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Marzi A. (2018) Il pensiero di Giovanni Hautmann. Alcune linee guida introduttive

Testo della relazione di Andrea Marzi presentata al convegno “Il pensiero di Giovanni Hautmann”.

Firenze, sabato 19 maggio 2018

Questo intervento prende spunto da un lavoro, molto più esteso, che è stato presentato in pubblico e poi pubblicato su “Contrappunto” qualche tempo fa a firma del sottoscritto e di Gregorio Hautmann. Ad esso si rimanda per ulteriori approfondimenti.

Nel panorama della psicoanalisi italiana, sul piano storico-dinamico, Giovanni Hautmann appare inserirsi nel filone che, partendo dai primi pionieri della disciplina in Italia, Musatti in testa, vira nel filone kleiniano (con Fornari, per es.), percorrendolo intensamente per poi corroborarlo e rinnovarlo con le acquisizioni Bioniane, che Hautmann, insieme con pochi altri (Corrao, per es.) ha con decisione contribuito a diffondere e ad ampliare con originalità.
E’ lui stesso (Hautmann, 2002) che sottolinea come la sua formazione sia stata caratterizzata sia dallo studio e rivisitazione di Freud sia dal rapporto con autori che hanno formulato nuovi modelli descrittivi della mente, con nuove modalità teorico-cliniche e nella pratica analitica. Tra queste idee guida ce ne sono alcune fondamentali. Una di esse è per esempio l’attenzione costante ad indagare in merito alla qualità psicoanalitica dell’esperienza.
Quali sono le condizioni specifiche per le quali l’esperienza psicoanalitica possa definirsi tale, e come tale costituirsi?
E, dunque, in che consiste, in fondo, un’esperienza psicoanalitica ?
Ed ancora, in che modo di una simile esperienza può darsi comunicazione al di fuori di essa stessa?
Al centro della teorizzazione dell’Autore, fin dalla metà degli anni ’70 è quindi il concetto di situazione analitica.

E’ la situazione analitica, per Giovanni Hautmann , l’unità elementare della psicoanalisi. Essa è da intendersi come un’unità vivente, analoga per la psicoanalisi a quello che la cellula per la biologia. E’ essa che conferisce significatività ai tre parametri che con la loro interrelazione integrante la costituiscono.
In altre parole ciascuno di essi, la fantasia – che è l’oggetto del lavoro analitico – l’interpretazione – che è lo strumento del lavoro analitico – il setting – che è la condizione entro cui si svolge il lavoro analitico – e la concettualizzazione a ciascuno di essi sottesa, possono essere assunti nel modo più comprensivo di tutto lo spessore che il pensiero psicoanalitico ha prodotto, produce e produrrà su ognuno di essi; ma nessuno dei tre in se stesso fonda la situazione analitica che è invece fondata soltanto dalla loro relazione integrativa, la quale trasformando ogni parametro in funzione della situazione globale, conferisce a quest’ultima il valore di unità strutturale elementare teorico – pratica della psicoanalisi.
Descrivendo in questo modo la situazione analitica , infatti, s’intende descrivere la psicoanalisi come METODO; essa trascende i singoli modelli, e le teorie che pur imprescindibilmente entrano nell’operare di ogni analista e costituisce la piattaforma che svela e realizza il fondamento comune della psicoanalisi, anche nella attuale condizione di pluralismo e di modelli e di teorie. E’, dunque, il metodo analitico così descritto ciò che è unitario nella psicoanalisi, racchiudendo in sé prassi e teoria, conoscenza e terapia.

