del significato delle parole, delle proposizioni teoriche e del senso delle idee. Esse possono anche essere episodiche, e in tal caso il ricordo coinvolge un avvenimento autobiografico specifico.

La memoria implicita (inconscia) è quella che è osservabile nel comportamento ma che non è parte della consapevolezza cosciente. La memoria procedurale è una forma di memoria implicita e comporta una conoscenza del “come”. La memoria motoria delle capacità, come andare in bicicletta o suonare il piano, è una forma di memoria implicita, ma anche il “come” delle relazioni o dei meccanismi di difesa va a far parte di questa categoria. Una seconda forma di memoria implicita è la memoria associativa. Una canzone può venire sentita alla radio e causare all’ascoltatore una subitanea sensazione di tristezza. La tristezza può emergere da un’esperienza passata in cui si verificò la rottura di una relazione mentre veniva cantata quella canzone. Questa connessione, o associazione, tuttavia, non è disponibile per la consapevolezza cosciente.

La ricerca nella neuroscienza cognitiva ha dimostrato che la memoria implicita ed esplicita coinvolge sotto-sistemi neurologici distinti. L’ippocampo e i lobi temporali sono coinvolti nella memoria esplicita degli eventi autobiografici. Le strutture subcorticali come i gangli della base e il cervelletto sono implicati nella memoria implicita (Alavrez & Squire 1994; Damasio & Damasio 1994; Glickstein & Yeo 1990).

A volte la letteratura fa confluire la memoria implicita e procedurale da una parte e la memoria esplicita e dichiarativa dall’altra. Un’integrazione del pensiero psicoanalitico con l’attuale ricerca sulla memoria farebbe un’altra distinzione significativa (Gabbard 2000; Westen 1999). La distinzione fra l’implicita e l’esplicita non corrisponde esattamente a quella esistente fra la dichiarativa e la procedurale. La dicotomia fra la memoria procedurale e la memoria dichiarativa è centrata sul tipo di conoscenza che ciascuna delle due forme implica. Mentre la memoria procedurale implica delle abilità, la memoria dichiarativa implica dei fatti. La distinzione fra memoria esplicita ed implicita fa riferimento alla questione se la conoscenza viene recuperata e/o espressa con o senza consapevolezza. All’interno di questo modello la memoria dichiarativa e quella procedurale possono essere tanto esplicite che implicite. I meccanismi di difesa ad esempio appartengono largamente al dominio della memoria implicita procedurale, ma occasionalmente delle difese, come la repressione, coinvolgono la memoria esplicita procedurale dal momento che si verificano con la consapevolezza cosciente. La conoscenza dichiarativa implicita coinvolge idee rimosse e memorie rimosse di eventi nella vita di una persona e conoscenza preconscia che coinvolge vari tipi di aspettative o schemi su come gli altri reagiranno in risposta a ciò che uno fa. Le idee o la conoscenza rimosse e le aspettative o paure preconsce tutte hanno un contenuto. In questo senso la conoscenza dichiarativa è “conoscenza di” mentre la conoscenza procedurale è “conoscenza di come”.

Quando noi applichiamo questa comprensione dei sistemi della memoria al transfert, si presume che sia i sistemi della memoria procedurale che quelli della memoria dichiarativa siano coinvolti nello sviluppo del transfert. La memoria procedurale implicita coinvolge il comportamento automatico stereotipato che coinvolge patterns di difese inconsce appartenenti al carattere da lungo tempo e relazioni oggettuali interne inconsce. La memoria dichiarativa implicita è l’altro componente del transfert e coinvolge aspettative rimosse e preconsce, fantasie, e paure su come l’analista reagirà. Un esempio clinico dimostrerà l’interfaccia fra la memoria procedurale implicita e la memoria dichiarativa implicita.

