Testo della relazione presentata al Convegno “Spunti per una psicoanalisi contemporanea. Il pensiero di Sandra Filippini”
Firenze, sabato 2 dicembre 2017
Ho scelto questo titolo per questo mio contributo perché mi è sembrato una felice combinazione di caratteristiche fortemente legate all’oggetto del nostro discorso odierno e dalle numerose intersezioni. Innanzitutto perché Parole in azione è il titolo di uno dei primi lavori che Sandra Filippini e Maria Ponsi proposero per la pubblicazione alla Rivista di Psicoanalisi; la redazione di allora, parliamo dei primi anni 90, rifiutò l’articolo, senza nemmeno richiedere modifiche. Il contenuto dell’articolo, ampliato da alcune esemplificazioni cliniche, confluì poi in un seminario nell’ambito dei seminari multipli che si tenne a Bologna nel 1995 e nell’articolo pubblicato poi sulla Rivista nel 1996 con il titolo “Sull’uso del concetto di interazione”. Lo stesso concetto di inter-azione era entrato a far parte anche di un altro lavoro dal titolo “Enactment”, sempre scritto a quattro mani da Sandra e Maria e pubblicato sulla Rivista nel ’93.
Potremmo dire che intorno al concetto di inter-azione si sia sviluppata una linea di riflessione abbastanza caratteristica di un certo filone della psicoanalisi fiorentina: oltre ai due lavori citati, Maria Ponsi pubblicò “Interaction and Transference” sull’International Journal nel 97 e più recentemente “Evoluzione del pensiero psicoanalitico. Acting out, agire, enactment” sulla Rivista di Psicoanalisi nel 2012. E come non ricordare il celeberrimo lavoro “Interpretazione dell’agire e interpretazione come agire”, scritto da Stefania Manfredi ancora prima, nel lontano 1978?
Io stessa negli ultimi anni ho cominciato a interessarmi al tema dell’azione e al suo rapporto con la rappresentazione nello sviluppo psichico, certamente anche come effetto di un germogliare dentro di me del loro pensiero. Molto di quello di cui parlerò oggi è infatti il frutto delle mie conversazioni con loro, oltre che della lettura dei loro lavori. E’ il frutto dei miei scambi con Stefania Manfredi e delle sue fulminanti osservazioni sul funzionamento della mente, a partire dalla mia ed è soprattutto il frutto dell’amicizia e delle incredibilmente fertili conversazioni con Maria Ponsi e Sandra Filippini, oltre che della lettura dei loro lavori che ho appena citato. Potrei dire che oggi mi sento come la portaparola di una felice discendenza psicoanalitica, una discendenza squisitamente femminile, come sarebbe piaciuto tanto a Sandra, fatta d’intuizioni felici, di uno sguardo rivolto in avanti, di un pensiero non conformista che rifugge però l’anti-conformismo di maniera. Le parole in azione saranno quindi oggi le loro parole cui io spero di poter rendere merito esprimendo al contempo il mio debito di gratitudine intellettuale ed affettiva. Saranno quindi le parole di Sandra, ma anche quelle di Maria e saranno mescolate alle mie.
Credo si possa cominciare col dire che, a quasi 30 anni di distanza da quelle loro prime riflessioni, il tema relativo alla quota di interazione presente in analisi abbia avuto un’espansione prodigiosa, a tratti e in relazione a certi tentativi di concettualizzazione, forse anche eccessiva.
Nonostante che azione sia stata molto a lungo una dirty word, come scriveva Stefania Manfredi (1978 Interpretazione dell’agire e interpretazione come agire), e come quel primo rifiuto della Rivista a pubblicare parole in azione potrebbe suggerire, paradossalmente molte parole importanti per la psicoanalisi la contengono: identificazione, idealizzazione, chiarificazione, interpretazione. La stessa parola relazione, che indica l’azione che porta a legare insieme cose e persone, la peculiare spinta dell’uomo a creare legami, sta a significare come ci siano degli aspetti dell’esistenza che non possono essere elusi, che permeano il nostro vivere, il nostro parlare, il nostro stesso essere.
In principio era l’azione. Fa dire Goethe a Faust.
Nasciamo da una rel-azione e veniamo al mondo già predisposti a una rel-azione; la nostra stessa vita psichica, il primum movens della conoscenza del mondo e di noi stessi nasce, in fondo, da una prima azione: metter dentro – sputare fuori, ed è questo primo fare che da origine alla distinzione fra interno ed esterno, fra me e non-me, fra il Sè e l’altro.
