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Ferruta A. (2011). Alla ricerca di genitori e figli smarriti.

 

Alla ricerca di genitori e figli smarriti

Genitori e figli smarriti: un panorama di casi clinici

Un fenomeno strano mi è accaduto, nel momento in cui mi sono predisposta a riflettere su questa tematica. Mi sembrava di avere seguito e curato solo figli, con genitori e storie infantili problematiche. Invece mi sono venuti incontro molti genitori di figli con gravi difficoltà che ho seguito direttamente: avanzavano verso la mia mente con solennità, decisione e autorevolezza, come nel quadro di Pelizza da Volpedo che apre il nuovo museo del Novecento appena aperto in piazza Duomo a Milano: Il Quarto Stato. Come a dire con decisione: noi ci siamo, non essere tu la prima ad annullare la funzione genitoriale, dando voce solo alle ragioni dei figli, la cui sofferenza psichica, anzi, risuona come un richiamo della foresta alla ricerca di un incontro con figure genitoriali non evanescenti, di cui hanno smarrito la traccia.

Quindi, cominciamo a dare voce e volto a questi genitori che sono stati spinti a camminare verso il mio studio per chiedere aiuto per le difficoltà dei loro figli.

La mamma di un’anoressica. Mi trovo davanti una persona sconvolta da un evento del tutto inaspettato e incomprensibile, che è esploso come una bomba in una famiglia unita, serena, impegnata in una vita di lavoro e con valori intellettuali e sociali condivisi. La ragazza, una liceale a cui tutto andava nel migliore dei modi, ha preso la via dell’anoressia, paradossalmente, per crescere: la sua situazione è seria, viene ricoverata in una clinica psichiatrica e inizia una psicoterapia analitica. Il lavoro di psicoterapia con la mamma si svolge intorno alla sua fatica di restare presente senza intervenire, mantenendo la fiducia nelle buone cose trasmesse alla figlia. E’ difficile competere e superare genitori troppo bravi: il senso di inferiorità è devastante. Allora, se la figlia riesce a infliggere una ferita narcisistica profonda ai genitori, forse ce la farà a trovare la sua identità adulta produttiva e feconda. Sembra che solo sviluppando una patologia così grave sia riuscita a mettere in gioco un aspetto della sua individualità che ha sentito differenziato da quella della madre, che le è risultato inaccettabile, e quindi non è stato risucchiato nell’identità della madre stessa, ma è rimasto esistente come sua individualità irriducibile, ai limiti dell’incomprensibilità. Il lavoro terapeutico con la madre consiste nella crescita e elaborazione della capacità di accettare questa ferita, come terreno in cui si gioca un processo di differenziazione che avviene in una situazione agli antipodi del buon senso e del buon accudimento, sulla soglia del diniego della realtà e della perdita di contatto con l’esperienza condivisa. In questo territorio alieno, in questi altri mondi, terapeuta e genitore cercano di mantenere la fiducia nel buon cibo dato e nelle potenzialità di sviluppo della relazione genitori-figli: un percorso simile a quello dell’equipaggio dell’ Endurance di Shackelton , la nave che doveva andare a fare un’esplorazione del Polo Sud e rimane invece impigliata e stritolata nei ghiacci. Tutti devono tornare a piedi, finché lo sciogliersi dei ghiacci all’arrivo della primavera permette ai più forti e capaci di gettare in mare delle precarie scialuppe di salvataggio per andare a chiedere soccorso, mentre il grosso della ciurma resta rifugiato in una grotta ad aspettare.

