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Lussana P. (2003). Il delirio di gelosia in shakespeare: quale sequenza di teorie psicoanalitiche traspare in otello e racconto d’inverno

Testo della relazione di P. Lussana al Centro Psicoanalitico di Firenze (12 Giugno 2003) che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autore

Quando lessi in uno dei suoi libri che Bion vedeva Shakespeare come il più grande uomo che fosse mai vissuto, rimasi molto colpito e anche un pò incredulo. Eppure, se guardiamo anche soltanto all’esplorazione della distruttività umana – uno degli aspetti de L’invenzione dell’uomo, come sottotitola Harold Bloom il suo libro su Shakespeare – a partire dal delirio di gelosia e suoi effetti che Shakespeare compie dal 1604 in Otello al 1610 nel Racconto d’inverno, la psicoanalisi tre secoli dopo a compiere un percorso analogo ci ha messo quarant’anni e quasi tre generazioni. Muovendo dal Freud degli Anni Venti di gelosia, paranoia e omosessualità, e di impasto e disimpasto delle pulsioni di vita e di morte, quest’ultima confermata da M. Klein, che a sua volta procede a angoscia, colpa e riparazione verso identificazione proiettiva, cui Bion aggiunge il lato realistico, e verso invidia e gratitudine alla fine degli Anni Cinquanta. L’invenzione e rappresentazione dell’evoluzione del quadro clinico combinatorio Iago-Otello e poi di quello così estremo e bifasico di Leonte e suoi famigliari sembra seguire precise regole, disporsi secondo itinerari riconoscibili, e ben visibili sequenze. Il proposito delle osservazioni e considerazioni che seguono è di verificare fino a che punto lo svolgimento delle due storie shakespeariane e delle loro configurazioni sia contenuto e chiarito dalle sopraddette teorie psicoanalitiche, così concatenate l’una all’altra. Last but not least, la distruttività che il delirio di gelosia comporta è catastrofica e fatale per Otello, mentre quella di Leonte, autogenerata e subito esplosiva, guarisce e permette nuovi sviluppi. Siamo nel territorio dell’ultimo libro di Ferro Fattori di malattia, fattori di guarigione e del nostro Congresso di Trieste “Fattori terapeutici in psicoanalisi”. Cercheremo di capire i fattori di guarigione secondo l’invenzione dell’uomò di Shakespeare. Guarisce davvero Leonte?

La storia di Otello è abbastanza nota, ma certi particolari e gli antecedenti vanno conosciuti, anche per valutare con quale assetto il Moro offre così scarsa resistenza alle diaboliche, progressive insinuazioni di Iago. Non è tanto il grado di gelosia di Otello che ci prende – anche se nel suo articolo (1922) Freud cita due versi dell’Otello parlando della gelosia del secondo livello – quanto che è un altro uomo il più diretto fattore di malattia. Dei tre gradi di gelosia di cui tratta Freud, normale e competitiva, proiettata, delirante, nessuno è escluso dagli sviluppi dell’identificazione proiettiva realistica tra Iago e Otello. Già nel primo grado “in certe persone l’esperienza della gelosia è bisessuale; nel caso dell’uomo ciè significa che, a rafforzare la sua gelosia, oltre al dolore per la donna amata e all’odio per il maschio rivale, concorre anche l’afflizione per l’uomo inconsciamente amato e l’odio per la donna sentita come rivale.” Cassio, subdolamente presentato da Iago come amante di Desdemona, è molto caro al cuore di Otello, generale che lo ha appena promosso a più alta carica, preferendolo all’alfiere Iago. In opposizione al padre Desdemona sposa Otello, incantata dal racconto delle sue avventure guerresche meravigliose, ma alla sua partenza per Cipro Otello è ammonito dal suocero “Tieni gli occhi ben aperti: come ha ingannato suo padre, ella potrebbe ingannarti”. L’odio per la donna, su base narcisistica con gradazioni diverse, accomuna il padre di Desdemona, a Iago e, con impennate di amore, al Moro. “La gelosia delirante – scrive Freud – corrisponde a un’omosessualità che ha seguito il suo corso e prende giustamente posto tra le forme classiche di paranoia. Come tentativo di difesa contro un impulso omosessuale troppo forte, essa potrebbe essere, nel caso dell’uomo, così descritta: Non sono io che lo amo, è lei che lo amà.” Se i legami affettivi del Moro a Cassio, e meno direttamente, a Iago sono molto forti, mentre un’inclinazione omosessuale rimane invisibile, si puè dire che riguardo a Desdemona è più innamorato della ammirazione e dell’amore che lei gli tributa, e che l’amore per il potere e l’avventura della guerra lo attraggono ai suoi ufficiali, più di quanto l’amore sessuale lo attragga al letto coniugale.