Siamo immersi in un oceano di azioni, come ci ricorda Greenberg (2012) e l’incontro con il paziente, dalla prima telefonata al primo saluto, a tutto quello che sta nello spazio condiviso, è permeato di azioni o degli effetti di queste; è un mettere in atto (To act), sulla scena analitica condivisa con il paziente, aspetti del Sé dell’analista: il modo in cui rispondo al telefono, il messaggio della segreteria, come mi vesto, se mi trucco o meno, se i miei capelli sono naturali o colorati, se, come dice Irene Ruggiero, aspetto il paziente sulla porta o seduta, se gli do la mano oppure no, o quando gliela do, come lo saluto o come concludo la seduta.
Potremmo allora pensare, come forse oggi penserebbe Freud, che dopo le tre grandi disillusioni che l’uomo ha dovuto affrontare, anche gli psicoanalisti debbano adattarsi a subirne una: che l’azione permea il nostro essere nel mondo, per quanto ci possiamo sforzare, nella stanza di analisi, di limitarne l’impatto o di comprenderne il significato.
“Io ritengo che l’agire non è né buono, né cattivo, ma che in psicoanalisi è utilizzabile o inutilizzabile” (S. Turillazzi Manfredi)
Ma quale è il motivo per cui siamo stati così recalcitranti ad accettare l’ineluttabilità di questo fatto? Non credo, come mi pare non credessero Maria e Sandra, che questo sia dipeso soltanto da un vincolo di fedeltà alla potente idea freudiana di agiren come agire regressivo e meccanismo di difesa fondato sull’espulsione e la scarica. Già Riolo nel 1978 (L’agire come linguaggio e rappresentazione) esortava a distinguere questo agire difensivo, al servizio del processo primario, da un agire progressivo, da leggersi, al contrario, come fattore evolutivo orientato alla integrazione del sé e della realtà e allo sviluppo della conoscenza o Loewald nel 1971, solo per citare due autori, (Some consideration on repetition and repetition compulsion) che sottolineava come una gran parte della comunicazione analitica, non solo dalla parte del paziente, comprenda una forte componente di azione, di modulazione relazionale, oltre che di attualizzazione nel transfert e nel controtransfert.
Verrebbe da pensare che il concetto di azione abbia subito in un certo senso la stessa sorte del controtransfert: da elemento di cui si parla solo inter nos, pericolosa quanto inestirpabile testimonianza dell’esistenza dell’analista come persona e quindi attacco al mito dell’analista come pura “funzione analizzante”, a elemento che può contenere aspetti trasformativi in grado di attivare il processo analitico soprattutto in quelle situazioni in cui la figurabilità, come la definiscono i Botella, deve essere considerata come un punto di arrivo e non ancora uno strumento a disposizione del processo analitico.
Sempre Stefania Manfredi, a cui non ha mai fatto difetto l’assertività, sosteneva, oltre trent’anni fa, come ci fosse ancora troppa ansia negli analisti a proposito dell’espressione degli impulsi infantili, sia libidici che aggressivi. Se questa può essere una spiegazione per la messa all’indice del concetto di azione, mi pare che possa spiegare anche il destino del controtransfert.
Ma se proviamo a percorrere a volo di uccello alcune delle tappe che hanno segnato l’evoluzione del concetto di azione all’interno della relazione analitica possiamo senz’altro identificare alcuni turning point: il riconoscimento sempre più ineludibile del ruolo giocato dalla soggettività dell’analista; l’importanza degli sviluppi teorici attraversati dal concetto d’identificazione proiettiva, dall’intra-pischico all’inter-psichico; l’irrompere del pre-verbale e del non verbale nelle osservazioni analitiche e il bisogno di nuovi apporti teorici per comprendere ed elaborare nuove questioni e nuove istanze cliniche. Sono comparsi così, cautamente, ma irreversibilmente, nuovi concetti che non includono semplicemente la parola azione, ma che a partire dall’osservazione dei fenomeni clinici cercano di concettualizzare sul ruolo che l’azione può svolgere nel processo analitico. Tra azione e rappresentazione, tra azione e interpretazione: come siamo cioè arrivati a capire, ad un certo punto, che quando abbiamo a che fare con molto meno della rappresentazione ci è necessario qualcosa in più dell’interpretazione.
Ne è un esempio, come suggeriscono nel loro lavoro sull’inter-azione Filippini e Ponsi, il percorso compiuto dal concetto di acting out, che prima veniva considerato un ostacolo al buon lavoro analitico tanto da diventare una sorta di ricettacolo di tutto ciò che non è ‘vera psicoanalisi’ e che successivamente è stato rivalutato per le sue potenzialità conoscitive: “‘Agire è sempre stato considerato l’opposto di ‘pensare. Tuttavia, se prendiamo in esame l’evoluzione del dibattito intorno alla nozione di acting out, vediamo come la classica contrapposizione tra ‘agire e ‘pensare sia andata attenuandosi, e come sia invece cresciuta l’attenzione per gli aspetti comunicativi — e dunque evolutivi- del comportamento ‘agito’ rispetto a quello ‘verbalizzato’” (Ponsi e Filippini 1995, p. 2).