La mamma di una psicotica, con crisi adolescenziale precoce, a 13 anni, mai superata. Questa al contrario è una situazione familiare transgenerazionale disastrata. Da tre generazioni manca un legame valido, (figli di padri ignoti, coppie separate, abbandoni, confusione): su tutti domina la figura della nona materna, che detta legge, una legge narcisistica che impone ai componenti della famiglia di essere al servizio dell’affermazione della propria superiorità ed eccellenza, mediante il degrado e il fallimento degli altri membri del clan. La nipote, una ragazza adolescente molto dotata, presenta una fragile pelle psichica, che le permette di penetrare con un’intelligenza veloce e una sensibilità artistica immediata in ogni persona o oggetto di studio, da cui ricava un reale senso di superiorità, simmetrico a quello della nonna, sostenuto dal disprezzo e dalla svalutazione della madre, ritenuta da entrambe debole e incapace. D’altra parte questa penetranza straordinaria è resa possibile proprio dal sentirsi senza pelle, ed è quindi esposta ad angosce di intrusione devastanti. Ogni offerta di aiuto alla ragazza, di cui pure ha bisogno, è sentita da lei come una distruzione delle embrionali forme di vita psichica autonoma in fieri. Allora si chiude in se stessa, non esce, non va a scuola, non lavora, mantiene solo l’esile legame con la madre, che le va bene quando funziona da prolungamento silenzioso dei suoi desideri, e che viene rigettata e aggredita quando sente la risposta differente da sé e diventare sopraffazione. In questo andare su è giù della relazione madre-figlia, precipitando e risalendo come su una nave nel mare in tempesta, nel corso della psicoterapia con la madre cerchiamo di capire e di sopravvivere.

Il padre di un adolescente che lo rifiuta: il ragazzo quattordicenne lo disprezza, non vuole più parlare e mangiare con lui, ne accetta a stento la convivenza sotto lo stesso tetto, ma vuole che il padre se ne vada al più presto. Si tratta di una famiglia unita e serena, senza gravi traumi apparenti. La madre è accettata e mantiene un rapporto di comunicazione e empatia con il figlio. Il padre non vuole intraprendere un trattamento psicoterapico, perché, dice, la persona disturbata è il figlio, che, avviato a una consultazione psicologica, la interrompe dicendo che non ne ha bisogno, perché sta bene, e il suo unico problema è il padre, descritto allo stesso tempo come debole e prepotente, che se ne deve andare di casa. Il padre finisce per accettare la proposta della psicoterapia, perché, gli dico, la dobbiamo fare per salvare il figlio, cioè, emergerà progressivamente, quella parte di ragazzo che è in lui e che ha sacrificato, dedicandosi alla famiglia e al lavoro con grande serietà, e che ora riusciamo a rianimare (cambia lavoro, ritorna agli sport, a una vita di coppia, ecc). Riusciamo a trovare un senso al lavoro comune pensando che il suo sviluppo personale non è concluso e che il rapporto con il figlio rappresenta per lui la sollecitazione a sviluppare lati di sé sopiti, precocemente invecchiati, una speranza di futuro: non necessariamente genitore vuol dire vecchio, ma adulto senz’altro, capace di coltivare cambiamenti e speranze di futuro, per sé e per gli altri.

Altri genitori ancora mi vengono incontro, e li faremo parlare lungo il percorso di questo lavoro.

La funzione genitoriale in via di mutamento

La funzione genitoriale sta andando incontro a molti cambiamenti. Da un lato è radicata in situazioni psicobiologiche che fungono da invarianti (prematurità del piccolo dell’uomo che ha bisogno di prolungata assistenza e dipendenza); dall’altro si svolge in contesti psicosociali in veloce modificazione (espansione dell’antroposfera, nel senso delle plurime e intense sollecitazioni ambientali e relazionali). Pensiamo soltanto al tempo della vita: il prolungamento della durata media della vita comporta il fatto che persone adulte che sono state genitori, nel senso che hanno allevato e cresciuto i figli, di fatto non svolgano più quelle funzioni, e siano alla ricerca di una riorganizzazione del sé, o inclini a ripetere con nuovi partner identificazioni genitoriali che sono diventate una seconda pelle. Pensiamo alla liberalizzazione dei costumi sessuali, che, specie nei paesi anglosassoni, comporta precoci maternità e paternità, scelte, spesso ispirate al desiderio di essere genitori migliori dei propri (in Inghilterra nel 2007 più di 7715 nascite sono avvenute da genitori inferiori ai 15 anni; le madri minorenni sono il 5 per mille). Pensiamo alla quantità di stimoli e di risorse che attenuano la fatica del diventare grandi (giochi intelligenti, corsi di ogni tipo per bambini: musica, inglese, equitazione), ma che al tempo stesso fanno variare di poco il peso delle differenze tra grandi e piccoli, che necessitano del tempo della vita per dispiegarsi, che hanno ruoli sociali asimmetrici, che possono suscitare violenti sentimenti di rabbia reattiva. Pensiamo al cambiamento della funzione della donna che ha acquisito autonomia, sia biologica sia sociale, con gli anticoncezionali e la parità dei diritti, che richiede ai ruoli familiari modifiche profonde. Pensiamo alla dimensione degli affetti esclusivi nei rapporti amorosi, rimasta richiedente dimensioni assolute e incondizionate, in un contesto di relazioni di accoppiamenti liberi.

