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Nicolò A.M. (2019) Al di là dell’Interpretazione. Note sul cambiamento in psicoanalisi

Testo della relazione presentata al convegno

Al di là dell’Interpretazione. Note sul cambiamento in psicoanalisi

 Firenze 30 marzo 2019

Pazienti sempre più difficili ci hanno costretto a rivedere la nostra tecnica e a fare particolare attenzione all’esistenza di differenti livelli  di simbolizzazione e di differenti modi di ricordare. Siamo oggi consapevoli che la strada con cui le esperienze traumatiche primitive vengono comunicate non è il linguaggio verbale. Questo ci ha costretto a implicare la persona dell’analista nella stanza di analisi per quanto riguarda le sue sensazioni corporee, le sue percezioni allucinatorie o psicosomatiche (Botella, 2013), i sogni di controtransfert (Ferro, 2005, 2007; Nicolò, 2016), la sua capacità di sognare il sogno che il paziente non fa (Bion, 1992; Ogden, 2004). 

Per  molti di questi autori rendere conscio l’inconscio non è più l’obiettivo del lavoro e non si tratta di svelare, ma piuttosto di favorire trasformazioni della coppia analitica e rendere possibili rappresentazioni anche inconsce. In questa prospettiva, il funzionamento psichico dell’analista è parte integrante del processo e del materiale. Anzi nell’ottica di campo, il promotore della cura è l’analista, con la sua mente/corpo come per altro avviene nella relazione madre-bambino quando le cure dell’ambiente sono parte integrante del processo di crescita. Accanto a tutto ciò, grazie al lavoro sui livelli primitivi della mente e del funzionamento in seduta, e la scoperta di alcune forme di memoria che non coinvolgono parole o immagini (Boston Change Process Study Group, 2007), si può ipotizzare “la possibilità che i livelli più importanti di significato siano portati, messi in atto ed espressi attraverso i processi non simbolizzanti” (pp. 848-849).  

Per alcuni psicoanalisti la conseguenza clinica di ciò è che debba esistere “something more than interpretation” e l’interpretazione non sia  “la freccia esclusiva nella faretra dell’analista” (Gabbard e Westen, 2003, p. 823). È cambiato per molti analisti il senso stesso dato all’interpretazione, anche perché “le terapie analitiche sembrano muoversi – come dice Levine (2012) – su un doppio binario (two track vision), quello che tende a decodificare i significati inconsci e un altro trasversale che percorre vari modelli e che mira all’attivazione di processi trasformativi del paziente e della coppia analitica.

Accanto all’interpretazione altri fattori sono presi in considerazione come capaci di contribuire al cambiamento, ad esempio le “interpretazioni con elementi più o meno supportivi” (Wallerstein 1986; Widlocher 1999), ma  primo fra tutti naturalmente il setting, non più inteso come insieme di regole rigide e precostituite ma visto piuttosto come un’area che stimola la creazione di uno spazio potenziale tra l’analista e il paziente, e poi l’attenzione alla violenza dell’interpretazione, e ancora il rapporto tra le libere associazioni del paziente e l’attenzione liberamente fluttuante dell’analista, fattore quest’ultimo che facilita quella che Nino Ferro ha definito la “permeabilità” tra l’analista e il paziente.

Cercherò ora di discutere con voi sulla base di casi clinici una serie di domande:

che cosa produce il cambiamento? 

Che ruolo dobbiamo conferire all’interpretazione come agente di cambiamento? 

Il cambiamento del paziente passa attraverso il cambiamento dell’analista o è indipendente da esso?

Vediamo allora come districarsi tra queste domande. 

Comincerò con un caso clinico:

Caso clinico

Aurora è una donna di 45 anni, sposata e madre di due figli. Viene all’analisi, per una sfumata agorafobia. Da bambina aveva sofferto di encopresi e ritenzione fecale e racconta la sua infanzia chiusa e ritirata. Stava spesso sola e lontano dallo sguardo degli adulti, arrivava perfino a mangiare le sue stesse feci.

La paziente, che pure veniva puntualmente alle sedute, aveva un atteggiamento oppositorio, e non mostrava di fruire di alcuna interpretazione che  attaccava e criticava. Riconosceva anche con una certa aggressività e freddezza i miei sforzi, ma derideva spesso lo studio che le appariva lussuoso o i miei vestiti. La svolta nel trattamento fu determinata dal succedersi di alcuni episodi.