Fino agli anni 60-70 il termine di interazione, assente nell’opera freudiana, serviva ad indicare tutto ciò che era non-analitico e in contrasto con le regole del setting, alla pari del termine “comportamentale”. Poi con la diffusione dell’orientamento relazionale, il termine di interazione ha cominciato fare capolino più spesso nelle comunicazioni analitiche, perdendo al contempo l’accezione negativa che lo aveva caratterizzato.
E proprio allo scopo di sottolineare il valore conoscitivo di un certo tipo di azioni che si sviluppano nella situazione analitica, allontanandone però al contempo la connotazione negativa quasi sempre connessa al termine di acting out, è stato introdotto il concetto di enactment (Barale 1996, pp. 438-442, Filippini e Ponsi 1993, Ponsi e Filippini 1995).
Il comportamento a cui ci si riferisce con il termine di ‘enactment ‘, ci dicono le nostre autrici, è quello reciprocamente indotto: è ciò che il paziente ‘fa’ all’analista, ciò che gli ‘fa sentire prima ancora di ‘fargli capire; è la reazione dell’analista stesso, ciò che quest’ultimo prova in risposta. In quegli anni alcuni autori cominciavano a sostenere (come ad esempio, il già citato Renik, ma anche McLaughlin 1991 e Jacobs 1991) che il processo analitico consistesse essenzialmente di un continuo fluire di enactments e della loro esplicitazione ed elaborazione. Una posizione piuttosto estrema su questo punto la esprimeva Roughton (1994, p. 273). “Credo che il rimanere bloccati in un enactment cronico, in cui si intersecano la patologia del paziente e le limitazioni dell’analista, e poi elaborare quest’impasse possa costituire il lavoro terapeutico più utile che si possa fare”.
Certamente, sostengono le nostre autrici, la problematica della partecipazione dell’analista al processo analitico, benché evidentemente ineliminabile, lascia sullo sfondo, mai del tutto soddisfatti, alcuni interrogativi: come conciliare l’inevitabile coinvolgimento nell’interazione con i precetti dell’astinenza e della neutralità che stanno alla base del metodo analitico? Dove finisce la spontaneità dell’analista e dove comincia l’agire di controtransfert? Nella prospettiva delineata nel loro lavoro questi interrogativi non scompaiono, ma, in accordo con quanto scriveva Stefania Manfredi nel suo lavoro del 78, si tratta di ricercarne la radice “…… tra le pieghe del linguaggio e del paralinguaggio interpretativo, dove si può facilmente annidare il nostro agire interpretativo forse ineliminabile, ma certo sempre utilmente riconoscibile”. Prosegue Manfredi citata da Sandra e Maria: “Bisognerebbe cominciare a studiare lo sviluppo del linguaggio interpretativo degli psicoanalisti non soltanto sulla base di ipotesi di verifica interdisciplinare (vedi linguistica, teoria della comunicazione, semiologia, strutturalismo ecc…) ma dall’interno del lavoro clinico di ciascuno di noi, rifacendo la storia linguistica e paralinguistica personale alla ricerca del punto nel quale le nostre parole-interpretazioni diventano un agire” (1994, p. 44).
Se è vero infatti, dicono Filippini e Ponsi, che la gamma dei comportamenti nel setting analitico viene rigorosamente contenuta proprio per poter accedere alle aree mentali più profonde, c’è tuttavia un tipo di comportamento che resta invece pienamente libero di dispiegarsi in tutte le sue forme: il comportamento verbale. Di esso non solo la comunicazione analitica non può fare a meno, ma anzi una buona parte delle inferenze sul funzionamento inconscio si basa proprio sull’elaborazione di questa componente della comunicazione.
Poiché le regole del setting impongono una drastica limitazione del repertorio comportamentale corporeo (mimica facciale, gestualità, posture, ecc.) gran parte di ciò che trova normalmente espressione nel comportamento viene rappresentato nell’unica modalità appropriata alla situazione: attraverso la strutturazione del discorso, la tonalità della voce, la scelta delle parole, lo stile narrativo, le pause, le interruzioni, ecc. — insomma attraverso tutto quell’insieme di segni e segnali che indicano all’interlocutore le valenze interattive del discorso. Va sottolineato, proseguono le autrici, che la vasta gamma dei segni para-linguistici espressi attraverso il canale vocale non contribuisce solo a definire il senso delle parole pronunciate, ma è di particolare importanza per la comunicazione delle emozioni.