Si tratta di una problematica aggrovigliata e senza dubbio in via di cambiamento verso nuovi assetti per nulla definiti. Si sono indeboliti quelli che Kaës (2007) chiama garanti metasociali, cioè le grandi ideologie che tengono insieme i processi di vita come sfondo sul quale prendono forma i destini individuali: l’instabilità dei valori condivisi domina il quadro. Lo descrive bene l’antropologo Marc Augè (2008), di cui è uscito il nuovo saggio Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al non tempo, nel quale mette in evidenza i limiti di una cultura dell’immanenza e dell’istantaneità, che contrae le differenze tra aspetti della mente che si dispiegano in temporalità diverse e le differenze che il tempo permette di percepire, a cominciare da quelle tra le generazioni.

Non è interessante assumere la posizione di chi guarda indietro, pensando che prima era meglio o era peggio. Le cose inevitabilmente cambiano, e la dimensione della genitorialità pure. Un problema complesso è dato dal fatto che il cambiamento che coinvolge lo stesso soggetto umano avviene a velocità molto diverse: lo sviluppo biologico ha dei limiti per ora poco variabili (gravidanza di circa 9 mesi, pubertà dopo i 10 anni, menopausa intorno ai 50). Invece altri aspetti sono in mutamento molto più veloce: autonomia conoscitiva, comunicazioni istantanee, produzione di beni con fatica minore, armi di uso immediato, ecc.). La percezione delle differenze tra genitori e figli da certi punti di vista si restringe, da altri si dilata. Non è più così intuitivo capire dove si situa il nucleo fondamentale della funzione genitoriale: dipendenza materiale, legame affettivo, trasmissione di regole, partecipazione al gruppo sociale, prosecuzione della specie, completamento narcisistico?

Talvolta si ricorre alla psicoanalisi per trovare una risposta corretta che espliciti le caratteristiche della funzione genitoriale oggi. Ma spesso questo determina fraintendimenti, una trasformazione in cause di quelli che sono percorsi di costruzione della vita mentale della soggettività dell’individuo, che ha bisogno di formarsi una identità personale, che quindi è composta di episodi, relazioni, occasioni della sua vita a cui riesce a dare un significato e una coesione.

I fraintendimenti della lezione psicoanalitica

La diffusione del pensiero psicoanalitico a livello allargato ha reso di comune conoscenza alcune questioni fondamentali per lo sviluppo psichico dei bambini: l’importanza delle prime relazioni con i caregivers, la centralità della sessualità, la conflittualità edipica nella pubertà.

Storie cliniche (Il caso Schreber di Freud, Il diario di una schizofrenica di Sechaye), romanzi (Il processo di Kafka, Non ho paura di Ammanniti), film (Fanny e Alexander di Bergman, Juno di Reitman, Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi), hanno dato voce alle difficoltà e sofferenze che connotano il percorso di crescita psichica in queste aree, illuminate e rese comprensibili dal pensiero psicoanalitico.

L’attenzione si è concentrata sui contenuti implicati in queste importanti dinamiche del rapporto genitori-figli: le separazioni precoci dalla madre, la repressione della sessualità, gli abusi, l’imposizione di scelte non volute. Questi contenuti sono emersi prevalentemente da ricerche condotte sulla base di materiale clinico relativo a casi in trattamento psicoanalitico, psicoterapico, psichiatrico. A queste si sono affiancati studi dello sviluppo non patologico condotti su base osservativa ( Bick, Mahler, Bowlby, Fonagy). Tecniche di cura delle coppie genitori-figli o di tutta la famiglia o dei soli genitori si sono configurate ( Waslawitz, Vallino, ecc).