Inaugurò un periodo nel quale arrivava almeno venti minuti prima dell’inizio della seduta. Sapeva che non mi avrebbe disturbato, dato che era la segretaria ad aprirle se fosse arrivata troppo presto. Al momento di inizio della seduta, la trovavo in sala d’aspetto a dormicchiare, o in uno stato silenzioso, ma contenta. Tutto questo sembrava renderla apparentemente riposata ed allegra, ma nessuna risposta sapeva darmi di questo suo stato. Avevo in un primo momento, interpretato quanto accadeva come il suo tentativo di “farmi fuori e fare l’analisi da sola, rubando all’analista la sala d’aspetto”. Avevo anche collegato questo al “mangiare le sue feci invece che nutrirsi del cibo offertole dall’analista”. E in effetti mangiare le feci poteva equivalere al nutrirsi di oggetti di rifiuto prodotti da sé stessa. In questo senso anche stare nella sala d’aspetto in silenzio e sognante poteva costituire il nutrirsi di dreamy states, prodotti da se stessa che escludevano e attaccavano l’analisi. Ma cominciai a pensare che tali dreamy states, tali rifugi erano collocati in un luogo appartenente all’analisi. Costituivano perciò un prodotto intermedio tra l’analista e il paziente, così come io credo che dobbiamo considerare il transfert.

Una certa curiosità e lo sperimentare il fallimento dei miei interventi fino a quel punto, mi trattenne perciò dall’insistere nell’interpretare e in ogni caso l’osservare che la paziente era molto serena e riposata dopo quella pausa in sala d’aspetto mi indusse ad aspettare, anche se inavvertitamente spesso nel corso del lavoro cercavo di capire quanto accadeva.

Una trasformazione era perciò avvenuta intanto nella mia mente. Invece di considerare tali agiti come un attacco all’analisi e di vivere tali eventi come un segno del fallimento dei miei interventi, considerai dapprima quegli agiti come una comunicazione e successivamente mi resi conto che  in certo senso la paziente mi stava utilizzando, ad un livello che io stessa  non ero consapevole di offrire. La stanza di aspetto, anche se vuota della mia presenza, apparteneva all’analisi e senza essere disturbata dalle mie interpretazioni che la paziente non era in grado di comprendere e perfino di ricevere, stava avvenendo al suo interno qualcosa che anche io al momento potevo accettare di non comprendere. Evidentemente si apriva in quel momento una divaricazione o una pausa momentanea tra la regola analitica del rendere conscio l’inconscio e l’efficacia sia pure momentanea per la paziente. Per taluni pazienti, in certi momenti dell’analisi realtà e rappresentazione non sono facilmente differenziabili e l’analista si trova perciò in una difficile impasse dato che l’interpretazione – come ormai tutti sappiamo – può squalificare la percezione che il paziente vive, il suo vissuto della realtà e quindi la sua stessa realtà interna. 

Intervenni perciò in modo benevolo e leggermente scherzoso commentando come la paziente potesse starsene beata per suo conto e su come la stanza d’aspetto fosse comoda e confortevole. Ed Aurora si sintonizzò subito su queste comunicazioni, sul tono più che sui contenuti, e mi confessò che era contenta di poter fruire dell’opportunità di dormire o stare in quel modo nella sala di aspetto del mio studio, cosa che trovava molto confortevole, come nessun altro luogo attualmente. La cosa continuò, ma si era inaugurato un cambiamento di clima emotivo e la paziente sembrava contenta di venire e lei stessa scherzava sulla stanza d’aspetto, sulla luce delicata che c’era, i divani comodi etc. Nei mesi successivi i ricordi della paziente andarono a quando da bambina, si raggomitolava sotto il tavolo della stanza di sua nonna, al riparo della madre che l’attaccava e la criticava. Nel prosieguo del lavoro, avanzammo l’ipotesi che la sala d’aspetto le permetteva perciò di rivivere il luogo protetto ove stava con la nonna, mentre forse viveva dentro la seduta con me, il rapporto con una madre che pretendeva da lei comportamenti più adeguati di quanto lei da piccola fosse in grado di avere o il rapporto con quel padre persecutorio e assente che la paziente aveva vissuto nella sua infanzia. Successivamente le interpretai anche che i miei interventi erano per lei gli attacchi della madre, mentre la stanza d’aspetto era la stanza della nonna. La consapevolezza di questi due aspetti del transfert fu utile, la collaborazione della paziente aumentò e io stessa fui trasformata, sentendo che in ogni caso anche la mia parte affettuosa e benevola, che tante volte avevo sentito verso la paziente, era stata percepita da Aurora, sia pure attraverso l’uso di un possesso concreto. Un’altra ipotesi compresente e possibile era quella che quanto avveniva nella stanza d’aspetto poteva altresì rappresentare quell’area intermedia tra l’essere fusa con un benevolo oggetto idealizzato interno, la nonna, con il quale non c’era necessità di parole e l’analista–madre persecutoria dove la parola esisteva all’insegna della persecuzione, ma io credo che in questo caso era l’elemento concreto della stanza e del suo clima silenzioso, in assenza della persona dell’analista a essere vissuto come un elemento di stabilità e continuità che si poteva riattualizzare nella stanza e aveva una funzione di stabilità e continuità per il sé della paziente. La paziente sentì inoltre che a differenza di quanto avveniva con la madre, io stavo accettando la sua posizione e le sue sensazioni nella stanza d’aspetto.

