Film
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Monsieur Lazhar, recensione di Cristina Saottini

Regia di Philippe Falardeau

Canada 2012 Candidato all’Oscar come miglior film straniero.

Quando il film è uscito, ho avuto qualche perplessità nell’accogliere la proposta di vedere una pellicola canadese che raccontava la storia di una classe elementare in cui si era suicidata l’insegnante.

Quando si dice: il mio pregiudizio e superficialità!

Con mia sorpresa ho trovato il film meraviglioso, contemporaneamente duro e delicato, drammatico e lieve, un cristallo che riflette una luce che illumina in molte direzioni, una scatola cinese che quando credi di averne aperta una ne trovi un’altra.

La cornice del film è la storia che va dalla morte di Martine, l’insegnante che s’impicca in classe, alla scena toccante in cui in un abbraccio un padre ritrova una figlia perduta e una figlia un padre che non c’era.

E dentro questa cornice c’è un quadro di grande ricchezza.

Évelyne de la Chenelière che interpreta la parte della mamma di Alice ed è quindi ben presente sul set, ha scritto la piéce teatrale da cui è stato tratto il film diretto da Philippe Falardeau.

E’ un film fatto di sfumature, che riprendono al meglio i valori letterari dell’opera teatrale in un continuo dialogare tra immagine e parola.

E’ un film girato in interni che però non soffoca, anzi dà voce ai colori: il bianco della neve e il bianco di Algeri entrambi sporcati, uno dal calpestio distratto e l’altro dalla violenza, e dà colore alle parole: Bachir Lazhar che significa il Portatore di buone notizie ed è Fortunato, come Lazzaro che viene resuscitato dai morti.

E poi la psicologa che si chiama La Tendresse, espressione forse di una psicologia che coccola più che dar voce. E la scolara che dopo il suicidio cambia scuola Chanel Souci, la Preoccupazione che fa scappare.

Questo felice incontro di narrazioni, visive e di parola, interpreta al meglio la ricchezza, la complessità e i conflitti di quel microcosmo vibrante che è la scuola primaria, la porta d’ingresso dei bambini nella vite degli altri, un crocevia in cui s’incontrano il mondo conosciuto dell’infanzia e il mondo là fuori, il famigliare e lo straniero. Anche il corpo cambia linguaggio: da infantile, oggetto protetto delle cure materne, diventa il corpo che cresce e che scalpita nei giochi dei maschi e nella nascente femminilità delle bambine.

La scuola, pertanto, è anche ingresso nella sessualità che gli adulti temono perché non sanno come gestire la propria, i rapporti tra gli insegnanti sono imbarazzati, senza spontaneità, anche se non c’è da parte della regia un’accusa ma piuttosto una comprensione dolorosa.

Nella scuola di Monsieur Lazhar si incontrano e si interrogano due linguaggi, due culture, ciascuna con le sue paure e i suoi segreti, con il suo bisogno di proteggersi, a rischio di rendere tutto superficiale e silenzioso.

La famiglia di Bachir Lazhar è stata uccisa perché la moglie aveva scritto un libro che criticava l’amnistia generalizzata della politica di riconciliazione nazionale in Algeria, che più che una riconciliazione sembra rappresentare la volontà di zittire i conflitti illudendosi così di averli superati.

E in Canada lo straniero Bachir, che è costretto a nascondere la propria storia per vivere e costruirne una nuova, sarà allontanato dalla scuola perché insiste nel non voler mettere a tacere la violenza del gesto della maestra e quello che ha suscitato nella classe.

I genitori vogliono che i bambini dimentichino in fretta, che il dolore non lasci tracce: per superare il suicidio della maestra basta cambiar il colore dell’aula. Al maestro che capisce il bisogno di verità, dicono: “Si limiti a insegnare piuttosto che educare”. Ma come si può fare una cosa senza l’altra?

Il testo del tema che Alice legge in classe, chiaro, pulito, sincero, fa emergere i sentimenti e il dolore chiuso nel cuore dei suoi compagni che gli adulti si illudono di aver sbiadito. Come dice Bachir non è il tema a essere violento, è la vita ad essere violenta e i bambini non possono non essere nella vita.

E anche la letteratura è vita, come nella lettura della Pelle di Zigrino di Balzac, romanzo in cui il protagonista, devo questo a Stefania Nicasi, prima desiderava morire, poi essere ricco e potente e poi semplicemente vivere, ma da ultimo a una vita senza amore sceglie l’amore. Incontrare l’altro con i rischi che questo comporta, è l’unica strada per la felicità.

Un dettato che inizialmente ai bambini sembra astruso ma che racchiude l’indicazione educativa del maestro Bachir, e anche il senso del suo personale percorso e del suo invito/desiderio a lasciare spazio all’amore anche attraverso l’amore per la letteratura, un amore che non può prescindere dalla verità e quindi anche dal dolore.

Il valore del film a mio parere sta nella capacità di avvicinarsi e avvicinarci a questi pensieri senza ridursi a una parabola a tema.

Bachir che corregge i compiti sul pacco delle marmellate, che racchiude tutto quello che resta di sua moglie, è una sintesi a mio parere molto poetica di cosa significhi elaborare il lutto e cioè prendere dentro di sé ciò che è andato perduto, la famiglia ma anche l’infanzia, che può diventare spinta per nuove comprensioni, per nuove trasformazioni.

E così farà per la sua classe, costruirà ponti di significato, tra il sangue dal naso e l’innamoramento, dando anche qualche interpretazione non sedativa come quando invita il bambino fragile ad uscire: Esci vola se vuoi volare, mi troverai vivo e vegeto a temperar matite.

Altro che lo psicologo, per dormire, come gli suggerisce il buon avvocato, Bachir è uno psicologo per volare e per volare ci vuole il corpo.

Anche il suo stesso corpo ritrovato nella danza, con le braccia come ali aperte un corpo che esprime una sensualità virile ma non viriloide, ben diversa da quella che sembra sia richiesta ai maschi occidentali, che per timore del contatto, del linguaggio vivo del corpo, possono solo correre e far correre inutilmente intorno al cortile.

Come attraversare la morte per proteggere la vita? Questo film prova a raccontarlo.

Novembre 2015

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