Ma un aspetto della lezione psicoanalitica è rimasto in ombra, quello riguardante non solo o non tanto i comportamenti corretti dei genitori o dei figli, ma l’importanza dei processi di soggettivazione. La buona salute psichica dipende in gran parte dalla capacità, da parte di ogni soggetto, di dare un significato personale alle vicende di incontro e di relazione che gli accadono, in modo da potere interiorizzare gli oggetti non-me, senza che annientino il suo personale psichismo. Questo personale psichismo necessita di una certa coesione del sé, che tenga insieme una pluralità di identificazioni e di emozioni che il bambino ha deciso di fare sue. La prima coesione del sé prende forma nel momento in cui il bambino disegna una forma chiusa vagamente circolare, come osserva Gaddini (1985) in La maschera e il cerchio: comunica di sentire che questo è lui, emergente da un flusso disgregato di esperienze sensazioni ed emozioni che a quel punto si unisce, prende forma nelle linea circolare tracciata, cioè nell’attiva assunzione della sua soggettività, separata da quella dei suoi genitori: Sum, io sono, come dice Winnicott (1968).

Questo processo di formazione di un contenitore personale che tenga insieme la pluralità intrinseca di ogni soggetto dura tutta la vita (nei primi mesi questa funzione è svolta dalla madre con la sua holding, consistente proprio nel tenere tra le braccia della mente il bambino perché possa fare esperienze di sé senza contemporaneamente doversi tenere insieme per sentirsi esistere). Così pure per tutta la vita ogni soggetto è cimentato dal desiderio di incontri con l’altro da sé, che siano incontri con un’alterità non annientante il sé, ma risignificata da una personale capacità di sognarla, che la rende digeribile e che modera i fenomeni di rigetto e di allergizzazione verso gli oggetti non-me. La bioniana (1970) funzione contenitore-contenuto è, come osserva Ogden (2004), un processo di continuo ampliamento del contenitore e di continua occasione di nuovi incontri significanti.

Ora, nel rapporto genitori-figli, tale respiro della mente psichica è vitale: una pelle psichica (Anzieu, 1975) che tenga insieme la coesione del sé e una capacità di sognare il nuovo, che lo ammetta nel proprio mondo personale senza crolli e senza inaridimenti e morte.

Le dinamiche del rapporto genitori-figli, anche grazie agli insegnamenti della lezione psicoanalitica, inevitabilmente presentano alcune costellazioni costanti che si ripetono: difficoltà a separarsi dai figli piccoli, problemi a liberalizzare le esperienze sessuali, ribellione a regole ritenute ingiuste, ecc. In queste situazioni, la conoscenza delle questioni a livello teorico serve poco: rapporti simbiotici, fusionalità, rivalità edipica, ecc. Anzi, talvolta può produrre l’effetto contrario, se utilizzata come ricetta da applicare in modo automatico, come la cosa giusta, come una pedagogia meccanica, che annienta la soggettività del bambino e del genitore.

Possiamo invece collocarci dal punto di vista dell’importanza dei processi di soggettivazione: i racconti nei quali i figli verbalizzano e raffigurano via via la storia dei loro processi di soggettivazione e di costruzione di sé, a cominciare dal primo cerchio, sono un elemento essenziale della loro crescita e del loro modo di addomesticare il mondo non me, senza evacuarlo e senza spegnersi come individui. Certo, i contenuti sono importanti, e devono essere ascoltati dai genitori con mente aperta, curiosità e partecipazione, ma non sono necessariamente atti d’accusa da sedare con vari silenziatori (farmaci, droghe, cibo, regali, autoflagellazione, sottomissioni ulteriori alle richieste dei figli, ecc). La vita psichica soggettiva dei figli deve esprimersi e i contenuti delle storie emergenti saranno spesso gli stessi, di critica ai genitori, come nelle favole (un re e una regina inadeguati, una principessa, infelice e prigioniera, un eroe povero e misconosciuto che la libera e che fa imprese eroiche, dei mostri da combattere, un lieto fine con la conquista di un proprio regno).

I genitori lo comprendono bene, sono degli ex-bambini, ma anche loro possono collocarsi dal punto di vista dei processi di soggettivazione, senza smarrirsi nell’immedesimazione adesiva con il vissuto dei figli. Il loro processo di soggettivazione presenta la difficoltà di dare un significato personale e sognante alle differenze, tra adulto e bambino: con il bambino piccolo e con l’offerta di cibo spesso è facile soggettivizzare la differenza di essere quello che dà e il bambino quello che riceve, ma non è detto. Il bambino può presentarsi come un vampiro che succhia tempo e attenzione e non solo cibo, oppure come uno che precocemente vuole scalzare il genitore dal trono di superiorità nel quale si è comodamente insediato, brandendo pugnacemente il cucchiaio della pappa. Soggettivizzare le differenze vuol dire sviluppare la capacità di non cancellarle, ma di convivere con esse e di sognarle, spesso come un combattimento, una lotta nella quale ciascuno cerca di fare bene il proprio lavoro, e che vinca il migliore! Soggettivizzare le differenze vuol dire non chiedere inconsciamente ai figli una conferma della propria qualità di genitori, ma al contrario lasciare lo spazio per la critica e il dissenso, senza indurre un meccanismo di crescita esponenziale della critica fino al punto in cui il prezzo da pagare sarà troppo alto.