Nuovi ricordi si affacciarono nei giorni e mesi seguenti intorno al suo rapporto con la madre e con la nonna. Ricordava come la nonna stesse con lei il pomeriggio, quando era ancora molto piccola. Si mettevano a letto con le finestre e gli scuri chiusi, lei, la sorella e la nonna. Talora lì la nonna inventava storie sulla “fattoria”, un luogo immaginario che lei un giorno con i suoi soldi avrebbe comprato e tutti sarebbero andati a vivere lì. Talora lei stessa da piccola si metteva in silenzio chiusa nella stanza a guardare il soffitto. Questo strano rituale era talora bruscamente interrotto dall’arrivo della madre che tornava dopo il lavoro e si arrabbiava molto, apriva le finestre e la costringeva  ad uscire. In realtà Aurora fin da molto piccola era problematica, non aveva amici, non usciva mai né aveva piacere a farlo. Mettemmo poi in relazione questo fatto con l’abitudine  attuale della paziente di stare sveglia e in silenzio fino alle tre della notte, con la scusa di dover stirare i numerosi panni della casa. Ma in realtà Aurora non aveva difficoltà economiche e in realtà confessò che effettuava questo rituale tutte le sere, dato che tale attività meccanica le permetteva di entrare in uno stato riposante di non pensiero, di assenza di contatto con le persone  della casa, di contatto con il “non umano”. Piano piano apparvero chiari alla paziente, anche rispetto ad altri episodi venuti alla luce, gli aspetti bizzarri e un po’ folli della nonna, mentre il comportamento severo della madre venne ridimensionato come una sana preoccupazione verso  la sua crescita. 

In quel periodo poi Aurora riportò un sogno significativo che si riferisce – credo – a questi temi:

“Arrivava in una stanza che nelle sue associazioni fu poi collegata con la stanza dell’analisi. Davanti a lei c’era una persiana fatta di mattoni che però si sollevavano. Dietro sembrava esserci un grande quadro che raffigurava un enorme albero e sotto, una sorta di disegno che rappresentava persone e animali. Mano a mano però sembrava che queste persone e l’albero si animassero e ridiventassero vivi. Cominciavano a muoversi e a prendere spessore. Si accorgeva perciò di trovarsi davanti ad una finestra, ma questa trasformazione le aveva destato al contempo stupore e una sensazione terrificante di paura, anche nel sogno”.

Non commenterò questo sogno, tanto mi appare evidente la trasformazione da un oggetto inanimato ad una persona vivente e capace di muoversi. Una trasformazione che ad esempio, in termini meltzeriani, potremmo definire da un funzionamento bidimensionale al tridimensionale anche se, come è naturale, il cambiamento viene vissuto con paura e quest’ultimo sentimento ci dà un’informazione importante  per il prosieguo del lavoro.

Commento

Mi sembra che questo caso mostri almeno due livelli di funzionamento e di transfert, uno più evoluto caratterizzato dal lavoro, dentro la stanza di analisi, sui conflitti della paziente e un altro più primitivo rappresentato dal transfert sugli aspetti concreti del setting, poco rappresentabile e forse connesso con i climi e le sensazioni di ritiro protetto, anche se un po’ folle, che aveva vissuto nella stanza della nonna. Taluni tratti autistici della personalità della paziente, che si esprimevano in lacune senza pensiero e nel ripetersi concreto di aspetti ritualistici nella sua vita e nella sua settimana, poterono così essere superati (sia pure momentaneamente in attesa di successiva elaborazione), grazie all’accettazione che potesse esistere per la paziente una prima fase caratterizzata dal bisogno di avere un ambiente concreto, quieto ed acquietante. 

È evidente che tali aspetti possono suscitare nell’analista violenti sentimenti di rifiuto o essere vissuti come una negazione della sua persona. Può essere difficile condividere una relazione con una persona che in realtà sembra a tratti non essere in relazione con noi, ma usarci solo per quanto di concreto e fisico le puoi dare. A questo proposito il suggerimento di Searles di rintracciare dentro di sé una quota di non umano, in modo da identificarsi con quegli aspetti del paziente, è un’operazione alquanto difficile perché tra l’altro presuppone l’accostarsi ad un tipo di sensorialità con cui non siamo comunemente in contatto.

Due sono i punti su cui vorrei attirare la vostra attenzione. Il primo è connesso con l’elemento concreto della sala d’aspetto che aveva permesso di rivivere prima e di ricordare poi il clima della stanza della nonna. Una parte dei vissuti conosciuti ma non pensati di Aurora era stato riattualizzato. Il secondo punto, forse il più importante fu il cambiamento del mio atteggiamento verso la paziente, il superamento dei vissuti di persecuzione che la sua preferenza verso la stanza di aspetto mi destava, l’accettazione di un livello più profondo e meno verbalizzabile della sua mente e del nostro rapporto. 

Gli inconsci

La scoperta di questi livelli di funzionamento e di queste aree primitive ci rimandano all’esistenza di un inconscio molto più complesso ed articolato di quanto non pensavamo fino ad una decina di anni fa, alla compresenza di uno o più inconsci  con qualità differenti di funzionamento.

