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Galeota M. (2019) Dare senso all’urgenza

Testo della relazione presentata al convegno

“Il contributo della psicoanalisi nei servizi di salute mentale per minori”

Firenze 26.01.2019

L’esperienza di lavoro in una U.O. di Neuropsichiatria Infantile di un’Azienda Ospedaliera ha promosso un continuo confronto con carenza di personale a vari livelli, carenza di risorse, difficoltà a reperire materiale testologico e difficoltà anche per esami strumentali e di laboratorio.  Naturalmente, contestualmente a queste difficoltà, si sono evidenziate tutte le complessità della sofferenza dell’utenza. Sembrava che i minori incontrati, bambini e adolescenti, ma anche i genitori, singoli o in coppia, proponessero la stessa condizione di carenza di risorse, a volte   risorse da andare a scovare, riorganizzare o semplicemente presentare in quanto non viste o valutate.

Vorrei ricordare le parole di S. Freud (1905, Psicoterapia, vol IV, pag.430 OSF Boringhieri, Torino): “…noi medici non possiamo rinunciare alla psicoterapia per la semplice ragione che l’altra parte coinvolta nel processo di guarigione – e cioè il malato – non ha l’intenzione di rinunciarvi…..Vi è un fattore dipendente dalla disposizione psichica dei malati che interviene, senza intenzione da parte nostra, nell’effetto di ogni procedimento terapeutico avviato dal medico, nella maggior parte dei casi in senso favorevole, ma spesso anche in senso inibitorio…non è quindi uno sforzo giustificato da parte del medico il tentare di impossessarsi di questo fattore, di servirsene intenzionalmente, di guidarlo e rafforzarlo? Questo e nient’altro richiede da voi la psicoterapia scientifica”.

Quindi la psicoterapia è sempre coinvolta nell’atto medico e allora ci sono due possibilità: farla bene o farla male, non farla non è dato.  

Il sentirsi sollevati nel comprendere e dare contenimento sembrava, all’inizio del mio lavoro, dare senso al lavoro medesimo e consentiva anche di accedere ad una condivisione mai sperimentata fino ad allora. Lentamente prendeva forma l’interesse, sembrava che pochi considerassero i bambini e gli adolescenti come possibili soggetti bisognosi e sofferenti. Forse avvicinarsi ad un bambino spaventava, pochi erano capaci. In uno dei primi colloqui di selezione alla SPI, Piero Bellanova mi disse: lo sa la 180 si è dimenticata dei bambini. Pensai fosse una grande ingiustizia, i bambini fondano la speranza! 

Tonia Cancrini scrive “attraverso la fiducia, la sicurezza e l’amore la madre costruisce e fornisce al bambino il senso di sé e della relazione. Invece, nel momento in cui la madre non riesce ad espletare questa funzione di amorevole contenimento e comprensione, perché non c’è o non è in grado di avere il bambino nella sua mente, il bambino non solo non viene compreso e non è contenuto, ma è profondamente ferito da questa mancanza.”(Cancrini 2012, p.6). Il bambino sperimenta la fiducia in ogni occasione della sua vita e ciò lo riporta alla fiducia originaria. Avevo già sperimentato nel tirocinio post-laurea che avvicinarsi al bambino con fiducia riconoscendogli dignità di soggetto agevolava il compito dei pediatri di pronto soccorso, anche fare tamponi faringei non scatenava angoscia. L’incontro è sempre un evento che sottolinea la relazione tra due o più persone, per cui si avverte sempre un coinvolgimento: sia del mondo interno dell’operatore/dell’analista che dei genitori e del bambino; si verifica una circolazione, quasi un travaso di emozioni, affetti, dolori tra i soggetti coinvolti. 