Siamo debitori a Giovanna Goretti (1998) di una molto fine ed esatta descrizione ed elaborazione della interazione Iago-Otello in termini di identificazione proiettiva realistica. “Vessato dall’odio per Otello, dall’invidia per il suo buon rapporto con Desdemona, dall’umiliazione per il torto subito e dal desiderio di vendetta, aspira a liberarsi di tutti questi sentimenti torturanti riversandoli in Otello Per fare l’identificazione proiettiva di un pensiero sospettoso è necessaria non solo la disponibilità dell’oggetto ad accogliere l’evento comunicativo, ma anche la sua capacità di elaborare i diversi livelli dell’informazione”. Tra i sentimenti torturanti e distruttivi che Iago riversa in Otello compare l’invidia, ma non la gelosia. In Invidia e gratitudine M.Klein scrive che la gelosia è basata sull’invidia, ma comporta una relazione ad almeno due persone. E’ l’invidia a produrre l’esito distruttivo dell’identificazione proiettiva. Shakespeare in Otello non sembra differenziare sempre invidia da gelosia (“gelosia, mostro d’occhi verdi, che odia il cibo di cui si pasce”), osserva la Klein. Forse possiamo dire che la forte connotazione proiettivo-distruttiva rende la gelosia molto tributaria della sottostante invidia. “L’azione dell’identificazione proiettiva è tanto più estesa e pervasiva – scrive ancora la Goretti – quanto più debole è l’organizzazione mentale di chi la subisce Nature meno labili e precipitose, più capaci di pensiero e funzione critica, meno suggestionabili, con più solida autostima, con una più profonda fiducia nella bontà dei propri oggetti avrebbero probabilmente potuto contenere e neutralizzare la pressione omicida di Iago”.

Se è fondato il collegamento che Freud propone tra gelosia delirante, omosessualità e paranoia, dobbiamo prendere più sul serio l’omosessualità di Otello, sia pure latente. Non è in favore di questa omosessualità (e del disprezzo per le donne) che lui creda di più alla onestà di Iago, fedele alfiere, che a quella di Desdemona, amata moglie; anzi totalmente e ciecamente alla onestà di Iago e sempre meno fino a nulla a quella della onorata moglie? Si dirà che il torto fatto a Iago sulla promozione lo costringe a dargli credito sulle su insinuazioni, anche se dovrebbe metterlo in guardia rispetto a un possibile bisogno di vendetta. Ma il narcisismo di Otello non gli consente nè un amore più solido per la moglie, nè un dubbio per le devozione e credibilità di Iago. Non si puè non pensare alla suggestionabilità del Moro – come anche indica la Goretti – che io proporrei in questi termini: come Desdemona è conquistata dai racconti delle mirabolanti avventure del coraggioso generale, così Otello cede al, sia pure sinistro, fascino della incredibile avventura erotica di Desdemona. Siamo nel territorio della paranoia, anzi de L’architettura della paranoià, come Meltzer intitolè un suo intervento (2000) sull’uso sempre più spinto di confabulazione, che fa assumere un atteggiamento delinquenziale, in cui il paranoico è quasi come se ti dicesse: “Io sono convinto di dire la verità, provami se non ho ragione.”