Tuttavia anche nel 1922 Freud era pervenuto al riconoscimento dell’esistenza di un inconscio che è “strutturalmente incapace di divenire cosciente”, come aveva già anticipato in “Ricordare, ripetere e rielaborare” (1914) dove aveva menzionato processi psichici di cui non è rimasta nessuna notazione. Nella seconda topica, ci dice Green, con il concetto di Es viene riconosciuto un distretto del funzionamento psichico fondamentalmente non rappresentazionale, contenente moti pulsionali non organizzati.

Da Freud in poi, ci ricorda Howard Levine (2013), una parte dell’inconscio appartiene al regno della rimozione e come tale consente con gli strumenti consueti dell’analisi un accesso ad esso; un’altra parte è invece composta di elementi “pre-” o “proto-psichici”, che non trovano espressione. Questa considerazione trova conferma clinica in tutte quelle situazioni in cui il problema non è tanto quello di “ricordare” risolvendo il sintomo attraverso il lavoro sulla rimozione, quanto al contrario di non avere sufficente spazio di pensiero, o a causa dell’incapacità, magari anche temporanea, di sospendere il pensiero.

D’altronde anche Bion affermava fin dal 1974 l’esistenza di idee “sepolte nel futuro che non è accaduto o nel passato che è dimenticato e che possono difficilmente essere considerate appartenenti a ciò che chiamiamo pensiero” (p. 84). Questo è il campo che Bion definisce degli stati mentali inaccessibili, che non fanno parte né del conscio né dell’inconscio. Uno dei primi ad operare queste distinzioni fu Winnicott. In un lavoro del 1949, “L’intelletto e il suo rapporto con lo psiche-soma”, differenzia due tipi di ricordi: quelli che sono pensabili perché il bambino non ha subito eccessive interferenze da parte dell’ambiente e un altro tipo di ricordi, quelli impensabili. Questi ultimi dovuti ad impingement traumatici da parte dell’ambiente quando il bambino non è in grado o non è ancora pronto per affrontarli. Essi costituiscono un’interferenza per la continuità dell’essere e vengono “catalogati” congelati, in attesa che si apra la speranza di una trasformazione. Winnicott è convinto che ogni cosa che ci accade, fin dal trauma della nascita, viene ricordata sia sul piano emozionale sia su quello corporeo. Ma anche la Klein, con la sua straordinaria capacità intuitiva, parlava di “memories in feelings”, memorie nelle sensazioni. Ma il vero problema per lo psicoanalista è rappresentato dal fatto che in certe situazioni non si tratta solo di ricordare quanto è stato congelato nel soma, ma quanto invece non si è proprio costituito. Un trauma che è avvenuto in un periodo della vita quando “l’Io era troppo immaturo per integrare l’esperienza nell’area della sua onnipotenza” ‒ come ci dice Winnicott ‒ lascia una traccia che produce una deformazione dell’Io; tracce che non vengono incluse all’interno dell’inconscio dinamico ma che piuttosto creano modificazioni, alterazioni nello strutturarsi del pensiero. È la capacità stessa di pensare che è messa in discussione ‒ ci dice Levine ‒ per cui non possiamo fare affidamento sulla ricerca di ciò che è stato “nascosto”. Potremmo trovarci cioè di fronte all’informe, qualcosa che potrebbe non aver ancora raggiunto una forma specifica tale da venire ad “esistere” ed essere conseguentemente celato.

Esperienze non riconosciute, che non hanno mai potuto essere pensate, restano potenzialmente attive oppure si manifestano  per altre vie  che non sono il rimosso. Tutto ciò può determinare una distorsione nel funzionamento della mente che ha numerose ricadute nella vita della persona; è la relazione stessa con il presente ad essere mutata. È come se fosse una ferita sempre aperta che spinge il soggetto a ricercare compulsivamente il “bandolo della matassa”, ad essere governato da una forza cieca alla ricerca di cosa ha fallito, di quel negativo dell’esperienza infantile che ha determinato il crollo. 

In generale le condizioni dove è più facile per l’analista vedere questi meccanismi all’opera sono  sul piano della patologia  le situazioni post traumatiche  e sul piano dei setting  le sedute di gioco con il bambino.

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…… (il caso clinico non viene riportato per motivi di riservatezza)

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Se osserviamo con attenzione la seduta di Giorgio ci appare chiaro che giocare è prendersi la libertà di esplorare aree sconosciute di sé e anche libertà di affrontare l’ignoto. Libertà da una parte e necessità dall’altra, quando il bambino finalmente può permettersi il gioco che diventa però per un certo periodo ripetitivo, a causa della necessità di riprodurre spesso la stessa scena compulsiva di distruzione e successiva ricostruzione e riparazione.