Ma questa componente della comunicazione analitica, pur importantissima nella realtà clinica, è difficilmente trasmissibile, sia a voce che per iscritto, ad un terzo interlocutore estraneo alla situazione, cosicché finisce con il venire trascurata nelle comunicazioni scientifiche. I resoconti clinici, infatti, si limitano per lo più a riferire che cosa il paziente, o l’analista, ha detto, piuttosto che come lo ha detto: la forma del discorso, lo stile narrativo, il tono di voce, le pause, le attenuazioni, o i rinforzi su certi punti, ecc. — la ‘mimica verbale, come la definisce Liberman (1971, p. 489) — tutto ciò resta per lo più affidato all’immaginazione di chi legge, o ascolta.
Come osserva Tuckett (1983, p. 411) “…si potrebbe venire a sapere di più della relazione fra noi e i nostri pazienti, e in particolare sul tipo di ripetizione e di messa in atto transferale (…), attraverso un esame più sistematico di ciò che pensiamo di tutto lo spettro dei segni e segnali che vengono usati nell’interazione psicoanalitica”: per far ciò ci sarebbe “bisogno di sviluppare modi più formali di descrivere tutti i segni comunicativi nelle sedute analitiche e così esaminare come ha avuto luogo ciò che è avvenuto” (1983 p. 412). La conseguenza di ciò però sembrerebbe che un resoconto clinico veramente fedele — anche se probabilmente quasi illeggibile — dovrebbe contenere, oltre alla trascrizione testuale dell’enunciato nella forma tipografica convenzionale, anche la trascrizione linguistica (e cioè la reale pronuncia delle parole e delle frasi) e la registrazione degli elementi paraverbali (e cioè le variazioni di intensità, ampiezza, ritmo, intonazione, ecc.) (Liberman 1971, p. 508-513).
Se la componente comportamentale, interattiva, del discorso è così concepita, viene di conseguenza a cadere la consueta concezione dicotomica sulla coppia ‘verbale/’non verbale, in cui il ‘verbale si articola nella struttura linguistica, mentre al ‘non-verbale viene assegnata una funzione di sfondo con il compito di dare espressione ai livelli corporei, primitivi e pre-verbali del sé. In tale concezione ad una comunicazione verbale, matura, ed ‘alta’ viene contrapposta una comunicazione non-verbale, primitiva, infantile, e ‘bassa’.
In realtà, ci dicono Filippini e Ponsi, il modo ‘verbale di mettersi in relazione e il modo ‘comportamentale di rivelarsi sono inestricabilmente articolati l’uno con l’altro: la dimensione comportamentale, interattiva e pragmatica è inerente a qualsiasi discorso.
La proposta centrale di quella loro prima riflessione, dipanatasi poi nei successivi lavori, si potrebbe allora così riassumere: considerare l’interazione analitica come un flusso di continuo, reciproco influenzamento fra paziente e analista che è veicolato dall’uso delle parole e dai modi in cui viene organizzato il discorso. Nella prospettiva offerta dalla Teoria degli atti linguistici, cornice entro la quale si dipana il ragionamento di Sandra Filippini e di Maria Ponsi, il linguaggio non si limita a rappresentare eventi o esperienze, ma è anche un’attività capace di coinvolgere e influenzare. Non a caso l’unità di base della descrizione linguistico-pragmatica è l’atto linguistico, secondo cui parlare non è solo dire, ma anche fare.
Credo che lo sviluppo della sensibilità analitica comporti fondamentalmente un potenziamento della capacità dell’analista di sentire in modo viscerale i momenti vivi di una seduta; di percepire come una parola o una frase siano state usate in modo stimolante e inaspettato, come “riaccese” (Bialik, 1931). Non c’è niente di più tipicamente umano del bisogno di conversare, di parlare con qualcuno. Qualunque convers-azione, e quella analitica non fa eccezione, è un atto che riflette lo sforzo incessante dell’uomo di liberare se stesso e la sua natura umana trasformando l’esperienza grezza in parole e gesti allo scopo di comunicare con sé e con gli altri. E per esprimere a parole un’esperienza di vitalità, le parole stesse devono essere vitali.
Parole in azione per me vuol dire proprio questo: parole vive, parole in grado di esprimere un pensiero vivo, un pensiero cioè capace di mantenere la sua vitalità anche quando il pensatore non possa condividere più con noi la realtà dell’esistenza.