Relazione presentata al seminario di Formazione Psicoanalitica – Pisa, Piazza Martiri della Libertà, 29 Gennaio 2011 “La ferita e la rabbia: teoria e tecnica del disturbo borderline di personalità” Seminario di Formazione Psicoanalitica Pisa, 29 Gennaio 2011
APPUNTI CLINICI DAL CONFINE
Questo seminario nasce dal lavoro della Commissione Scientifica sulle Patologie Gravi della SPI, ed ha lo scopo di proporre una riflessione di gruppo sul trattamento psicoanalitico, nei suoi sviluppi attuali, di un disturbo che oggi si fa sempre più frequente e pervasivo, presentandosi secondo uno spettro che va da manifestazioni psicopatologiche estreme (20% dei ricoveri psichiatrici, con alto rischio di atti autolesivi , secondo Gunderson), ad assetti mentali e relazionali in cui un Falso Sé abbastanza efficiente copre una grave sofferenza psichica, fino a componenti di base, silenziose, del nostro inconscio. Nelle sue forme più gravi richiede un trattamento multidisciplinare in cui lo psicoanalista fa parte di – o coordina una – équipe di curanti. Negli ultimi decenni anche le stanze di analisi hanno visto una presenza crescente di casi appena meno estremi: il campo delle “patologie gravi”, considerate in passato inanalizzabili. La revisione costante dello strumentario – teorico e tecnico – della psicoanalisi, infatti, ha portato da un modello basato sui pensieri ad uno orientato al pensare (pensiero onirico della veglia secondo Bion) ed alle sue vicissitudini. Questo ha reso possibile il trattamento di patologie, inclusa quella borderline, in cui sono compromessi non tanto e solo i contenuti, quanto le funzioni del pensiero. Dato che, per ovvii motivi di riservatezza, non mi è possibile presentare esempi clinici nella città dove opero, mi limiterò ad un inquadramento teorico introduttivo piuttosto schematico, senza pretese onnipotenti di completezza, data la grande mole di studi sull’argomento. Lascerò ai colleghi qui presenti il compito di connettere la materia vivente della clinica con la riflessione teorica.
E’ stato detto (Barale) che il BPD sta alla postmodernità, con la sua forma sociale segnata dalla liquefazione degli organizzatori identitari, personali e collettivi, e dalla perdita dei “patti narcisistici impliciti” (Käes) garanti della trasmissione transgenerazionale della vita psichica e dell’identità, così come l’isteria stava all’evo moderno, segnato dal potere del padre e dalla repressione pulsionale. In questo senso il BPD costituisce una vera e propria sindrome psicosociale estremamente diffusa, della quale si rendono visibili i casi che giungono alle istituzioni di cura (stanza di analisi compresa), come affioramenti di una sofferenza, diffusa nel corpo sociale, delle funzioni dell’Io e del senso di coesione del Sé.
Il BPD si impone sulla scena del disagio psichico interrogando gli strumenti psicoanalitici, specie nei loro sviluppi più recenti e talvolta controversi, dato che gli strumenti interpretativi più “classici” non si sono, nel tempo, dimostrati di grande efficacia. Concepito in origine come patologia ai confini (tra nevrosi e psicosi), oggi la ricerca tende a modellizzarlo come patologia del confine tra la pensabilità ed il protopensiero-sensazione allo stato grezzo. Tra le sue moltepici caratteristiche (di cui vi parlerà più diffusamente Anna Ferruta), la rabbia é considerata concordemente come l’affetto marcatore specifico della condizione BD, insieme al sentimento di vuoto e di indeterminatezza del Sé, che porta alla tendenza ad agire le protoemozioni non elaborabili secondo modalità spesso autodistruttive, e/o scaricarle nel corpo costituendo patologie psicosomatiche. Va sottolineato che il confine non è costante, anzi è “stabilmente instabile”, con rapide e frequenti transizioni dal pensiero concreto a quello simbolico e viceversa, con compromissione del rapporto con sé stessi e gli altri (quella che Fonagy chiama “capacità riflessiva”). Questa funzione, decisiva per la capacità di compiere atti di autocoscienza e di risonanza empatica coi nostri simili, è infiltrata e compromessa da scissioni ed identificazioni proiettive patologiche.
Sulla genesi del disturbo borderline sono stati proposti numerosi modelli esplicativi. Semplificando al massimo, l’assenza, nell’esperienza delle origini, di un oggetto o caregiver sufficientemente responsivo (o l’eccessiva intrusività dello stesso) (ipotesi Kohut), e/o un eccesso pulsionale od una fragilità di contenimento congeniti (ipotesi Kernberg), hanno impedito o compromesso l’esperienza duale di costruzione delle basi del pensiero e del senso coerente del Sé (primi mesi, al massimo il primo anno di vita). Su queste basi dell’essere umani esistono più modelli psicoanalitici, che in questa sede sarebbe troppo lungo citare. Essi comunque convergono, in un pluralismo fertile, su alcuni punti chiave, confortati dalla ricerca nel campo delle neuroscienze. I primi mesi di vita sono decisivi per la nostra strutturazione di esseri pensanti e relazionali, anche se la plasticità cerebrale si manterrà per tutta la vita (altrimenti un’analisi o una psicoterapia sarebbero impossibili), con tre “finestre” di massima plasticità (0-3 anni, seconda infanzia, adolescenza); è necessaria allo sviluppo la relazione con un caregiver, relazione in cui il bambino ha un ruolo estremamente attivo ed istituisce scambi relazionali che lo plasmano, attraverso una prima decisiva selezione dei sistemi neuronali in via di sviluppo.