A mio parere, come già scritto altrove, il metodo psicoanalitico consente di poter comprendere, contenere e significare l’angoscia delle madri in relazione a problematiche del loro bambino e consente altresì di dare voce, attraverso la rêverie, all’angoscia di vuoto, di annichilimento del bambino soprattutto se molto piccolo e restituirlo, come persona intera, alla comprensione della madre. E con gli adolescenti, il buon uso del controtransfert, intima allo psicoanalista e ai curanti frequenti viaggi a ritroso nella loro personale adolescenza nonché l’elaborazione di eventuali vissuti pubertari. 

La formazione psicoanalitica/psicodinamica ha informato tutta la mia attività consentendomi di avvicinarmi a vari tipi di patologie e di modus operandi. Anche le consulenze in altri reparti hanno contribuito a rendere fecondo l’incontro con altri operatori, a coltivare la capacità di pensare, di riflettere, di discutere e soffermarsi sul possibile significato dei sintomi.

Personalmente sento il mio modo di pormi ancor più complesso in quanto psicoanalista esperta di bambini e adolescenti e, non di rado, mi ritrovo nel bel mezzo di un conflitto tra le mie anime, non sempre consonanti tra loro.

Cercando di rendere congruenti tra loro questi aspetti, ho sempre ben presente che nel momento di un colloquio con un bambino e, ancor più con un adolescente, anche in urgenza e emergenza, il metodo psicoanalitico offra eccezionali condizioni di incontro che possono difficilmente ripetersi.

Ritrovare dei nessi implica non una logica di controllo, di domande-risposte, ma una logica associativa destinata ad aggirare le difese del paziente e a sorprendere lui per primo (P. Jeammet: Psicopatologia dell’adolescenza, Borla, Roma 1992, pag.104). Non sempre mi trovo in condizioni ideali, anzi piuttosto le richieste di consulenza rivestono il carattere dell’urgenza/emergenza. Il più delle volte tale urgenza è potenziata dall’allarme dell’ambiente circostante e ciò naturalmente complica la situazione. Partendo da un caso clinico, precisamente una consulenza urgente, cercherò di riflettere con voi su alcuni aspetti.

La consulenza iniziò con l’allarme del Direttore Sanitario che irrompendo nella mia stanza, noncurante del ragazzo che mi stava di fronte, tra il trafelato e il perentorio, mi “ordinava” di andare subito in Pediatria perché la situazione era grave. Pensai che in ospedale accadono le urgenze, ma è bene cercare di tenere a mente che abbiamo a che fare con persone fragili e sofferenti e dovremmo cercare di limitare i danni. Non mi era stato spiegato nulla, ma era intuibile che fosse accaduto qualcosa di grosso. Personalmente sapevo che gli “altri” medici si allarmano facilmente un po’ perché hanno paura, un po’ perché non sono competenti e soprattutto non hanno coraggio nell’affrontare le angosce delle persone e i conseguenti agiti. Un po’ timorosa ero anche io, non sapevo cosa immaginare, ma sapevo che mi sarei trovata da sola ad affrontare una criticità.

In Pediatria c’era una gran confusione, infermiere che sembravano automi e rimanevano immobili o si aggiravano senza meta tra i corridoi, mamme che guardavano attonite sulle porte delle stanze, quasi come sentinelle, mentre in una stanza si sentiva un gran chiasso, a tratti urla, voce grossa, rumori metallici. Con difficoltà alla fine compresi che c’era una ragazzina di 12 anni che era stata ricoverata la sera prima perché era agitata avendo anche assunto farmaci in dose non terapeutica (pensai un T.S.?). 