Smarrire il figlio vuol dire al tempo stesso smarrire il genitore: ho in mente il caso di una paziente che voleva un bambino, una paziente diventata troppo precocemente matura, con un’emotività inaridita e impoverita, alla ricerca di un aspetto bambina di sé che aveva smarrito o mai avuto, caricandosi di una genitorialità rigida ed esangue, bisognosa della linfa vitale di un dialogo interno tra aspetti genitoriali e infantili. Concepisce un bambino con un africano, nero, scuro, non occupato, un aspetto vitale che introduce nel mondo laborioso, nebbioso, piatto della pianura padana. Al contrario, un’altra paziente non vuole un bambino, anche se l’età è prossimale al limite biologico per averne: la genitorialità la spaventa, le appare come una dimensione non empatica e gelida, fatta di linee guida da osservare. Teme che diventare genitore di un bambino significhi perdere la bambina che ha continuato a vivere in lei insieme alle responsabilità scisse di una vita adulta, ma non genitoriale, che ha sviluppato.

Il possibile fraintendimento di concetti psicoanalitici consiste nel trattarli come prescrizioni da applicare: i contenuti sono validi (cure primarie senza abbandoni per il bambino piccolo, rispetto delle emergenze sessuali del preadolescente, sostegno al bisogno di autonomia di scelta e di azione dell’adolescente, ecc.), ma i modi nel quale il figlio vive cure primarie e educazione successiva esprimono la sua necessità di soggettivizzare il mondo delle relazioni con i genitori, senza soccombere e diventare l’impronta del loro marchio e senza vagare nella nebbia dell’indefinito. I loro racconti sono certamente ricchi di critiche verso i genitori, che devono essere ascoltate, ma a loro volta i genitori le possono soggettivizzare nelle loro storie interne, come personaggi del loro romanzo familiare, che apre nuovi capitoli, piuttosto che chiudersi in passivi adeguamenti per ricevere dai figli il certificato DOC di bravi genitori. Se lo ricevessero, questo rappresenterebbe un sicuro fallimento della funzione genitoriale, che richiede spazi per sognare le differenze.

Alla ricerca di genitori e figli smarriti è un’espressione che riguarda lo stato del mondo interno dei genitori e il rischio continuo di smarrire una delle due identificazioni: convivere è difficile, ma essenziale per non perdersi e per non perdere la speranza di futuro.

La base di fondo è fornire un holding, una tenuta che dia senso di continuità ai figli, lasciando che fluttuino alla ricerca della loro individuazione: i sentimenti espulsivi sono parte essenziale del rapporto, ma gli agiti espulsivi rappresentano un venir meno di questa funzione genitoriale di tenuta. Quando un genitore si trova a pensare ‘uno che fa così non può essere mio figlio’, allora ha la certezza che lo è, maggiore di quella che potrebbe fornire un test del DNA, perché il figlio ha suscitato in lui sentimenti di differenziazione profonda, sulla base di una originaria identità.

Il processo è fornito dal lavoro di soggettivizzazione delle differenze, cioè dalla capacità di tollerare le differenze generazionali senza cercare di abolirle, ma di trovare sogni, fantasie, immagini, significati, che permettano di accettarle con un significato umano e prospettico, di crescita e cambiamento. Cancellare le differenze tra le generazioni rispecchia piuttosto la realizzazione del desiderio del bambino piccolo che d’un balzo, magicamente, vorrebbe essere già grande, senza il faticoso percorso che lo attende. Questo desiderio cova sotto la cenere di ogni genitore e non muore mai, richiede una continua rielaborazione soggettiva, per mantenere la tensione delle differenze e non farlo trasmutare nel desiderio simmetrico inverso di Faust.