Sempre seguendo le indicazioni di Iago, così ben fondate, se non ragionevoli, Otello arriva a strangolare Desdemona e a veder uccidere da Iago la moglie, colpevole di aver detto la verità su Desdemona e Cassio. A questo punto sembra ravvedersi e rinsavire – la verità e realtà della morte? – “Così fredda, fredda, mia bambina! Fredda come la tua castità! Oh, negro maledetto! Frustatemi, demoni! Scacciatemi dall’incanto di questa vista celeste” Solo dopo averla freddata, resa così fredda, riconosce la sostanziale castità della moglie incantevole che andava protetta: ma allora era proprio l’invidia che gli impediva di riconoscere le qualità della moglie viva e desiderabile e la copriva di accuse e attacchi fino alla morte.

Sulla nota del freddo della morte di Desdemona e della sua castità termina Otello ed è nel Racconto d’inverno, sei anni dopo, che viene ripreso il tema del delirio di gelosia, del buio e freddo che comporta, di quali nuovi e ulteriori percorsi sia possibile render conto. Leonte, re di Sicilia, ha in visita da molti mesi Polissene, re di Boemia e suo fraterno amico dall’infanzia. Quando questi decide di ripartire, Leonte cerca di persuaderlo a restare e, non riuscendovi, chiede alla moglie Ermione di provarci. Lei ci riesce, ma Leonte subito pensa: “Si riscalda troppo! Mescolar troppo l’amicizia è come mescolare il sangue.” La buona disposizione e la capacità di buoni rapporti della moglie è subito sentita come un affronto, un eccessivo rimescolamento, una personale sconfitta. La paranoia, il delirio di gelosia esplode di colpo sulla percezione di un duplice tradimento, della moglie che, per riaccogliere Polissene, non puè non allontanarsi da lui, e dell’amico fraterno, che, avendo accettato il rinnovato invito di Ermione, ma non il suo, mostra così di amare lei più di lui. Tradito dunque da entrambi, ma propenso a invidiare le capacità materne di attrazione e ospitalità di Ermione. Viene in mente il primario narcisismo infantile di cui parla Freud nella sua Introduzione (1914), la beatitudine e la sopravvalutazione di His Majesty the baby’ nelle quali il re di Sicilia sembra in parte ancora immerso, che rendono le frustrazioni mal tollerabili e le trasformano in tradimenti. Il forte legame, forse identificazione, di Leonte con Polissene, allevato insieme a lui nell’infanzia, rende il momento della separazione lesivo del senso di identità, così legato alla esperienza infantile. Ma ora talmente odia il fraterno amico per quello che sente suo tradimento, che cerca di convincere il fido consigliere Camillo ad avvelenarlo. Avvertito dall’onesto Camillo, Polissene fugge con lui; mentre Leonte fa imprigionare Ermione, che in carcere dà alla luce una bambina. Paolina, moglie del nobile Antigono, tenta di commuovere il re presentandogli la neonata, ma invano.

Il furibondo Leonte ordina ad Antigono di abbandonare la bimba su una spiaggia deserta, convinto che sia frutto dell’adulterio. Manda messi a Delfo per sapere dall’oracolo se Ermione sia veramente colpevole e intanto la fa processare per alto tradimento. Durante il processo giunge il responso dell’oracolo: Ermione e Polissene innocenti, la bimba è legittima e il re rimarrà senza erede finchè non sarà ritrovato ciè che è perduto. Leonte ha appena finito di screditare l’oracolo, che un servo annunzia la morte del figlio del re, Mamillio disperato per i maltrattamenti inflitti alla madre. Al che Ermione cade in deliquio e poco dopo muore.
La neonata, “sgorbio da dare al fuoco” insieme con la madre adulterina, è così respinta dal feroce narcisismo infantile di Leonte e dal principio di piacere cui è abbarbicato: la sente, anzi la dis-sente, molto più che come piccola rivale, come avversaria da allontanare il più possibile, da disperdere. Il consulto con l’oracolo di Delfo puè meravigliare, se non lo si vede come l’unica via che Leonte si è lasciata aperta di contatto con la realtà, di sia pure combattuta e sofferta dipendenza dal principio di realtà. Diciamo che a questo punto il responso dell’oracolo consiste nel recupero, doloroso e incompleto, della parte sana di Leonte, scissa e proiettata nell’oracolo, per metterla al sicuro lì in alto, per misura protettiva. La percezione delirante intorno a Ermione e Polissene va smontata, ma rimane il mistero della mancanza di erede e di ritrovamento. Ritrovare ciè che è perduto, l’esperienza della perdita è parte del principio di realtà e del suo ambito. L’irrompere della notizia della morte di Mamillio non lascia dubbi sul rimanere senza erede, ma il ritrovamento di ciò che è perduto? Pesantemente gravato dalla perdita, anzi da un cumulo di perdite, è ora il re, anche se un ritrovamento non è escluso, è forse possibile. Si saprà poi che il recupero della perdita riguarda la figlioletta dispersa, chiamata significativamente Perdita.