Proveniva da una casa famiglia, la madre era morta l’anno prima, il padre lavorava lontano dal luogo di residenza e non si poteva occupare di lei, aveva una sorella più piccola che era stata affidata a dei parenti. Insomma pensai che era sola come forse mi sentivo sola io in quel momento. Certo per Rita (così chiamerò la ragazza) doveva essere ben difficile avere a che fare con la sua solitudine o esclusione. L’allarme era stato scatenato da un agito di Rita. Poco prima, mentre era sola nella stanza, aveva scavalcato il davanzale e si era ritrovata su un piccolo bordo di travertino, con il vuoto sotto i suoi piedi, (si trattava di un secondo piano alto!). L’aveva notata un biologo di un altro reparto, la cui finestra era proprio di fronte, aveva iniziato a parlarle e si era offerto di aiutarla. Rita aveva accettato. Così mentre un altro collega continuava a colloquiare con lei, il primo era corso per sollevarla all’interno. In tutto ciò nessuno, in Pediatria, si era accorto di alcunchè. L’allarme quindi non era solo per l’agito di Rita ma anche per non essere riusciti a tenere Rita nella mente. Rita intanto aveva assunto atteggiamenti minacciosi, violenti e, a tratti, scurrili verso tutti anche verso di me che mi ero intanto avvicinata per presentarmi. Tale modalità mi evocavano sensazioni profonde di insicurezza e imbrattamento e, utilizzando il controtransfert, immaginavo quanto probabilmente Rita si sentisse imbrattata. Forse il tentato suicidio era stato anche sostenuto dal tentativo di sfuggire a queste sensazioni, all’insicurezza, ad un dolore indicibile. Nel vederla così agitata e incontenibile mi tornarono in mente le tecniche utilizzate in un SPDC dove avevo lavorato per dieci anni all’inizio della mia vita lavorativa. Mi imbattetti così nelle mie contraddizioni: all’epoca criticavo molto le contenzioni forzate, in questa situazione forse avrei aderito a questa metodica.

Guardandomi intorno avvertivo confusione, allarme, disorientamento. Avevo la sensazione che nessuno fosse in grado di avvicinarsi non solo al problema ma proprio a quella ragazzina, eppure aveva solo 12 anni ed era anche minuta, forse era ancora una bambina. Mi dissi che evidentemente i bambini addolorati spaventano per il dolore, per l’immediatezza del bisogno, forse perché convocano gli adulti alla assunzione di responsabilità, alla tenuta.

In quel momento Rita non aveva nessuno ed io non potevo avere informazioni da genitori o da parenti, neanche medici e infermieri potevano aiutarmi. Non mi restava che trovarmi un luogo, una stanza dove potessimo incontrarci e guardarci.

Per fortuna con me c’era una specializzanda in NPIA e la sua presenza diminuiva il mio sgomento, forse potevamo condividere la preoccupazione, l’insicurezza, la solitudine. Inoltre, ripensandoci eravamo entrambe adulte e la specializzanda era più giovane di me ed io immaginai che poteva essere più pronta di me, parlavamo lo stesso linguaggio, insomma potevamo intenderci. Rita invece era completamente sola. Mi chiesi come fa una ragazzina di 12 anni a tollerare non solo il senso di solitudine, ma anche quella situazione di allarme, cosa le veniva restituito dall’ambiente? Credo solo persecutorietà. Ritornai a quando avevo 12 anni, ricordai un episodio in cui mi ero sentita male a scuola, arrivarono subito mia madre e mio padre, ritornai a casa. Rita era sola e non sarebbe arrivato nessuno a portarla via di lì. Appena nella stanza, immediata fu l’ostilità, sia pure verbale, nei miei confronti, provai a smorzare i toni, mi disposi all’accoglienza, alla significazione, alla comprensione. Intanto ciò che polarizzava la mia attenzione era una flebo che era stata inserita al braccio di Rita. Mentre mi chiedevo quale fosse stata la motivazione per tale scelta avvertivo in me angoscia, immaginando scenari di autolesionismo suggeriti evidentemente dal T.S. 