Infine possiamo interrogarci intorno al significato del blocco nella risposta dell’analista all’attacco distruttivo del bambino. La mia ipotesi, che ho anche esplicitato alla collega, era che, accanto alla sua paura di danneggiare un bambino già compromesso dalla sua storia personale, la collega stava agendo l’inibizione alla risposta che Giorgio stesso aveva avuto nella sua vita nel momento in cui, a causa delle sue esperienze traumatiche, aveva operato una sorta di congelamento delle sue emozioni. Questa esperienza si stava attualizzando nella relazione transfero-controtransferenziale e trovava nell’analista impossibilitata a difendersi, il suo mezzo espressivo. Nello stesso tempo non possiamo escludere un vissuto di pena dell’analista verso un bambino che rappresentava lei stessa deprivata. Ci possiamo chiedere se questa risposta dell’analista, di cui per altro ella non era consapevole, non si possa considerare una sorta di enactment, espresso nell’inibizione inconscia della risposta. Il supervisore in questo caso, agendo come terzo, nell’autorizzare l’analista a difendersi dagli attacchi del paziente, la stava anche autorizzando a prendere una posizione più attiva anche verso se stessa e la sua propria storia e le permetteva di aprirsi  alla realtà.

Per descrivere episodi simili, Winnicott avrebbe parlato di “fallimento dell’analista”, un fallimento che può mettersi in atto inevitabilmente all’interno del transfert, un suo errore “forse determinato dal paziente stesso”. Si riattualizza nella seduta una manifestazione esterna di un fallimento precoce dell’ambiente originario del paziente che sarà riportato in vita dal fallimento dell’analista nell’interazione con il paziente (il problema nasce solo se l’analista ripete ancora una volta nella vita del paziente la risposta traumatica. Il paziente allora odierà l’analista giustamente per il fallimento che si era originariamente presentato come fallimento ambientale, ma ora è rappresentato nel transfert (Winnicott, 1963, p. 337). 

In quel momento la coppia analista/paziente ha davanti la possibilità di fare una nuova esperienza trasformativa. La risposta dell’analista è cruciale, da una parte può indirizzare verso la ripetizione del trauma, ma dall’altra  invece può dare vita alla creazione di una nuova esperienza. Non siamo lontani in questa descrizione di Winnicott da quello che oggi si definirebbe “enactment”, avendo finalmente compreso che non ci troviamo davanti all’errore dell’analista, ma invece ad un suo agire inconscio che nasce nel legame nella coppia analitica. Nel caso di Giorgio la risposta successiva dell’analista è nata da un suo mutamento emotivo indotto dalla supervisione e ha avuto un effetto significativo sul paziente. Come possiamo vedere dalla comparsa del dottore buono nelle sedute successive essa ha trasformato il gioco ripetitivo che riattualizzava il funzionamento traumatico nella sedute in un gioco con una valenza simbolica e innovativa, nato dal coinvolgimento emotivo dell’analista e dalla sua risposta. Afferma Meares (2009): “Affinché il gioco simbolico possa avere luogo, il bambino ha bisogno, come evidenziato da Piaget (1959), della sensazione che qualcun altro abbia una profonda comprensione del suo mondo […] La rappresentazione dell’esperienza del bambino, creata da questa persona, entra in risonanza con quella del bambino stesso. Questa risonanza porta ad un diffuso senso di benessere” (Meares, 2009, p. 443).

Un altro esempio: cosa induce il cambiamento?

A proposito di cosa produce il cambiamento, gli psicoanalisti del Boston Group affermano che il cambiamento avviene attraverso “momenti di incontro” tra analista e paziente che nascono da modificazioni “dei modi di stare con l’altro” nella relazione analitica. 

Anche Ruggero Levy (2017) ci parla di momenti di incontro, momenti di intimacy, specificando però che in essa c’è qualcosa di diverso. L’“intimacy” è “… the encounter between two subjects and their subjectivities which creates an area of emotional turbulence, which, if tolerated, symbolically transformed, and, therefore, thought out, may lead to knowledge about the intimacy of one’s emotions and those of the other person.”

Il riferimento in questo caso è a Bion a proposito del linguaggio dell’effettività, a Meltzer di Sincerity e, se posso aggiungere un altro autore, ricorderò Winnicott quando ci parla dell’area dell’illusione nell’incontro tra realtà e fantasia e dello spazio transizionale o della terapia come area di sovrapposizione del giocare dell’analista e del giocare del paziente. Sto parlando del vissuto dell’illusione che il bambino sperimenta, grazie all’apporto di una madre sufficientemente buona, una madre capace di fornirgli l’illusione che «il suo seno sia parte del bambino e che […] vi sia una realtà esterna che corrisponde alla capacità propria del bambino di creare» (Winnicott, 1971, p. 39). Madre e bambino condividono l’esperienza di un momento di illusione e questa esperienza consente al bambino di avere accesso alla realtà, di sperimentarne la relazione e anche di aver accesso alla capacità di simbolizzare. Anche analista e paziente condividono in certi momenti un’illusione, un momento di reciprocità che permetterà di avere accesso alla realtà ed apre la strada ad una nuova esperienza di sé, dell’altro e della relazione reciproca. 