Lo psicoanalista Loewald (1979) ha proposto una lettura del passaggio edipico più articolata e profonda rispetto a quella classica che vede nel parricidio la risposta alla minaccia di castrazione. Loewald parla del parricidio come di una affermazione appassionata dell’attiva spinta all’emancipazione dai genitori. Ritiene che nella battaglia edipica siano necessari degli oppositori che contrastino il tentativo del figlio di appropriarsi della loro autorità. “Quando l’autorità dei genitori non è stata affermata, le fantasie dei figli mancano di ‘freni’ (Winnicott, 1945, p.153), cioè della sicura conoscenza che non sarà permesso che le loro fantasie siano messe in atto nella realtà.” (Ogden. 2010,186). Il rischio è che il figlio si impedisca da solo di provare questi sentimenti parricidi, perdendo in spinta all’emancipazione: “ Per Loewald, il conflitto di Edipo è nella sua essenza un confronto tra generazioni, una battaglia accanita per autonomia, autorità responsabilità. In questa lotta, i genitori vengono ‘attivamente rifiutati, combattuti e distrutti, in varia gradazione'(pp.388-389). le difficoltà nascono, non dalle fantasie parricide di per sé, ma da un’incapacità a commettere in sicurezza il parricidio, a tagliare i propri legami edipici con i genitori.” (Ogden. 2010, 187).

Quello che conta nel bambino è la spinta verso l’emancipazione e il bisogno di divenire autonomo e responsabile. Per un genitore non è facile prestare orecchio a questa voce, senza sostituirsi: “Dio, nella sua infinita sapienza, ha creato l’adolescenza”, osserva Ogden: “ Se non fosse per l’adolescenza, non li lasceremmo mai andare. In questo senso, noi uccidiamo i nostri figli adolescenti, contribuiamo a far terminare la loro vita in quanto figli, e, così facendo, li aiutiamo a crescere.” (2010, 89).

Non smarrire né il genitore né il bambino richiede di tenere vivo un dialogo interno basato sull’ascolto di queste diverse voci di dentro, per poi potere comporre il proprio nuovo pezzo di storia. Quello che è andato smarrito è la capacità di vivere con le differenze vitali generazionali tra genitori e figli: non si sa come, si scatena con forza inaspettata una determinazione ad abolire le differenze, prospettata come una forza positiva, piuttosto che un lavoro di soggettivizzazione delle differenze in storie, romanzi, film, disegni, arte.

Possiamo chiederci come realizzare questa soggettivizzazione delle differenze.

Soggettivizzazione delle differenze

Questa dimensione può realizzarsi sulla base della messa a disposizione di una condizione di holding, cioè di una condizione di continuità nel tenere a mente il figlio, che Balint (1959) descrive come la terra su cui camminare, l’aria da respirare, un’esperienza di rapporto data per scontata, a cui non bisogna pensare, perché non è messa in discussione.

Penso a un paziente ingegnere che nello scegliere le sue case osserva le crepe nei muri e nel pavimento: le trova anche quando agli altri sono invisibili. Sta per acquistare una nuova casa, solida, con pavimenti a prova di terremoto, a analisi iniziata, gli piace, ma vede il soffitto dell’atrio attraversato da una inquietante crepa, che per lui è un significante di un ambiente originario insicuro. Una paziente vive in una contrattura muscolare spastica perenne, come se dovesse essere lei tenersi insieme in uno sforzo esagerato, senza potere fare l’esperienza di una ambiente sicuro in cui fluttuare. Spesso associa alla sua condizione quella del pianista del film di Tornatore La leggenda del pianista sull’oceano (tratto dal libro Novecento di Baricco) che non scende mai dalla nave su cui è imbarcato, ma resta legato alla sua attività autocalmante di pianista, realizzata avendo come base su cui poggiare un mare sempre in movimento, un’esperienza di rapporto con la madre instabile e insicuro, affrontabile solo con un’attività di autocontenimento muscolare e mentale.

Su questa base sicura, si può attivare la dinamica di soggettivizzazione delle differenze, che necessitano dello spazio-tempo psichico per dispiegarsi e per non essere annullate al primo stormire delle fronde, frainteso come segno di una relazione non in perfetta sintonia.