La morte dell’amato figlio sulla dissacrante distruzione della madre da parte del padre, subito apre gli occhi al re: “Ho troppo creduto nel mio sospetto. Vi scongiuro, datele amorevolmente qualche ristoro che la riporti in vita. [Escono di fianco Paolina e le dame con Ermione] Apollo, perdona la mia grande empietà contro il tuo oracolo. Mi riconcilierè con Polissene, riguadagnerè il cuore della mia Regina, richiamerè il buon Camillo ” Ma quando poco più tardi anche Ermione, la Regina, muore, l’affezionata Paolina così esplode contro il geloso tiranno: ” Mille ginocchi piegati per diecimila anni, nudi, nel digiuno, su una montagna desolata, in un continuo inverno perpetuamente in tempesta, non arriverebbero a far che gli dei guardassero dalla tua parte.” L’enormità della colpa, e quindi l’ampiezza e la profondità della penitenza da scontare, sembrano riconosciuti da Leonte, che replica: “Continua pure, non dirai mai troppo. Ho meritato che tutte le lingue mi dicano quel che esse sanno di più amaro.” Siamo interessati a capire i motivi, la psicogenesi dell’improvviso ravvedimento di Leonte, di quella che possiamo anche chiamare guarigione dal delirio di gelosia. Il responso dell’oracolo, d’impulso tacciato d’impostura, viene poi riconosciuto affidabile ed equilibrato, pertanto corrispondente alla parte sana del re in contatto con il mondo reale, che si distanzia dal delirio. Ma è la morte dell’amato figlio sulla sorte disperata della madre, cui Leonte non puè non dare pieno credito, sentendo il figlio come estensione, continuazione di se stesso, un se stesso giovane, sincero e appassionato: se Mamillio ne è morto di crepacuore, la taccia, anzi l’accusa, di sgualdrina non puè che essere assolutamente infondata. Parte essenziale del lutto – afferma il Freud di “Lutto e melanconia” – è l’esame di realtà, che impone una lenta progressiva separazione dal defunto e dai momenti della sua vita. Ma qui, accanto al lavoro del lutto per la morte del figlio, l’esame di realtà è rivolto alla separazione dalla costruzione delirante

Ne La psicoanalisi come letteratura e terapia (1999) Nino Ferro tratta del delirio di un suo paziente in analisi come bollà protettiva rispetto a emozioni traboccanti proiettate all’esterno, e di come la sia pur graduale uscita dalla bolla delirantè faccia sentire terribilmente vedovo. L’emozione traboccante di sentirsi doppiamente tradito e svuotato richiede a Leonte la costruzione delirante, la bolla protettiva della sua regale integrità. Ne fuoriesce perchè la bolla protettiva si rompe alla esplosiva notizia della morte di Mamillio. Il re non può sentirsi vedovo e privato del suo delirio, così in contatto com’è con la realtà del lutto per la perdita dell’amatissimo figlio. L’irrompere del dolore e del lutto (e potremmo anche dire della realtà dell’amore) ha la meglio sul delirio, se non travisiamo Shakespeare. Mentre alla base del delirio vediamo il narcisismo delle parti infantili, alla base della guarigione stanno le parti più adulte e genitoriali con il loro senso di realtà, di protezione e compassione.