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…… (il caso clinico non viene riportato per motivi di riservatezza)

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Posso ipotizzare che la paziente mi aveva fatto diventare una madre fobica al contatto e io vi avevo aderito inconsciamente e apparentemente con l’idea di non turbarla? Avevo cioè agito la sua fantasia di relazione transfero-controtransferenziale? Fenomeni come l’enactement, a mio avviso, rientrano in un fenomeno che vede l’attivarsi della reciprocità nella coppia analitica in un dialogo fra due cervelli destri, dice Allan Schore, come “l’espressione di una disregolazione” determinata da “una comunicazione implicita, da cervello destro a cervello destro, in cui la vulnerabilità del paziente interagisce con la disponibilità emozionale dell’analista” (citato da Ponsi, 2012). 

Vi ho portato con Camilla un altro esempio di enactment. Una recentissima revisione delle teorie e delle critiche al concetto di enactment, lo definisce come “l’attualizzazione inconsapevole da parte dell’analista delle fantasie di transfert del paziente”. Questa definizione minimale è largamente accettata, mentre un grosso dibattito riguarda lo scopo e la natura di questo fenomeno, la sua relazione con il controtransfert, l’impatto sul processo analitico e il ruolo giocato dalla soggettività dell’analista. Naturalmente la risposta dell’analista  allo sforzo inconscio del paziente di forzarlo in un’azione reciproca è differentemente concettualizzata a secondo degli orientamenti. Mentre ci sono alcuni analisti come Levine e Friedman (2000) che vedono nell’enactment “come un sovrapporsi complesso di drammi inconsci, sottili, reciprocamente costruiti, vissuti in modo congiunto piuttosto che comunicati a parole”, altri come Faimberg (1992) affermano che “il paziente non può creare la risposta dell’analista, ma solo le condizioni perché l’analista risponda secondo il suo proprio funzionamento”.

Nella mia esperienza ambedue queste concezioni sono vere e personalmente le ho anche sperimentate ambedue, ma quello che mi interessa di discutere con voi è piuttosto la risposta all’enactment. A questo punto è importante osservare che la paziente era arrivata ad un punto evolutivo della sua analisi e questo momento evolutivo apparteneva anche alla coppia analitica ed era manifestato dalla  stretta di mano dell’analista.

Io credo che quel mio atto è stato più terapeutico di qualunque interpretazione, ha rotto un tabù, comunicando alla paziente e anche a me che Camilla non era repellente. Ma la cosa che mi colpì fu lo stato mentale nel quale feci quell’atto, di disattenzione, distrazione, uno stato di sogno. 

In queste descrizioni cliniche, un’emozione intensa, sensoriale, somatica un acting, sembra aver  colto di sorpresa l’analista e credo anche il paziente. Nei casi clinici un evento improvviso imprevedibile  si precipita nella seduta, dentro il campo dell’analisi, cambiando il clima solito. 

Gli inconsci e l’altro

A proposito di tutti questi funzionamenti che  attengono all’inconscio non rimosso, Green (1993) nella sua concezione sul Travail du négatif, mette a fuoco il ruolo dell’altro come depositario di quella parte di storia del soggetto che ha avuto luogo senza essere stata vissuta. “D’altronde laltro o meglio la sua assenza, è quello da cui tutto ciò si è dipartito […] Se da una parte quindi l’altro è fortemente ricercato per la sua qualità intrinseca di “luogo” in cui poter ricostituire un senso, riavviare la capacità di produrre significato, dall’altra è rifuggito col più cieco terrore perché fonte di emozioni ingestibili” (Nicolò, Accetti, 2015, p. 15).

Si apre pertanto un campo di studio e di lavoro estremamente impegnativo e affascinante, un campo che ci cimenta particolarmente sul piano della nostra capacità di cura. Esistono molti altri nella vita di ciascuno, altri significativi fin dall’origine della vita e altri nel presente. Il lavoro con le coppie e le famiglie o con la coppia madre bambino ci hanno fatto capire come nell’altro membro della famiglia o della coppia si deposita una parte della storia anche sconosciuta al soggetto che pure pesa su di lui, modificandone il suo funzionamento. In questi setting coloro che ci lavorano conoscono l’importanza dei climi e degli agiti sul setting e nel setting, conoscono i vissuti sensoriali e somatici che l’analista prova e come tutti questi fenomeni ci parlino della vita e della storia anche transgenerazionale del singolo e del gruppo.

E quando non ci si può riferire all’altro è il corpo che sembra farsi carico  in qualche modo delle distorsioni della psiche. 

Questa affermazione sulla capacità del corpo di ricordare, come d’altronde ci diceva Winnicott, è un elemento cruciale e denso di sviluppi ancora imprevedibili ed è stato ampiamente ripreso oggi anche da studiosi che prospettano l’utilità di un modello psico-neurobiologico, come Allan Schore che non condivide la denominazione di stati mentali primitivi, affermando che sono piuttosto “stati psicobiologici” (p. 101), stati primitivi mente corpo. I disturbi psicosomatici o le dissociazioni psicosomatiche come nel caso delle disforie di genere possono rappresentare un esempio clinico angosciante di queste dinamiche.