Purtroppo abbastanza repentinamente l’umore di Rita si modificò, anche lei era angosciata o forse entrambe intuivamo l’allarme dell’altro, tanto che manifestò la sua opposizione non solo verbalmente ma anche fattualmente, si alzò, afferrò una sedia e me la lanciò contro, per fortuna la schivai, quindi fallendo i suoi tentativi di neutralizzarmi, cercò, con grandi balzi sulle scrivanie, di guadagnare la finestra. Fu improvvisa e inaspettata anche la mia reazione, mi lanciai su di lei nel tentativo di agganciarla in qualche modo per evitare ciò che avevo intuito. Riuscii a prenderla, anche con forza e la lanciai su un divano che per fortuna era lì e, per evitare che potesse riprovarci, mi sedetti su di lei. Ero certa che non sarebbe riuscita a liberarsi almeno per un po’. Ma ero anche determinata a tenerla. Rita cercò in tutti i modi di divincolarsi, mi picchiò moltissimo e attaccò soprattutto l’indice della mia mano destra tanto che temetti una frattura. Riuscii a salvare il dito e a questo punto attraverso il mio dolore sul corpo, mi sembrò di poter avvertire il suo dolore profondo. Decisi di abbracciarla, di tenerla, di parlarle all’orecchio, come si fa con i bambini quando non si riescono a calmare, della solitudine, della rabbia, del tradimento, della delusione di essere stata lasciata cadere e provai ad offrirmi come oggetto sostitutivo, oggetto di comprensione e nuovo oggetto. Cercai, per quanto possibile e con le parole comprensibili ad un primo adolescente, di avvicinarmi e di significarle il dolore. Lentamente avvertii che si distendevano i muscoli, non avvertivo più contrazioni. Immaginai che Rita avesse bisogno di un contenimento, di qualcuno cui potersi aggrappare, che non la lasciasse andare. Immaginai la sofferenza che avvertiva e che non trovava alcuna sponda per essere arginata, verbalizzai lentamente quanto avvertivo controtransferalmente. Le proposi qualcosa, anche un farmaco, che potesse farla un po’ calmare in quel momento. Accettò.  Rimanemmo ancora abbastanza abbracciate, mentre continuavo ad accarezzarla. E intanto valutavo quanto avvertivo al mio interno. Non c’era più allarme, anche se avvertivo il mio cuore scoppiare. Mentre mi interrogavo sul mio corpo, pensai che forse anche Rita sentiva il suo cuore scoppiare per la disperazione. Grazie a questi pensieri fu possibile un avvicinamento, anche una comprensione, un alleggerimento della paura. Ora Rita si aggrapava a me e si lasciava tenere, quasi si accovacciava nel mio corpo.   Si avvertiva calore tra noi, lentamente ci stavamo placando! Appena possibile accompagnai Rita nella sua stanza. La sistemai nel letto ormai sonnolenta. Rimasi ancora lì, forse avevo difficoltà a separarmi, forse mi interrogavo come avrebbe reagito al farmaco, forse temevo che sarebbe incorsa nel solito problema di non essere vista. Parlai con calma con i pediatri, fui meglio informata sulle condizioni di vita di Rita: la madre morta un anno prima suicida, aveva una sorella più piccola, il padre per lavoro sempre fuori. 