Vari critici, tra i quali il nostro Gabriele Baldini, hanno parlato per Il Racconto d’inverno di due drammi in uno, di tragedia seguita da commedia pastorale, che inizierebbe peraltro alla scena III dell’atto III, giusto a metà dei cinque atti del dramma. In “Morte e rinascita in una mitica Sicilia” Northrop Frye scrive che “Le due metà del testo sembrano rappresentare non soltanto un inverno in Sicilia e una primavera in Boemia, ma un mondo di morte e un mondo di vita”. Antigono ha abbandonato la bimba su una spiaggia di Boemia, e subito dopo è divorato da un orso. La bimba, con contrassegni e gioielli, viene trovata da un pastore, che la alleva come fosse sua figlia, e la chiama Perdìta. Sedici anni dopo Florizel, figlio di Polissene, la incontra e se ne innamora, riamato. L’idillio è osteggiato dal re di Boemia, che ritiene la giovine una povera contadina, che puè solo spiccare nel mondo pastorale, e un pò furfantesco, che viene rappresentato. Per sfuggire alla sua ira, Florizel e Perdìta, consigliati da Camillo, fuggono in Sicilia e si presentano a re Leonte, come se inviati in missione da Polissene. Quest’ultimo li ha seguiti, e insieme a lui giunge in Sicilia il vecchio pastore che ha allevato Perdìta. Ma la gioia di Leonte per il ritrovamento della figlia è offuscata dal rimpianto per Ermione. Paolina allora gli mostra una statua che le rassomiglia pienamente e che, mentre il re così soffre a quella vista, via via prende e riprende vita, accompagnata da una musica, fino ad una Ermione in carne ed ossa (che non era mai veramente morta). Polissene acconsente alle nozze del figlio con Perdìta, figlia dell’amico con il quale s’è riconciliato.

Dopo la tragedia di Iago e Otello su Desdemona, quella di Leonte ed Ermione sui figli non poteva finire sull’inesorabilità del disastro, ma doveva trovare un sèguito al racconto del buio e freddo delirio di gelosia. “Questa notte si fa la mia fortuna o la mia rovina completa” dice Iago nella penultima scena dell’Otello, presentandosi come giocatore d’azzardo all’estremo. E’ lui il vero invidioso-geloso, che uccide la moglie perchè dice la verità e riesce a fare uccidere a Otello la moglie e se stesso. Uccide, come a un gioco d’azzardo, persone e verità, specie quest’ultima, a freddo. Mentre Otello lo fa a caldo, suscitando pietà, commozione; a Iago tocca forse solo raccapriccio. Il buio e il freddo, l’inverno del delirio di gelosia di Leonte non giunge a uccidere, ma riesce a far morire di crepacuore l’affezionato figlio, che non sopporta l’uccisione della verità sulla madre. I legami famigliari, inesistenti per Iago e poco visibili per Otello, sono invece presenti e forti in Leonte, così affezionato al figlio, al quale appare molto identificato al momento della perdita, che così inizia un genuino ravvedimento.

“Non è una questione di antitesi tra una concezione ottimistica e una pessimistica della vita. – scrive Freud alla fine della sua opera (1937) – Soltanto attraverso l’azione concorde o mutualmente discorde delle due pulsioni primarie, Eros e pulsione di morte, mai attraverso l’una o l’altra da sola, siamo in grado di spiegare la ricca molteplicità dei fenomeni della vita”. Tornando dopo Otello a riflettere sul delirio di gelosia e la distruttività che ne consegue, il grande poeta si trova a concepire un mondo alternativo e diverso, un mondo di vita – come nota Frye – pur con qualcosa di simile al precedente. Con Autolico, il vagabondo che imbroglia i passanti, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, il falso del delirio di gelosia si ripresenta, anche se in termini leggeri, molto più leggeri, fino a comico-divertenti. Anche in questa dicotomia della falsità trovano espressione le due pulsioni primarie, pulsione di morte e Eros, in azione successiva e discorde: con grande infelicità l’una, con provvisoria felicità l’altra. Così al re che manda la figlioletta allo sbaraglio, se non a morte, si contrappone il pastore che l’alleva e la ama come se fosse sua figlia. Ed è qui possibile vedere in contrapposizione l’invidia del re per la generosità della regina e la fertilità della coppia (di cui sospetta di non far parte) e la gratitudine del pastore per la nuova vita che gli è dato in sorte di curare. Antigono è divorato da un feroce orso, perchè ha ceduto all’ingiunzione della divorante gelosia del re, lui Anti-gono (contro la generazione?).