Anche nel setting duale, l’altro ovviamente, può essere anche l’analista che sarà a questo punto particolarmente cimentato poiché il lavoro che gli viene richiesto non è più svelare il significato simbolico di quanto gli viene comunicato. In questo caso infatti il paziente che ha questa capacità  ha già operato una trasformazione. È importante che l’analista usi altri strumenti diversi da quelli classici, strumenti che implicano la persona dell’analista, la sua spontaneità e il lavoro con la propria mente. Questo lavoro potrà spaziare dall’uso di quella che Winnicott chiamava l’“elaborazione immaginativa” ad altri strumenti dove la comunicazione passa da inconscio ad inconscio. Per creare in certe situazioni quell’inconscio dinamico che non è esistito per il paziente l’analista deve fare ricorso al proprio inconscio, sia come strumento di conoscenza che terapeutico. Con la straordinaria capacità descrittiva e con la forza immaginativa che lo contraddistingue, Nino Ferro ipotizza che sia necessaria la “creazione del ricordo di fatti mai accaduti o, come ha detto Bion, sino ad avere Memorie del futuro” (1977, p. 171). Il funzionamento profondo che si stabilisce nella coppia analitica, la capacità dell’analista di sognare i sogni mai sognati del paziente (Ferro) sono allora le risposte di questa nuova frontiera della clinica psicoanalitica, mostrando una psicoanalisi viva, capace di mutare sempre mettendosi in discussione ma mantenendo sempre la propria identità e continuità. Come strumento di conoscenza l’inconscio dell’analista reagisce come una lastra sensibile alla luce per usare la terminologia di Freud che rifrange e amplifica il colore e la luce, talora debole prodotta dal paziente. Come strumento terapeutico sarà allora il nuovo incontro, in un’esperienza di reciprocità – come diceva Winnicott – ad essere fondante. 

Permettetemi di soffermarmi su questo concetto che è a mio avviso particolarmente importante. Winnicott afferma: “Non è questione di comunicazione verbale .… Molto dipende da come l’analista usa le parole e poi dall’atteggiamento che sottende l’interpretazione” (1968, p. 94); secondo Winnicott, la reciprocità appartiene al campo della comunicazione preverbale. Riprendendo la similitudine con la relazione madre bambino egli specifica che la reciprocità  dipende sia dalla madre grazie alla sua identificazione col bambino sia dal bambino grazie al potenziale interno di crescita. La reciprocità è l’inizio della comunicazione tra due persone. La comunicazione per il bambino invece è un processo successivo, “è una   conquista evolutiva che dipende dei processi ereditari del bambino e dipende anche dalla madre, dal suo atteggiamento dalla sua capacità di far diventare  reale quello che il bambino è pronto a ricercare, scoprire, creare” (1969, pp. 277-278). Stiamo parlando perciò di un processo complesso assolutamente non esprimibile con le parole che ha che fare, secondo Winnicott e secondo Jan Abram, con la simbolizzazione non verbale. Mi sembra importante anche considerare che è un processo bidirezionale biunivoco costruito tra la madre e  il bambino come tra analista e paziente. 

Verso una conclusione

La sintonizzazione dei due partecipanti all’incontro analitico, la loro reciprocità, che si costituisce a livello pre-simbolico, in molte situazioni cliniche simili, si individua proprio  attraverso l’emergere imprevedibile di emozioni, rabbia, paura, tenerezza o sensazioni o immagini inspiegabili prima di allora. E questo avviene ancor prima che l’analista abbia esplicitato la sua comprensione. Queste emozioni determinano un cambiamento del clima nella seduta e della posizione reciproca dell’analista e del paziente, ancor prima che l’interpretazione entri nel campo. Quello che decisamente è evidente è la disponibilità dell’analista a coinvolgersi nella situazione. L’affermazione di Bion che si pensa solo in presenza di emozioni è un assunto fondamentale. Possiamo ipotizzare allora che il cambiamento avviene solo quando sia il paziente e l’analista  condividono  o sperimentano non solo la comprensione intellettuale, ma anche quella risonanza profonda ed emotivamente coinvolgente che permette ad ambedue l’apertura a stati non accessibili alla coscienza e che, spesso comprendono una risonanza corporea o sensoriale. Questi processi complessi e in buona parte ancora sconosciuti sono attivati da stati emotivi condivisi  e dalla possibilità di sperimentare nuove relazioni emotivamente significative.

Senza bisogno di riferirsi alla famosa espressione di Alexander dell’analisi come esperienza correttiva, sembra evidente che solo se l’analista saprà essere, come suggeriva perfino Anna Freud, un oggetto nuovo capace di instaurare una relazione nuova  avremo la possibilità di porre le basi per il cambiamento che tuttavia sarà il prodotto di un complesso processo bidirezionale in una relazione co-costruita tra analista e paziente.

Io credo che questi casi clinici mostrino il capovolgimento nella dialettica interpretazione/cambiamento della relazione, ponendoci il problema se sia l’interpretazione che produce il cambiamento della relazione o invece è il cambiamento della relazione a stimolare la produzione dell’interpretazione che suggella un cambiamento già avvenuto (Nicolò, 2004).