Si intende per fantasia l’insieme relazionale del contenuto mentale oggetto di analisi, inteso in senso ampio, che comprenda cioè sia gli aspetti consci che quelli inconsci, sia il carattere reale del messaggio che quello immaginario, sia gli aspetti semantici che quelli sintattici del linguaggio comunicativo. Essa è in ultima istanza pensiero che può esprimersi a livello variabile di concretezza ed astrazione, corrispondente a gradi diversi di capacità di simbolizzazione.
L’interpretazione è ciò che riformula e traduce il linguaggio comunicante ed in nuove prospettive la comprensione della fantasia, registrando al contempo il tipo di contatto che il paziente sta vivendo, ed esprimendo nell’aspetto formale linguistico, cioè nel modo di organizzarsi come significante la risposta dell’analista, testimoniandone così la sua partecipazione ludica in una sorta di finzione ludica a sua volta possibile oggetto di nuova rielaborazione interpretativa.
Il rapporto tra fantasia ed interpretazione configura il processo analitico; esso riguarda l’evoluzione dell’organizzazione delle fantasie; pur fruendo del rapporto con la mente dell’analista, perviene principalmente all’evolversi dell’analizzando attraverso l’analisi, cioè alla sua riorganizzazione mentale.
Il setting infine, cornice della situazione analitica, è il supporto esterno per la realizzazione dell’assetto mentale di isolamento parziale che l’analista al lavoro deve realizzare. Isolamento in quanto necessario distacco dal mondo esterno all’analisi, attraverso la scoloritura e riduzione dei legami pulsionali e socio politici con esso, quindi con le fonti vitali della propria esistenza; onde si possa realizzare la condizione atta a quell’accecamento che permette l’abitudine all’oscurità in cui cogliere i precursori delle emozioni del paziente in modo da mostrargliele prima che diventino troppo dolorose per lui. Il rapporto tra setting e fantasmi è infatti la misura dell’instaurarsi del senso di realtà, lungo il percorso dell’analisi. Viceversa il rapporto tra setting ed interpretazione, per come quest’ultima entro il setting stesso scaturisce, configura la relazione analitica, che consiste in quella serie di fenomeni incentrati prevalentemente nella mente dell’analista, da cui viene improntata la relazione con l’analizzando, che vi corrisponde a sua volta.

LA FUNZIONE PSICOANALITICA DELLA MENTE
Soprattutto dai primi anni ’80, Giovanni Hautmann guarda all’essenza della psicoanalisi come all’operare di una funzione – pensiero che induce trasformazione e crescita, una funzione che tende a farsi cosciente continuamente di ciò e che organizza le condizioni necessarie e peculiari per potere autogenerarsi, e che si realizza nella sua maniera ottimale all’interno della situazione analitica intesa come metodo (Hautmann, 1981,1984).
Grazie alla condizione triangolare della situazione analitica, infatti, può fermentare il pensiero creativo atto a riorganizzare gli elementi della personalità totale dell’analizzando e ad attivare le più adeguate funzioni mentali dell’analista, necessarie a promuovere tale riorganizzazione.
Per Giovanni Hautmann tutto ciò può concettualizzarsi utilizzando il modello contenitore – contenuto, la dimensione continuo discreto e la categoria verità – falsità. E’ fondamentale tenere anche presente quest’ultima categoria, la quale ha a che fare col grado di possibilità che ha il pensiero (K) di percepire e rappresentare la realtà ultima (O).

E’ la capacità, sostenuta dall’analista, del continuo ritorno da O e da -K in K attraverso la trasformazione in pensiero linguaggio che garantisce quel gradiente di continuità tale da permettere la tolleranza di discontinuità. Nella continuità si forma un pensiero, una pellicola di pensiero, che integra i momenti discreti della evoluzione mentale; inoltre anche la bipolarità continuo discreto è indispensabile per promuovere la crescita.
Centrale è quindi il momento condiviso dell’interpretazione, quale espressione del riassorbire l’O in K.

Guardando al più particolare vertice della mente dell’analista, vertice privilegiato in questa teorizzazione, che affianca ed ingloba punti di vista più consueti quali quelli di relazione analitica e di campo, Giovanni Hautmann chiama funzione psicoanalitica della mente (1981), quella disposizione mentale dell’analista, che ha per fine la realizzazione del lavoro analitico nella sua specificità.

Giovanni Hautmann ritiene che tale funzione psicoanalitica della mente, operi, al suo più elementare livello, attraverso l’immaginazione iconica, l’immaginazione visiva: è sempre essa il primo livello di organizzazione simbolica che entra in opera nella mente dell’analista, l’anello necessario anche se certo non sufficiente per una attribuzione di senso.
Tale immaginazione visiva pertiene alla mente dell’analista al lavoro, ma assomma in sé anche una qualità relazionale derivante dall’apporto complementare e/o sintono da parte del paziente, che è fonte delle afferenze acustiche, motorie, affettive e visive.