Le bambine furono affidate a dei parenti, ma Rita fu rifiutata per il suo temperamento eccessivamente richiedente e, solo lei, affidata ad una casa famiglia. Mentre ascoltavo la narrazione mi interrogavo come mai mi fossi tanto adoperata per questa ragazzina intemperante, violenta (mi aveva lanciato contro delle sedie pesanti), maleducata. Come mai per quanto allarmata non mi fossi sottratta al rischio di subire dei danni?  Certamente una gestione più cauta anche se non elusiva avrebbe rappresentato la migliore scelta professionale. Allora qual era la mia condizione interna che mi aveva spinto e sostenuto in questo intervento? Inoltre come avevo fatto a non scappare, anzi a tenerla mentre mi piegava il dito indice a 90 gradi? Certo Rita era giovane, agile, determinata e piena di dolore, avrebbe potuto farmi anche molto male, ma si era limitata a queste cose menzionate. Forse Rita voleva farmi   provare qualcosa. Sicuramente ciò che non avevo provato era il sentimento della rabbia e del risentimento, non mi ero sentita impotente come in genere mi era capitato in occasione di colluttazioni e aggressioni. Piuttosto ero stata sollecitata in questi sentimenti dal colloquio con il padre il giorno dopo, con le riflessioni e l’osservazione del comportamento di alcune infermiere e con la responsabile della casa famiglia. Insomma mi trovavo dinanzi a genitori o figure genitoriali sostitutive non disponibili ad accogliere e condividere i vissuti e neanche ad empatizzare con un essere umano in evoluzione.  Nel mio intervento era implicito il tentativo di proporle un altro da Sé che potesse fornirle la prospettiva di una seconda occasione: non esistono solo genitori abbandonici come la madre, il padre, i parenti, o la responsabile della casa famiglia o alcune infermiere che a sentire il trambusto si erano tenute a distanza di sicurezza per paura. Abbandonata mi ero sentita anche io in quella situazione difficile.   Le notizie anamnestiche risultarono insufficienti e frammentarie, era difficile rappresentarsi una storia di Rita, mi chiesi chi le potesse rimandare un’unità, una pensabilità, quale oggetto contenitivo avesse avuto. In quella situazione di grande sofferenza solo io e il primario di Pediatria scoprimmo di tenerla nella mente: ogni mattina ci trovavamo lì insieme alle 7,30, valutavamo tutti i parametri e le parlavamo.  Personalmente credo che se facciamo questo lavoro non è solo per aiutare chi ha bisogno di aiuto, ma anche per il nostro bisogno per essere aiutati ad aiutare. Con Rita forse il fine era creare un punto di incontro, forse per alfabetizzare stati emotivi, gli stessi agiti potevano essere componenti costitutivi di affetti vissuti e non esperiti. Da quanto si apprese sulla sua storia evolutiva si ipotizzò l’impossibilità per Rita di introiettare esperienze relazionali di contenimento emotivo e ciò verosimilmente aveva mantenuto attive angosce di annichilimento proprie delle esperienze protomentali. Rita nel momento specifico della sua evoluzione, nel momento in cui si presenta il secondo processo di separazione/individuazione, si era vista negato il piacere evolutivo e aveva subito il tradimento dell’oggetto: piuttosto che separarsi lei, si era separata la madre, lasciandola sola, negandole il diritto ad una propria soggettività ma catturandola per sempre nel vuoto. Forse il T.S. era un modo per agire la disperazione: farsi vedere per sentirsi tenuta o cercare di separarsi da un dolore annichilente. L’assenza o l’inadeguatezza dell’oggetto può indurre zone difettuali, mute, soffocate in un buco nero, per un carico di dolore inesprimibile, oppure uragani di violenza travolgente in cui il dolore potrà essere urlato o agito inibendo lo sviluppo psichico.  Riflettendo successivamente su questa consulenza risultavano due agiti: quello della ragazzina e quello della consulente, il mio dispormi a contenere fattualmente, non c’era spazio per le parole, ma si potevano sentire le sensazioni, ascoltare il dolore, ma anche il battito del cuore, il rumore del respiro. Per quanto ci fosse accellerazione, tutto aveva un ritmo, lo stesso che ascolta il neonato quando è tenuto tra le braccia. Questa rilettura è stata possibile per un’attitudine verso la comprensione, per la possibilità di farsi aiutare dalla formazione psicoanalitica per affrontare il dolore e riconoscerlo in sé e nell’altro. Ecco perché credo che sia necessario per uno psicoanalista che lavora in una Istituzione, fare ogni volta una scelta di campo: prendere le distanze da una pratica psichiatrica in generale,  anche propria dei servizi per l’adolescenza e l’infanzia, che attraverso i concetti di “sintomo” o “malattia” riconosce la sua funzione prevalente nel tacitare strategicamente questo dolore e, di fatto, negarlo.  Nella situazione che ho descritto forse contrapposte si sono trovati l’aspetto mortifero e la vitalità. Situazioni, queste, che ci inducono a confrontarci realisticamente con la complessità del compito e i limiti delle nostre teorie.

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