Il dr. A era un medico con un disturbo della personalità ossessivo-compulsivo che arrivava puntualmente a ogni seduta analitica. Di fatto, egli abitualmente si sedeva nella sala d’attesa cinque minuti prima del suo appuntamento. Non mostrava mai rabbia verso l’analista, e teneva sotto una rigida disciplina qualsiasi forma di spontaneità durante la sua seduta. Spesso usava il tempo che passava nella sala d’attesa per passare in rassegna gli argomenti principali che avrebbe affrontato nella seduta. Era immancabilmente educato e ossequioso nel suo atteggiamento verso l’analista. Arrivava nello studio esattamente nello stesso modo, diceva “buon giorno” precisamente nel medesimo tono di voce ogni giorno, e andava via dicendo “ci vediamo domani” alla fine di ogni seduta. Cominciava a guardare nervosamente il suo orologio durante gli ultimi cinque minuti della seduta in modo da essere sicuro di arrestare le sue associazioni alla fine dell’ora di 50 minuti. Questo pattern automatico, caratteristico e stereotipato di stare in relazione funzionava al di fuori della sua consapevolezza cosciente ed era codificato come memoria procedurale implicita. Includeva, naturalmente, un repertorio di meccanismi di difesa, come la formazione reattiva e l’isolamento dell’affetto.
Man mano che l’analisi andava avanti, il dr.A. era convinto che non sarebbe mai arrivato tardi ad una seduta.

Poi, dopo cinque mesi che era in analisi, arrivò con cinque minuti di ritardo ad una seduta, sbuffando e ansimando perchè ovviamente aveva corso dal parcheggio al mio studio. Si scusò molto, spiegando che un incidente nel traffico lo aveva obbligato a procedere lentamente e che questo era del tutto al di fuori del suo controllo. Gli domandai come pensava che io avrei reagito al suo ritardo. Disse che temeva che io avrei pensato che egli non era responsabile e che mi sarei arrabbiato con lui. Gli chiesi se gli ero sembrato arrabbiato quando era entrato nello studio. Rispose che in realtà gli sembrava che mi piacesse stare a leggere il mio libro, ma si domandava se io non stessi semplicemente nascondendo la mia rabbia perchè ero professionale. Mentre continuavamo ad esplorare questa fantasia di transfert, il paziente rivelò di pensare che il suo ritardo fosse il segno di una sua imperfezione, e che era preoccupato per non essere riuscito a dimostrarmi che era perfetto. Quando gli chiesi quale fosse l’origine della sua convinzione che gli altri si aspettavano da lui la perfezione, egli associò immediatamente l’attenzione che suo padre prestava all’auto-disciplina. Suo padre, unufficiale militare, sgridava sempre gli altri perchè erano “pigri” ed “irresponsabili”. Man mano che si continuava a esplorare l’incidente, egli arrivò a riconoscere che c’erano delle mie caratteristiche fisiche che gli avevano sempre ricordato suo padre, sicchè egli presumeva che io avrei avuto i medesimi standard perfezionisti sostenuti da suo padre.

In questo esempio le aspettative me del dr.A. su di me erano un esempio della memoria dichiarativa implicita che comportava una rappresentazione che veniva sollecitata dalle caratteristiche fisiche che io avevo in comune con suo padre e dalla natura della mia posizione di figura autorevole. Le difese automatiche codificate come parte della memoria implicita procedurale erano strettamente correlate alle rappresentazioni implicite dichiarative, in questo caso. Le rappresentazioni implicite degli episodi o delle relazioni sono virtualmente sempre connesse con i meccanismi di difesa impliciti finalizzati a evitare affetti spiacevoli (Westen & Gabbard, in corso di stampa). In altre parole, la “conoscenza di” stati emotivi angosciosi porta alla “conoscenza di come” ciò sia finalizzato a evitare tali stati.

Implicato in questa discussione sul transfert a partire da una prospettiva cognitiva neuroscientifica è un principio base della teoria delle relazioni oggettuali. Come ha sottolineato Fairbairn (1952), non è semplicemente un oggetto a venire interiorizzato – è piuttosto una relazione d’oggetto. Paradigmi transferali clinicamente rilevanti implicano l’attivazione di una costellazione di relazioni d’oggetto interne che include la rappresentazione del sè, dell’ “altro”, e gli affetti che li collegano. Questa riattivazione implica anche le difese contro un affetto spiacevole collegato con la rete neurale che viene attivata.