Il modello della mente descritto da Hautmann nel corso degli anni si è andato arricchendo di successivi approfondimenti, ma un punto centrale è sicuramente il formarsi del Sé. Sulla scia della intensa attenzione agli stadi più precoci dello sviluppo psicologico, questo viene collocato nel periodo fetale, per poi proiettarsi verso il tempo perinatale e neonatale.
Il taglio psicogenetico, sempre presente nella teorizzazione dell’Autore, prosegue indubbiamente verso il periodo in cui l’individuazione si fa più definita e decisa, ma il rispetto della psicogenesi tradizionale psicoanalitica è l’aspetto di minoranza nell’elaborazione del pensiero di Hautmann; l’attenzione è soprattutto rivolta verso esplorazioni più primitive, verso il primo abbozzarsi del Sé. Da questa incursione in retrodatazione emerge un’elaborazione originale che, fin dalla metà degli anni ’70, trova uno dei punti cardine appunto nel concetto di “Pellicola di pensiero”.

PELLICOLA DI PENSIERO
La denominazione “pellicola di pensiero” (che sembra ricordare l’Io-pelle di Anzieu, ma lo precede di diversi anni-il libro dell’Autore francese è del 1985) nasce nella seconda metà degli anni ’70 con l’intento di cogliere, nella mente del feto e del neonato, una condizione in cui un’emozione speculare al sentirsi contenuto nel corpo e nella mente della madre sia raffigurabile con l’abbozzarsi di un contenitore che si richiami alla pelle.
Ma richiama anche la pellicola fotografica, se ne vediamo la facoltà trasformativa iconopoietica strettamente connessa col lavoro della funzione α sulle afferenze sensoriali e sui precursori delle il versante rappresentazionale della pellicola di pensiero abbia una radice protomentale sua propria che non condivide qualcosa con la sensazione, ma certo con l’emozione, prima che essa sia tale. L’emozione viene quindi posta come l’altra faccia della medaglia. C’è da distinguere perciò
il lavoro fatto sulla sensorialità da quello fatto su qualcosa denominabile come protoemozionale.
L’accostamento alla pellicola fotografica è tanto più calzante quanto più ci accostiamo al concetto di visulaizzazione oniroide, condizione che precede qualsisasi attività visiva vera e propria e che potremmo pensare come quella funzione atta ad organizzare l’incipit della funzione pensiero come attività differenziata dal resto dell’attività mentale; ogni stimolazione proveniente dalle senso percezioni , dall’area motoria o dalle proto-emozioni verrebbe perciò elaborata attraverso una trasformazione visiva consona per attivare una condizione mentale vicina a quella del sogno.
Questo produrrebbe l’abbozzo del sentimento di Sé, poiché il rispecchiamento ora detto in uno schermo primordiale costituisce la traccia più elementare del costituirsi del Sé, cosa che è poi destinata a replicarsi nel rispecchiamento del bambino al seno, nello sguardo della madre e così via, con reciproca mutualità.
E’ immediatamente evidente come nel primordiale formarsi del Sé assistiamo ad un abbozzo nascente di identità individuale, e come perciò questo percorso delinei l’arco di una vera e propria nascita psichica, che è uno dei punti di basilare interesse dell’Autore, con una sostanziale sovrapposizione – equivalenza del concetto di esperienza psicoanalitica proprio con quello di nascita psichica(Hautmann, 2007)

Da tutto questo emerge chiaramente il “debito con Bion”, come Hautmann sottolinea in uno dei suoi lavori. Tuttavia questo materiale ha principalmente a che fare con il livello fetale, prima del sorgere di una qualsivoglia relazione oggettuale con la madre, prima di tutto quello che fino ad allora la psicoanalisi aveva in fondo descritto. E’ una retrodatazione che si costituisce come un’integrazione e al contempo un arricchimento delle teorie psicogenetiche psicoanalitiche, e che si appella a livelli di funzionamento primordiale, abbozzato, delle caratteristiche bioniane del ♀♂, del PS↔D, del O↔K.
Se dunque possiamo distinguere fra aspetti protopercettivi e aspetti protoemotivi, allora possiamo ulteriormente considerare che il pensiero si formi attraverso costruzione di rapporti, dimensioni, astrazioni e leggi che siano da tenere distinti dalle dimensioni percettive tout court: questo costituisce una radice protomentale precorritrice di emozioni e rappresentazioni. Hautmann ha individuato in questo la presenza di cosiddetti elementi γ, differenti per natura e funzione dagli elementi presenti con le afferenze sensoriali, sicuramente da individuare come elementi β.
Allora possiamo concludere che la pellicola di pensiero è il farsi simbolico (elementi α) di questi elementi disparati provenienti dall’attivazione delle afferenze sensoriali e dai vari tipi di efferenza motoria attivati dalle proto emozioni, elementi β e γ.
D’altronde gli elementi γ possono essere considerati anche come il prodotto dell’insufficienza della funzione α sulle condizioni pre-emozionali, in parallelo con gli elementi β. Inoltre, se teniamo conto delle difficoltà nella formazione di questa pellicola, possiamo osservare che esse comportano una maggiore o minore fragilità e vulnerabilità per una sorta di persistente dominanza degli elementi asimbolici nel complesso dell’attività mentale, cosa che ci introduce al concetto di Splitting Cognitivo Primario.