Tra la prima e la seconda parte del dramma, tra un mondo di morte e un mondo di vita vi è un intervallo di sedici anni, un numero preciso, non semplicemente molti anni. Direi che sedici anni è l’età dell’adolescenza e della sua crescenza. La crescenza che riprende dopo il trionfo distruttivo e degradante di gelosia invidia e vendetta. Al centro di questa crescenza, che possiamo anche chiamare rinascenza, si trova la sedicenne Perdìta, “della più rara bellezza”, cresciuta tra i pastori, che la vogliono padrona della festa della tosatura, per la prosperità delle greggi e il trionfo dei fiori. La bellezza di Perdìta ricorda quella della madre, così come all’amore caduto e avvelenato, ma in via di ravvedimento, di Leonte per Ermione, fa da controcanto quello senza riserve, grato e combattuto di Florizel per Perdìta. Combattuto dal padre di Florizel, re di Boemia, “Tu, l’erede di uno scettro, aspiri dunque a un vincastro di pecoraio!” Il fido Camillo, che già aveva salvato Polissene dalla criminale gelosia di Leonte, ora salva il figlio Florizel dall’ira del padre ed escogita un piano di ri-unione e riconciliazione. Dice: ” mi par di vedere Leonte aprir le sue braccia benevolmente e piangere dandovi il suo benvenuto, e chiedere a te, il figlio, perdono come se si trovasse innanzi al padre, e baciar le mani della vostra giovane Principessa ”

In questa lunga scena IV, atto IV, pastorale, floreale, di canzoni, nastri, merci e danze, verso la fine rientra il lestofante Autolico, cui tutti s’affollano per essere i primi a comperare le sue cianfrusaglie, e subito esclama: “Ah, ah! Che sciocca è l’Onestà! E la Fiducia, sua sorella giurata, un’autentica sempliciona!” Mi sono chiesto perchè Autolico con le sue battute e il suo cinismo leggero, subito dopo il programma di bontà e riconciliazione di Camillo. Mi sono dato questa spiegazione nei termini psicoanalitici, che mi competono. Dopo il prevalere di oggetti cattivi, tornano, e ben vengano, gli oggetti buoni, ma che siano, per così dire, solo buoni, non perfetti e ideali. Non esageriamo con l’onestà e la fiducia: niente eccessi!