Un altro fondamentale principio della teoria delle relazioni oggettuali è che la relazione d’oggetto che è stata interiorizzata non esiste necessariamente in una correlazione uno-a-uno con la relazione d’oggetto nel mondo esterno. In altre parole, i paradigmi relazionali attivati nel transfert non si correlano necessariamente con interazioni “reali” che il paziente ha sperimentato nell’infanzia. Britton (1998) ha ricordato il suo dialogo con John Bowlby, in cui Britton insisteva ad usare la parola “esperienza” per mettere in evidenza il ruolo della fantasia mentre Bowlby sosteneva che la parola “eventi” fosse preferibile per sottolineare il ruolo del trauma reale. Questa dicotomia fra eventi reali e fantasia persiste nella forma di una dialettica nel discorso psicoanalitico contemporaneo. Sandler (1990) ha notato che una figura verso cui si prova un intenso desiderio che fornisce validazione empatica o amore incondizionato può essere una presenza così potente nei sogni ad occhi aperti di un bambino che una rappresentazione del sè del bambino in relazione a questa figura amorevole può diventare interiorizzata attraverso la creazione di una rete caricata affettivamente che si trova nello stesso stato potenziale delle reti che più strettamente riflettono le esperienze reali del bambino con gli altri significativi.

Un’altra implicazione del modello del transfert basato sulle relazioni oggettuali o sull’identificazione proiettiva, che è in accordo con i principi della neuroscienza cognitiva, è che alcune rappresentazioni proiettate possono “corrispondere” meglio a un certo analista che a un altro – sia nel senso che esse possono essere più consonanti con le caratteristiche reali dell’analista sia nel senso che un dato analista può essere più o meno vulnerabile a differenti tipi di tranelli controtransferali tesi involontariamente dal paziente. Gli analisti, come chiunque altro, sono diversi nella misura in cui il loro temperamento e la loro esperienza hanno messo giù forti “tracce” neurali che li predispongono ad assumere particolari ruoli, come diventare un oggetto rimproverante in determinate circostanze. Così sarà più probabile che la pressione interpersonale da parte del paziente scateni una risposta rimproverante in un analista piuttosto che da un altro – o che il paziente debba “lavorare duro” per riuscire a trovare in un determinato analista i grilletti che scatenano certe risposte. Questa concettualizzazione si collega all’idea che ci sia bisogno di un “uncino” perchè una proiezione “prenda” (Gabbard 1995) e rende conto in parte del motivo per cui certi sviluppi transferali-controtransferali possono verificarsi di più con un analista che con un altro, anche se il paziente è quasi uguale.

IMPLICAZIONI CLINICHE
Da questa prospettiva della neuroscienza cognitiva sul transfert discende una serie di implicazioni cliniche. Un’implicazione è che l’anonimato è cognitivamente impossibile perchè ogni aspetto dell’interazione scatenerà nel paziente dei significati nei termini dell’esperienza precedente (Westen & Gabbard, in corso di stampa). Questa idea è in accordo con la sensazione clinica presente nella letteratura psicoanalitica recente secondo cui l’immagine dell’analista come “schermo opaco” non è più praticabile. Renik (1993) parla di “irriducibile soggettività” dell’analista che coinvolge il transfert del paziente lungo tutto il processo. Anche Hoffman (1998) mette in evidenza questa nozione come principio basilare del pensiero costruttivista. Lo stesso assetto asimmetrico dell’analisi rappresenta un allontanamento sostanziale dal normale discorso sociale e mette in moto un ventaglio di risposte nel paziente. Il processo di sdraiarsi su un lettino di fronte a qualcuno che non si può vedere, ad esempio, avrà ovviamente una gran quantità di significati per il paziente. Bion (Spillius 2000) ha sottolineato quanto fosse irragionevole star sdraiati su un lettino. Egli ha portato l’attenzione sul fatto che qualsiasi animale istintivamente evita di mettersi in una situazione in cui possa venire fisicamente attaccato da dietro senza poter vedere l’aggressore. Tuttavia noi chiediamo al paziente deliberatamente di mettersi in questa posizione priva di difesa.