SPLITTING COGNITIVO PRIMARIO
La pellicola di pensiero e lo Splitting Cognitivo Primario denominano in modo diverso condizioni che Bion aveva già indicato rispettivamente con barriera di contatto e schermo β. Tuttavia, il concetto di Pellicola di pensiero e di Splitting Cognitivo primario sono denominazioni che si riferiscono a strutture funzionali in cui prende forma l’organizzarsi del Sé ad ogni livello della sua evoluzione. Sappiamo che la Barriera di contatto divide il conscio dall’inconscio, è fatta di elementi α e così via; la pellicola di pensiero è certamente simile ma anche diversa perché è una prima manifestazione di organizzazione del pensiero, che non divide il conscio dall’inconscio.Hanno quindi funzioni differenti. Sono concetti che allora sono sovrapposti solo parzialmente, e che invece conservano aree di autonomia teorica.

La matrice di psicopatologia che sorge al momento del fallimento dell’organizzarsi della pellicola di pensiero ingenera lo Splitting Cognitivo Primario, concetto sorto intorno al 1982 (Hautmann, 1982) che si può manifestare grosso modo in due forme.Una prima forma ha a che fare con l’identificazione proiettiva, con movimenti violenti e spostamenti di cariche di energia fisica in determinate direzioni e versi, da intendersi come esplosioni ed implosioni, dissoluzioni ed annichilimenti. Una seconda forma ha a che fare con l’autismo, inteso come condizione caratterizzata dal dilatarsi delle dimensioni relazionali nel senso dell’ infinito e dell’indefinito: insieme con la perdita di contatto si manifesta l’esperienza del vuoto.
Infatti il fallimento della formazione della pellicola di p. fa assistere a una sorta di degenerazione dell’ordine rappresentazionale e dell’ordine percettivo
La condizione di Splitting Cognitivo Primario, nel momento in cui ingenera il rischio di dispersione nell’adimensionalità o nell’infinito, implica l’esperienza dell’”angoscia di base”, che pare coincidere con quanto Bion ha denominato come “terrore senza nome”, col rischio della uni e bidimensionalità delle categorie e degli aspetti in formazione, di cui prima si diceva, nonché il terrore di annichilirsi nella puntiformità spazio-temporale, sensoriale, emozionale della regressione protomentale.
La sofferenza che così si genera, il dolore mentale, è collegata al tentativo, talora disperato, di non perdere il senso della propria esistenza che in quel momento si sta formando e/o consolidando. L’extrema ratio, in tali casi, può essere il ricorso alla ipersomatizzazione, continuare cioè ad esistere facendosi corpo.
Questo pare comportare una sorta di disperazione, si radica nel vissuto di perdita dell’aspetto mentale di sé.
La corporeità cattura l’esistenza mentale. Il dolore mentale, potente motore di formazione psichica ora diventa un pesante freno al processo psicogenetico. Qui è interessante seguire qui il ventaglio di disturbi della formazione del Sé, che Hautmann disegna in diversi suoi lavori (impossibile dettagliare per problemi di spazio).
Nel disegnare in senso spiraliforme la progressione evolutiva della mente, Hautmann ci porta alle soglie di un terzo, diverso salto qualitativo, che vede la pdp sempre protagonista: essa avvia relazioni fondamentali con l’oggetto e gli oggetti, anche nello spazio esterno. Da qui in poi entrano in gioco le relazioni descritte da M.Klein e da Freud, in una coerente visione psicogentica che riesce a legare ed integrare le acquisizioni della psicoanalisi classica con le incursioni teorico-clinico-scientifiche di quella più attuale.
Ne deriva la dinamica disponibilità delle caratteristiche sopra descritte ogniqualvolta la realtà psichica interna ed esterna lo richieda, innescando e permettendo l’uso di funzionamenti anche molto primitivi, resi oramai fruibili, in relazione a momenti fondanti del Sé e all’uso di modalità relazionali precoci.
In questa dinamica complessa eppure limpida, emerge una concomitante concettualizzazione del Sé: ai suoi albori il Sé è più che altro “la mentalizzazione simbolico-asimbolica in intensa organizzazione di una sorta di primitiva identità gruppale”, come sottolinea lo stesso Autore. La gruppalità sostanziale di questa entità primordiale fonda una fusionalità profonda globale, che garantisce, nell’arco dello sviluppo, il sentimento e la condizione di appartenenza psico-biologica alla società degli uomini come gruppo, ma che inizia tuttavia come simbolizzazione del patrimonio genotipico e di specie, quindi collegandosi a radici filo ed ontogenetiche, ai codici psico-biologici, senso motori, biochiomici della specie, e dell’interazione di questi con e dal corpo della madre, nella gestazione.
Attraverso una condizione che H. individua come “co-gemellare”, questo Sé gruppale gradualmente approda al Sé individuale, con il contrasto, sullo sfondo, potremmo dire, di ciò che in contemporanea è l’universo del non-Sé.
Possiamo approcciare questo argomento sottolineando anche come il Sé si formi a partire da condizioni protomentali che sono da ritenersi primitivamente asimboliche, e che solo il formarsi della pellicola di pensiero trasforma in simboliche. Anzi, la caratteristica simbolica è al contempo sia la pellicola di pensiero sia il primo abbozzarsi del Sé, appunto primitivo.