Un esempio di questa ricerca di spazio psichico per le differenze, mi è offerto dai numerosi sogni di una giovane studentessa, che affronta l’analisi per motivi di formazione, e che vive in un rapporto molto buono con i genitori, apparentemente senza conflitti. Sogna di trovarsi in mare a fare il bagno e di accorgersi che ci sono meduse, di cui ha molta paura; spesso il mare è quello tranquillo della località di vacanza della famiglia e in acqua con lei sono presenti i genitori. Mi sembra la rappresentazione di una situazione mentale nella quale inizia a introdurre elementi di differenziazione che per ora le sembrano fastidiosi, pungenti, disturbanti: non ci dovrebbero essere le meduse, tutto dovrebbe filare liscio e calmo come è sempre stato. Invece la differenza compare nei trasparenti filamenti affascinanti delle meduse e chiede di essere soggettivizzata, per riuscire a nuotare nel mare dell’essere insieme agli altri.

Le differenze vitali a cui occorre fare spazio sono di ogni tipo, ma si possono indicare alcuni filoni principali lungo i quali sviluppare il lavoro di soggettivizzazione.

La questione dell’oscillazione tra narcisismo e oggettualità naturalmente è il turning point dell’elaborazione delle differenze vitali: predisporre nella mente un posto per sé e per l’altro (Di Chiara, 1985) non rappresenta un dato di partenza, ma una conquista. Non possiamo non ricordare che Freud (1914) vedeva in His Majesty the Baby, nelle proiezioni dei desideri dei genitori sul bambino, la situazione tipica del narcisismo, con confusione delle identità, proiezione e quindi minaccia di annullamento della individualità dell’altro. Comportamenti aggressivi e autolesivi dei figli spesso sono al servizio della conquista di uno spazio per sé, per non sentirsi riassorbito nelle visioni e esigenze dell’altro. Questo è tanto più difficile quanto l’altro, il genitore, sovrappone sul figlio istanze ed esigenze che sente oggettivamente buone, che è difficile rifiutare.

Anoressia docet: un paziente anoressico si procurava tagli con il bisturi della madre medico. L’intreccio e la confusione dei soggetti e del buono e cattivo è evidente. Lo spazio per sé e per l’altro è fondamentale. E’ uno spazio concreto e mentale, dipende innanzitutto dalla capacità del genitore di riconoscere che questa dimensione è essenziale, anche se rappresenta per lui una ferita narcisistica, tuttavia non mortale.

Lo strumento utile è l’ascolto dell’altro: spesso è sufficiente, sia in terapia, sia nelle relazioni di vita quotidiane. Ho in mente un paziente con il quale siamo arrivati a individuare il difetto della relazione con la madre, che pure appariva interessata e sollecita con le sue telefonate e i suoi regali, quando mi parla di un giocattolo della sua bambina rappresentato da un telefono che contiene trucchi cosmetici. Un telefono con i trucchi, usato non tanto per ascoltare l’altro ma per sentirsi a posto. L’ascolto dell’altro è anche l’ascolto delle voci di dentro del genitore, che mantiene lo spazio per la sua individualità differenziata, senza soccombere alle incalzanti pressioni narcisistiche del figlio che lo accusa di egoismo. Il posto da predisporre è quello per l’alterità comunque, l’alterità dell’altro da sé e di sé a se stessi. Anche questo comporta la capacità di sopportare ferite narcisistiche, di non essere quel genitore che vibra all’unisono, ma il genitore che zoppica.

La possibilità dello sviluppo di differenze è costituita anche dalle separazioni nel tempo, dalla messa a disposizione di sequenze di vita separata, per attivare i processi di individuazione e di crescita psichica. Non sapere che cosa sta succedendo all’altro è un buon esercizio per una crescita psichica che non sia di rispecchiamento né di reattività simmetrica. Come pure è utile la possibilità di incontri multipli con altri, perché l’altro attiva l’emergere di potenzialità di sé in attesa di essere evocate, secondo la lezione di Bollas. L’individuo è evocato dagli incontri con gli oggetti, che gli danno l’opportunità di esprimere e conoscere aspetti inconsci sconosciuti di sé: siamo iniziatori della nostra esperienza e anche iniziati da questa, by desire and by chance. Bollas (1992) afferma: “ Ogni ingresso nell’esperienza di un oggetto somiglia al rinascere, perché la soggettività viene nuovamente informata dall’incontro, la sua storia viene modificata da un presente estremamente efficace che ne cambia la struttura.” (58-59).