Va sottolineato che alla nascita sono attive soltanto alcune strutture cerebrali (“isole di luce nel mare di silenzio della neuroimmagine “ sec. Damasio), deputate alla sopravvivenza ed alla relazionalità sensoriale (circuiti dell’amigdala, implicati nelle protoemozioni come angoscia di sopravvivenza, piacere, rabbia, ecc.). Il più sofisticato circuito talamo-corticale, coinvolto nell’ immagazzinamento e nella processazione delle memorie esplicite (i ricordi ai quali possiamo accedere ed i pensieri che riconosciamo di pensare) si svilupperà in seguito. Quindi le basi dell’essere umani si costituiscono quando la comunicazione strutturante può disporre unicamente di quei primitivi ed efficientissimi canali (identificazione proiettiva bidirezionale). Secondo l’infant research (Stern), inoltre, la qualità strutturante della relazione non sta tanto nei momenti di perfetta sintonia, quanto in una quota sufficiente di fallimenti empatici seguiti da soluzioni adattative per entrambi i membri della coppia madre-bambino, che innescano atti primarii di consapevolezza di sé e dell’altro, e restituiscono al bambino un senso di valore intrinseco, oltre ai rudimenti essenziali della capacità di riconoscere gli stati interni proprii e dell’altro. Quindi, anche una relazione primaria eccessivamente fusionale può costituire un ambiente traumatico per lo sviluppo dell’apparato mentale. Nella relazione originaria, inoltre, vengono trasmessi da parte della madre introietti mentali grezzi di origine transgenerazionale (miti o lutti familiari non sufficientemente elaborati, ad es.), che costituiscono nuclei di intrusioni persecutorie nell’apparato mentale in formazione del bambino. E’ a questi livelli (inconscio implicito-procedurale non rimosso), anche qui operando una semplificazione estrema, che si origina la ferita borderline,che verrà poi rinforzata e, per così dire, stabilizzata nella sua intrinseca labilità identitaria, da successivi fallimenti o traumi nella relazione con l’ambiente di accudimento.
Venendo alla clinica: si tratta di analisi estremamente impegnative, in modo diverso, per entrambi i membri della coppia analitica. Dando per scontato che non esiste un modello di processo analitico, e che ogni analisi ha le sue proprie peculiarità ed il proprio irripetibile decorso, tenterò in questa sede di accennare alcuni tratti distintivi della relazione analitica borderline, principalmente dal versante dell’analista. Questa relazione è segnata, innanzi tutto, da una rapida ed impetuosa regressione a livelli arcaici di funzionamento mentale da parte dell’analizzando, e dalla conseguente proiezione, e sua trasmissione tramite identificazioni proiettive massicce, di vissuti persecutorii nella persona dell’analista. Questi vissuti possono presentarsi allo stato puro, come angoscia di contatto al limite dell’intollerabile, od essere veicolati difensivamente come idealizzazioni reattive, erotizzazioni, inversioni dei ruoli, agiti laterali ad alto tasso di distruttività. In questa prima fase il rischio di interruzione dell’analisi (o della sua perversione neutralizzante) è altissimo, e rimarrà comunque presente per la maggior parte del processo analitico. Le parti scisse del Paziente si presentano con prepotenza nel campo analitico in formazione, alternandosi in maniera “prevedibilmente imprevedibile” (altro ossimoro della relazione borderline), spesso nel corso della stessa seduta, creando una situazione ad “ottovolante” che mette a dura prova, asimmetricamente, entrambi i membri della coppia analitica. L’analista si trova ad essere rappresentato secondo modalità irriconoscibili a sé stesso, venendo così parassitato da introietti non-umani (Searles), subendo cioè una pressione a sperimentarsi come entità persecutoria onnipotente e sadica (oppure, specularmente, come oggetto idealizzato depositario di qualità ultraumane): in ogni caso, i suoi investimenti narcisistici insaturi nei confronti dell’analizzando (inevitabili, e necessari, secondo Ruggiero, all’innesco della funzione analitica stessa) sono violentemente cimentati sia in senso positivo che negativo. La sua stessa capacità di riconoscersi come soggetto pensante ed essere umano separato, provvisto di una propria individualità, è aggredita in maniera spesso difficilmente tollerabile. Quindi, il suo primo compito consiste nel fare holding e mantenersi, secondo l’assioma winnicottiano, “vivo, sano e sveglio” (sveglio, non eccitato o rabbioso), e fornire così la testimonianza di un oggetto sufficientemente stabile e capace di atti di pensiero strutturati e potenzialmente strutturanti , in attesa che il paziente sviluppi la capacità di farne uso, il che avviene per lo più dopo anni di lavoro analitico al confine della pensabilità. Sono perciò necessarie dosi massicce di capacità negativa, intesa come tolleranza di non sapere, non riconoscere, non essere in grado di capire con sufficiente chiarezza buona parte di quanto avviene nel qui ed ora della seduta. Questo non significa lasciarsi andare, per così dire, alla deriva: il paziente non saprebbe che farsene di un terapeuta confuso quanto lui. E’ necessario, all’opposto, un duplice movimento.