Tutte le caratteristiche fisiche dell’analista e del suo studio metteranno in moto reti neurali di associazioni. In forza del fatto di ricevere un onorario per una prestazione e di avere delle conoscenze su come la mente lavora che legittimano il pagamento, l’analista stabilisce anche una relazione di autorità che attiverà delle rappresentazioni genitoriali.

Un’altra implicazione significativa derivante da questo modello di transfert è che è più probabile che certi paradigmi di transfert si producano con certi analisti che non con altri. Aspetti come l’età, il genere, l’aspetto, e così via, possono dar luogo alla prevalenza di particolari costellazioni transferali. Altre possono non essere altrettanto manifeste nella relazione con l’analista e richiedono lavoro analitico su episodi che implicano relazioni fuori dallo studio. In modo simile, se l’analista ha dei particolari conflitti riguardo all’aggressività e agisce in maniera apertamente affabile col paziente, alcuni pazienti avranno più difficoltà ad elaborare reti di rappresentazioni che implichino oggetti odiosi e un sè odiato. Perciò questa comprensione del transfert avvalora l’idea che quando si è verificato un impasse analitico con un analista, l’invio ad un analista di sesso diverso, o con un diverso stile di personalità, o di età diversa, può certamente essere utile nel superare l’impasse e nell’andare verso aree rimaste largamente non-analizzate col precedente analista.

Questa prospettiva sul transfert basata sulla neuroscienza cognitiva ha anche delle implicazioni riguardo al modo dell’azione terapeutica del trattamento. L’analisi può così venire considerata in parte come una nuova relazione di attaccamento che può essere utile a molti pazienti per ristrutturare la memoria implicita collegata con l’attaccamento (Amini et al 1996, Fonagy 1999). Prototipi dal passato vengono modificati da nuove interazioni con un analista affettivamente coinvolto. Cambiare le esperienze delle relazioni oggettuali altera le reti che rappresentano gli altri significativi, i paradigmi sè-con-l’altro, le reazioni affettive o le situazioni con altri significativi, e i modi di regolare particolari affetti nelle relazioni strette. Questa modalità dell’azione terapeutica può verificarsi in parte al di fuori di ciò che pensiamo sia la tecnica analitica convenzionale. La padronanza cosciente delle modalità relazionali implicite e ripetitive è spesso accompagnata da connessioni interattive ed affettive non-coscienti descritte da Lyons-Ruth et al. (1998) come conoscenza relazionale implicita.

Secondo Lyons-Ruth e collaboratori questo tipo di conoscenza può avvenire in “momenti di incontro” fra analista e paziente che non sono nè simbolicamente / verbalmente / coscientemente rappresentati nè dinamicamente inconsci nel senso ordinario del termine. Tuttavia questi momenti di incontro possono essere importanti nel riorganizzare l’esperienza procedurale ed affettiva in un contesto relazionale (Stern et al 1998). Una risata fragorosa, uno guardo empatico, un momento condiviso di tristezza, uno scambio non verbale inaspettato nel momento in cui il paziente va via dalla seduta, possono essere situazioni significative per riorganizzare modalità relazionali non codificate proceduralmente.

Ritornando all’analisi del dr.A, il modo in cui io reagii al suo ritardo gli mise a disposizione un modo diverso di relazionalità oggettuale da interiorizzare, indebolendo così i legami di una rete neurale mentre venivano rinforzati quelli di un’altra. In un’altra occasione, ad esempio, in cui egli arrivò tardi, io stavo leggendo ed egli di nuovo espresse il timore che io me ne fossi stato a ribollire di rabbia per il suo ritardo. Io risposi, con tono scherzoso, “Certamente avere ancora cinque minuti di più per leggere mi avrebbe fatto infuriare”. A quel punto ci si mise entrambi a ridere, ed egli spesso tornò poi indietro a riflettere su quel momento di vicinanza fra noi. Egli specificatamente notò quanto ciò fosse diverso dal modo in cui lui e suo padre si relazionavano.