Il movimento maturativo ora descritto è perciò leggibile in termini di vissuto del Sé in evoluzione: questo ha ulteriormente a che vedere con il generarsi dell’emozione suscitata dal sentimento di esistere. Per Hautmann è questo un affetto fondante destinato a rinnovarsi nell’arco della vita ogni volta che l’identità si rimette in gioco e si ricicla, riattivando oscillatoriamente certe condizioni primitive e sul crinale del simbolico e dell’asimbolico: per questo propone il concetto di passione, emozione coinvolgente che attraversa l’essere e attiva la crescita della simbolizzazione e perciò dello sviluppo del Sé. In essa vi vede anche l’espressione di un sano narcisismo, aspetto libidico che favorisce lo sviluppo, ben differente dal versante distruttivo del narcisismo stesso, collegato, talvolta in modo sinistro, al versante delle angosce di base che abbiamo su descritto.
Questo ci riporta alla caratteristica centrale del percorso teorico e scientifico di Giovanni Hautmann, di cui abbiamo già parlato: la costante congiunzione della mente analitica al lavoro nella sua sede principe –la seduta analitica stessa- con l’instancabile tensione verso una concettualizzazione che conglobi le scoperte della psicoanalisi in una visione coerente e rigorosa. Sempe in primo piano risulta l’impegno di mettere in evidenza, così, i punti di contatto più che le difformità concettuali, le progeniture più che gli strappi teorici, le consequenzialità nel rinnovamento e nella progressione più che lo spettro della Babele psicoanalitica. Mai tuttavia si nega la presenza quasi necessitata, quasi immanente, del pluralismo, delle diversità, comunque sempre passibili di armonizzazione lungo una linea teorica che ponga a fondamento i cardini fondamentali della psicoanalisi, attento più a costruire amalgami che a creare divaricazioni.
In questo c’è sempre attenzione agli apporti delle altre discipline, ma in una direzionalità che, pronta all’ascolto, ritrovi coerentemente e con costanza la centralità della disciplina analitica e del suo metodo, in un’appartenenza che sottolinea il senso dell’essere psicoanalisti senza sconti, senza alcuna fascinazione da parte di facili eclettismi o di pluridisciplinarità che, nella diluizione teorico-clinica, rendano perfino eccentrica la psicoanalisi rispetto a se stessa.
In qualunque momento, Giovanni Hautmann non cessa di essere profondamente identificato con il suo essere psicoanalista, rimettendo sempre al centro questa sostanza identitaria sia nelle astrazioni teoriche degli scritti, sia nel duttile e creativo lavoro clinico, individuale e gruppale. Verità e senso emergono perciò nel vivere l’esperienza analitica da dentro, rendendoci pienamente partecipi di essa.

BIBLIOGRAFIA

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