Leonte rivolto a Florizel e Perdìta: “E fu così ch’io perdetti, per sola mia follia, la compagnia e l’amicizia del vostro valente genitore, per rivedere il quale io, benchè viva nell’angoscia, desidero di vivere.” Ed è poi un Terzo Signore più distaccato a raccontare: “Il nostro re, che pareva dovesse saltar fuori di sè dalla gioia della figlia ritrovata, come se questa gioia fosse diventata una perdita, ora piange e grida Oh, tua madre, tua madre!’ e chiede perdono al re di Boemia.” Troviamo che Leonte ammette la natura e l’entità della sua colpa e la sua responsabilità, nonchè dichiara la sua disponibilità a vivere nell’angoscia, se questo è il prezzo da pagare per vivere: sembra decisamente avviato a passare dalla iniziale colpa persecutoria a un senso di colpa più depressivo aperto alla speranza e al rimpianto. E’ anche capace di intensità di sentimenti, di differenziazione e flessibilità rispetto ad essi, in contrasto con la sua postura iniziale fredda e spietata. Accanto alla straripante gioia per la figlia ritrovata, irrompe non attenuato il dolore per la moglie maltrattata e perduta. Quando poi si trova davanti alla statua di Ermione: “E n’ho vergogna: forse che la pietra non mi rimprovera di essere più pietra di lei? Oh, sovrana opera!” Anche Perdìta, Polissene, Camillo e Paolina stanno intorno alla statua, che sembra respirare, avere lo sguardo meno fisso. Paolina dice che farà discendere la statua, come se disponesse di poteri magici, e prendere la mano a Leonte, che dovrebbe destare in sè la fede. “Venite avanti – le dice – lasciate alla morte quella vostra rigidità, poichè da lei la dolce vita vi riscatta”: e al suon di musica Ermione scende dal piedistallo. Poco dopo, rivolta alla figlia: “Poichè tu udrai che io, sapendo da Paolina che l’oracolo dava speranza che tu fossi in vita, mi son conservata per assistere a questa fine”. E su questo passaggio dalla morte alla vita di Ermione (e la sua ibernata-impietrita conservazione) e il bisogno di Leonte di pace, perdono e conversanti coniugazioni, il dramma finisce, tutto diverso, dobbiamo dire, dalla fine di Otello. Mentre Otello uccide e si uccide, Leonte, sì, sembra proprio che guarisce. Molto aiutato da Camillo e specialmente da Paolina fin dalla loro quasi ribelle resistenza alle sue distruttive bordate di gelosia, fermi come l’oracolo, più dell’oracolo – specialmente lei – nello stare dalla parte della realtà, della verità. Frye vede Paolina in parte attrice-impresario, in parte sacerdotessa: penso abbia in mente lo psicodramma della statua, la scenografica organizzazione dello spettacolo, il riferimento ai poteri magici, la musica. Paolina, che più aveva resistito alla distruttiva gelosia di Leonte e al disfacimento di Ermione per la sparizione dei figli, è anche quella che la custodisce e gestisce impietrita dal dolore, in uno stato di rigidità, verrebbe da dire, catatonica. Sembra che sia Paolina che per magia e per musica ridà vita a Ermione, ma l’impietrimento, lo stato catatonico conservativo non ha più ragione di essere, si scioglie davanti al pentimento e alla vergogna del marito, alla bellezza, dolcezza dell’amore della figlia, all’affetto degli amici: tutto questo è per lei suprema musica che riporta in vita.

Autolico aveva preso in giro la fiducia, insieme all’onestà, ma Leonte è esortato da Paolina a destare in sè la fede, mentre Ermione sta tornando in vita. Fede nella verità dell’esperienza emozionale – raccomanda Bion – e dar credito, recettività proprie dell’atto di fede (Bion, 1970). Tutto questo è l’esatto opposto del sospetto, della tirannia gelosa, del delirio di gelosia. Paolina si preoccupa che Leonte sia veramente guarito, e sembra consigliarli la fede come antidoto.
Se Otello è tragedia di un uomo, anzi di uno straordinario, così reattivo, carattere, Racconto d’inverno è tragedia di una stagione, una stagione di fredda, mortifera follia, alla quale poi succede, abbastanza naturalmente, una stagione di ripresa, quasi di rinascita, certamente di remissione. Dopo la follia dei padri, la ripresa o remissione nei figli, la remissione dei padri, anche attraverso i figli. In Otello non ci sono nè famiglia, nè figli e lo spazio per una generazionale remissione manca. Non saprei dire quanto si possa qui invocare il transgenerazionale, se anche questa teoria psicoanalitica traspaia nel Racconto.

Quando scrisse il Racconto Shakespeare aveva 46-47 anni: non sapeva che di lì a 5-6 anni sarebbe morto, ma sapeva di essere verso la fine della sua stagione letteraria (anche per questo, forse, Racconto d’inverno) e cresceva forse in lui un’istanza di remissione.
Per Leonte dunque più che di guarigione è appropriato parlare di remissione, che vuole anche dire perdono, perdono dei peccati.
“Se volete sapere come sono fatte le persone e come agiscono – scrive Bion nel suo ultimo articolo – scegliete un dramma di Shakespeare o venite a sentire un mio lavoro scientifico?”

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