La modalità dell’azione terapeutica, comunque, non è limitata al terreno della memoria procedurale. La memoria dichiarativa può anche essere straordinariamente importante, in quanto il paziente arriva a simbolizzare coscientemente e a riconoscere patterns problematici e loro precursori. Alcune rappresentazioni appaiono solo al di fuori della relazione con l’analista e debbono venire comprese nel contesto delle paure, delle aspettative e delle fantasie inconsce. Attraverso una ricostruzione della propria narrativa di vita, un paziente può cominciare a dare un senso a patterns problematici nel presente in quanto ripetizioni nel presente di patterns della prima infanzia. Questa padronanza cosciente di una propria narrativa di vita può lavorare di concerto con un indebolimento dei legami fra i nodi di una rete che sono stati attivati insieme per anni o decenni. Attraverso l’analisi, vengono creati nuovi collegamenti associativi o rinforzati collegamenti precedentemente deboli. Perciò l’esperienza che il dr.A aveva di me come di una figura più benigna del proprio padre veniva aumentata dal lavoro interpretativo che dava un senso a come le sue attuali angosce fossero collegate ad una narrativa storica della sua vita. Perciò quando veniva a galla la sua paura che gli altri lo disapprovassero, egli poteva contestualizzarla e padroneggiarla. In modo simile venivano analizzate e ricontestualizzate altre paure riguardanti le relazioni extra-transferali.

Nello scritto di Freud sul transfert del 1912, egli finiva dicendo: “Quando tutto è stato detto e fatto, è impossibile distruggere qualcuno in absentia o in effigie”. Questa affermazione ha sviato generazioni di analisti inducendoli a pensare che il transfert in qualche modo scompaia in seguito ad un lavoro analitico intensivo, anche se ogni studio di follow-up suggerisce che il transfert non viene mai risolto e viene istantaneamente ristabilito in incontri con l’analista successivi alla fine dell’analisi (vedi Gabbard e Lester 1995, cap.8). A partire da una prospettiva che implica le reti neurali, noi possiamo concepire il cambiamento come qualcosa che tipicamente implica un indebolimento dei legami fra nodi di una rete che sono stati attivati insieme per anni o decenni e la creazione di nuovi legami associativi. Da questo punto di vista, il “cambiamento strutturale” non sradica nè rimpiazza completamente le vecchie reti, cosa che non sarebbe possibile dal punto di vista di ciò che noi sappiamo dei meccanismi neurali. Piuttosto, cambiamenti persistenti richiedono una relativa disattivazione di legami problematici in reti attivate e un aumento dell’attivazione di connessioni nuove, più adattative. L’analisi può anche coinvolgere un cambiamento sviluppando la capacità del paziente di auto-riflessione cosciente che metterà il paziente in grado di passar sopra le dinamiche inconsce una volta che esse siano state riconosciute e perciò di “risistemare” alcuni dei pesi significativi nelle connessioni.

CONCLUSIONI
Mentre mente e cervello non possono mai essere pienamente integrati, possiamo certamente applicare le acquisizioni delle neuroscienze alla nostra comprensione dei principi psicoanalitici. Nell’era dell’attacco a Freud e del disprezzo per il pensiero psicoanalitico, possiamo farci coraggio col fatto che l’evidenza proveniente dalla neuroscienza cognitiva dà sostegno alla nozione dell’ubiquità del transfert e al principio nucleare della psicoanalisi secondo cui la gran parte della vita mentale è inconscia. Questa ricerca pianta qualche chiodo in più nella bara del mito dell’analista come schermo opaco mentre fornisce ulteriore evidenza alla nozione costruttivista del transfert. Al tempo stesso, comunque, il costrutto del clichè di Freud è confermato dal fatto che noi sappiamo che le reti neurali stanno in uno stato di attesa potenziale per venire attivate. Infine, studi sui due distinti sistemi di memoria ci aiutano ad apprezzare la straordinaria complessità del transfert che arricchisce la nostra comprensione della situazione clinica. William James aveva anticipato questa complessità un secolo fa quando osservava: “Ogni volta che due persone si incontrano, ci sono in realtà sei persone presenti. C’è ciascun uomo così come egli vede sè stesso, ciascun uomo così come l’altra persona lo vede, e ciascun uomo così come egli realmente è”.

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