1) Per un verso, occorre operare una regressione controllata, consistente nel tollerare di regredire parzialmente in sintonia, ricorrendo alla capacità di accedere al proprio borderline interno, costituendo così atti di autentica empatia con l’analizzando, veicolati dalla parola e non solo da essa (ad es. tono della voce, timing, ecc.): empatia e non empatismo, secondo la distinzione di Bolognini. Se, infatti, un analista rigido, direttivo, arroccato difensivamente nel proprio bagaglio teorico ed interpretativo standardizzato, tenderà ad accentuare la propria dimensione persecutoria fino ad una prevedibile interruzione del trattamento, anche l’analista eccessivamente ed incrollabilmente benintenzionato non andrà troppo lontano: la dimensione borderline, infatti, oltre che traumatogena è intrinsecamente traumatofilica, e di fronte ad una sorta di buonismo analitico il paziente intensificherà i suoi sforzi per riprodurre, ripetere, nella relazione analitica la situazione traumatica originaria, e vedere quindi accolte, introiettate (e, sperabilmente, bonificate) le sue parti confuse, rabbiose e sadiche da parte dell’interlocutore presente nella stanza di analisi. In realtà anche questa seconda posizione dell’analista è intrinsecamente difensiva, empatistica anziché empatica, e questi pazienti, provvisti di antenne sensibilissime per tali falsificazioni, riconosceranno senza dubbio questa sua caratteristica, rimanendo soli, confusi, alla deriva. Un analista sufficientemente capace dovrà quindi essere in grado di, per così dire, indossare i personaggi che vengono proiettati sulla sua persona, senza peraltro farsene parassitare fino ad agirli per effetto di controidentificazione proiettiva, rendendosi così testimone della tollerabilità delle proiezioni dell’analizzando e delle loro componenti di verità protomentale e prerappresentativa.
2) In parallelo, è indispensabile il mantenimento di una funzione interpretativa stabile e collaudata, che si pone come garante del setting, sia esterno che interno all’analista stesso. Essa veicolerà non tanto contenuti, come avverrebbe nell’analisi di pazienti nevrotici, bensì modalità di pensiero alfabetizzanti (metafora di A.Ferro, indicante la costruzione della funzione alfa), mettendo a disposizione, seduta dopo seduta, quantità discrete di funzionamento mentale simbolico e strutturato. Anche questa è operazione tutt’altro che semplice, dato che per lo più ci si trova a lavorare interpretativamente “nel vuoto” (Marinelli). La capacità di mettere in parole la potenza del negativo, controstampo del trauma originario (Green), gli occasionali e preziosi atti di rêverie, l’utilizzo parco e meditato della self-disclosure costituiscono un set di strumenti irrinunciabili nel lavoro con questi pazienti. Con il progredire del trattamento, man mano che l’impasse memoriale del paziente borderline (la cui esperienza di sé e dell’altro è in origine tipicamente schiacciata sull’attimo presente) tende a risolversi, e le scissioni progressivamente si allentano, consentendo il dialogo intrapsichico tra le parti e gli stati del Sé, lo spazio per l’uso dell’attività interpretativa (spesso attuata in après-coup) si dilata, consentendo quello che i Botella definiscono il lavoro di raffigurabilità dell’analista. Questo lavoro (che sec. Searles si attua per lungo tempo “soprattutto nella mente dell’analista” e “per così dire, al di fuori della mente dell’analizzando”) conduce i contenuti mentali non rappresentabili ad acquisire tale caratteristica, la rappresentabilità e pensabilità , frutto di continue “collisioni e negoziazioni “ (Bromberg) tra i due apparati corpo-mente coinvolti nella relazione terapeutica, promuovendo e strutturando la coesione e l’organizzazione del Sé. Secondo un altro vertice osservativo, bioniano, si verifica un processo di strutturazione della funzione alfa, atta a metabolizzare e rendere pensabili gli elementi sensoriali grezzi (elementi beta). Altri Autori hanno proposto altri modelli di trasformazione che qui non cito.
Concludendo, esistono molte altre dimensioni del trattamento analitico borderline (ad esempio la questione del corpo e della sensorialità nella stanza di analisi, le caratteristiche dell’oggetto borderline, la mancanza del Terzo e della terzietà, ecc.) che verranno trattati ampiamente dai relatori che mi seguiranno, a cui cedo ora la parola.
Mario Bottiglioni
Pisa, 29/1/2011