La soggettivizzazione delle differenze si basa sulla capacità di mantenere nel corso della vita un dialogo interno tra aspetti adulti e bambini, su un’assunzione di responsabilità verso i propri aspetti ancora in fieri, che meritano simpatia, attenzione, cura, e verso i propri aspetti organizzati, per quello che siamo diventati nel tempo, che meritano simpatia, orgoglio, consapevolezza del loro essersi formati sulla base della capacità di accettare perdite, separazioni, rinunce, per scegliere quei colori, suoni, parole, che costituiscono il proprio sé. Talvolta si smarriscono i propri aspetti bambini, pensando di non aver nulla con cui sfamarli, chiudendosi in un arroccamento difensivo estremo; altre volte si smarriscono i propri aspetti adulti, pensando che intanto c’è tempo, e che le perdite riguardano sempre altri. Il dialogo interno, l’oscillazione tra questi aspetti, permette di essere genitori, né solo adulti, né solo bambini.

Diversa è la situazione di quando un genitore è esposto alla perdita di un figlio, o a un grave handicap non curabile. Una parte del sé viene lesa, simmetricamente. Le speranze di futuro sono intaccate, e le protesi sono necessarie ma insufficienti, come la creazione di fondazioni, a nome del figlio mancato. Si può solo condividere.

Un’esperienza vissuta in prima persona è stata quella con una giovane paziente diciottenne venuta in analisi in seguito a un tentato suicidio, ripetuto 15 giorni dopo l’inizio della terapia, fortunatamente senza conseguenze fisiche negative. Il lungo percorso fatto insieme diede buoni frutti: laurea, lavoro, vita indipendente, amori, relazioni. E l’analisi finì felicemente, con promesse di futuro. Qualche anno dopo, due, mi telefonò in lacrime la madre dicendomi che la figlia era morta in un incidente di montagna. Vennero per un incontro con me i due genitori, per ritrovarla insieme, nella comune esperienza che ne avevamo avuto. Poi, per due anni, seguii la madre con sedute settimanali, per condividere il dolore e la mancanza.

Per quanto riguarda questi lutti, penso che spesso ci si trovi a confrontarsi con un sentimento di estraneità, e con il desiderio di richiamare la persona in lutto ad allontanarsi da quell’esperienza così estrema, cercando di riavvicinarla alla condizione di chi ne è al di fuori, utilizzando aspetti consolatori. In questi casi, il rischio è di aggravare i sentimenti di isolamento e estraneità della persona in lutto, lasciandola veramente sola con il buco che ha dentro di sé. Dal punto di vista teorico, penso che la concezione di Kaës (2007) relativa all’apparato psichico gruppale sia fondamentale. L’individualità di ciascuno è costruita non solo sulla base dell’elaborazione delle proprie esperienze personali uniche, ma anche sulla base del bisogno di legame con il gruppo di appartenenza. I grandi lutti collettivi e individuali minacciano il mantenimento di questo legame inconscio di appartenenza, sollecitano migrazioni in altri mondi, senza epidemie, terremoti, figli che vengono a mancare, stermini. Nel caso accennato, mi trovai in una condizione particolare per fare esperienza di questo: il lutto era dei genitori della ragazza, ma la ragazza era stata anche una mia paziente e il mio legame inconscio di appartenenza gruppale era maggiormente sollecitato a slatentizzarsi e ad attivarsi nel rapporto terapeutico con la madre. Solo quando lutti così gravi diventano in qualche misura sociali, diventano cioè parte dell’inconscio del gruppo di appartenenza, allora possono essere un poco sopportabili per chi ne è stato colpito direttamente, che può incominciare a dormire qualche ora, perché anche altri sanno e non dimenticano, non dormono. Questa funzione non è solo affidata ad oggetti inanimati, monumenti funerari, fotografie, fondazioni, ma anche a persone che sentono e soffrono in prima persona gruppale, un noi storico-sociale, attraverso una unconscious identification, come dice Searles (1990).

Senza dubbio è chiedere molto, anzi troppo, a un genitore: non tutti lo possono fare, come non tutti possono fare professioni di cura, il medico, come Asclepio, i cui attributi erano quelli di s??? swthr ( “salvatore” ) e di ?at??? iatron( “guaritore” ), figlio del dio Apollo e allievo del Centauro Chirone.

Bibliografia

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