Naturalmente vi è un continuo rimando circolare tra l’interpretazione e il mutamento della relazione, ma con i pazienti più primitivi è l’interpretazione a rivelarsi lo strumento fondamentale?

Per rispondere a questa domanda, non possiamo dimenticare Winnicott che affermava: “una psicoterapia sul piano profondo si può fare senza un lavoro interpretativo … il momento significativo è quello in cui il bambino sorprende se stesso. Non è significativo invece il momento della mia brillante interpretazione” (1971, pp. 50-51 ed. or.).

In un bell’articolo “Intuire la verità di ciò che accade” (2015), Ogden commenta il lavoro di Bion “Note su memoria e desiderio” (1967), e anzitutto ne cita una frase “Nel momento in cui siamo in grado di dare al paziente un’interpretazione per lui comprensibile, tutto il lavoro è stato già fatto”, e Ogden aggiunge subito dopo “il lavoro è stato già fatto nel senso che analista e paziente sono stati già trasformati dall’esperienza di intuire congiuntamente la realtà psichica inquietante con cui sono diventati una cosa sola. L’esperienza di diventare una cosa sola con una realtà psichica precedentemente impensabile cambia sia il paziente che l’analista. L’interpretazione è superflua.” (Ogden, 2015, p. 853 ed. it.).

Naturalmente queste affermazioni sono forti e malgrado tutto credo che la maggior parte di noi qui dentro non rinuncerebbe all’interpretazione. Sorge allora inevitabilmente il  problema di cosa intendiamo per interpretazione. Dobbiamo dare all’interpretazione un significato restrittivo o invece la possiamo collocare in un’area più articolata e variegata dove la funzione interpretativa dell’analista si estrinseca in più aspetti, di cui l’interpretazione classica è solo uno? Nel novero di questi aspetti comprendiamo le dimensioni non verbali della risposta o del modo di essere dell’analista nella stanza, la temperatura e la distanza dell’interpretazione, fino a quella che Sandler chiama “a free floating behavioural responsiveness” (Sandler, 1976, p. 47).

Potremmo inoltre fare riferimento ad una funzione continuamente interpretante (Nicolò, 2004) che l’analista esercita su di sé e sulla relazione con il paziente, a partire dalle proprie esperienze passate e da quelle attuali nella seduta, a partire dall’incontro/scontro con l’inconscio del paziente e con il proprio e che gli permette, ancor prima di tradursi un’interpretazione esplicitata, di mutare se stesso nel setting e nella relazione.

In tutti i casi clinici, abbiamo visto come l’analista abbia prestato se stesso, consapevolmente e inconsapevolmente, per essere nel qui ed ora “un personaggio e un ruolo specifico … della storia e del mondo interno del paziente”, affinché questi potesse in futuro riappropriarsene.

Aspetto per altro già esplorato da Melanie Klein in “Personification in the play of children” del 1929 (Vigna-Taglianti, 2002; Borgogno, 2011; Borgogno, Vigna-Taglianti, 2008, 2013). Così facendo l’analista può giocare il ruolo ora di oggetto vecchio ora di oggetto nuovo (Nicolò, 1992; Mitchell, 1993; Greenberg, 1986, 1996): per permettere al paziente nuove esperienze strutturanti e mutative. Questa esperienza  è collocata nella coppia analitica mutando la qualità dei vissuti e della relazione ancor prima che l’interpretazione ne suggelli la comprensione e l’elaborazione.

L’interpretazione è allora il momento successivo in cui l’analista si ritira dentro la sua mente e riprende la posizione asimmetrica. Esso a mio avviso corrisponde in un modello winnicottiano ad una sorta di disillusione dell’unità raggiunta pari alla disillusione che la madre dà al bambino e che gli permette l’accesso alla realtà.

Di fronte alla necessità di curare certi pazienti difficili che ci obbligano a questi cambiamenti, possiamo anche preoccuparci intorno a cosa ci resta della psicoanalisi classica, quella a cui le generazioni più vecchie sono state educate. Personalmente sono convinta che al di là di ogni mutamento c’è un nucleo prezioso che l’analista custodisce dentro di sé. Esso consiste nella capacità di mantenere un setting internalizzato e una funzione analitica della mente. Esso consiste nell’oscillazione necessaria che l’analista ha tra la sua attenzione liberamente fluttuante, il suo sognare il sogno del paziente e “lo sforzo mentale lieve ma avvertibile” (Winnicott, 1960, p. 208 ed. or., pp. 161-162) che l’analista fa con la sua mente, quello sforzo mentale che gli permette sempre una posizione di neutralità e asimmetria.

La circolarità tra risonanza, reciprocità, intimità e interpretazione  è paradigmatica della tensione dialettica che esiste tra cambiamento della relazione e comprensione di esso.  

In questo caso l’intimità, la risonanza divengono un fertilizzante, per quelle esperienze del paziente rimaste private del significato, e nella nuova relazione si apre la possibilità che nuovi significati appaiono, promuovendo l’espansione della mente.

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