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Pappa M. (2023). Presentazione del libro di Marta Badoni “Prendersi gioco. Una psicoanalista racconta”

Prendersi gioco

Raffaello Cortina ed.

 

Sono felice di poter condividere le riflessioni sulla lettura del libro di Marta Badoni, “Prendersi in gioco”, di recente pubblicazione. Si tratta di un libro che, come ha scritto Di Chiara nella sua bella recensione in Spiweb, è un “trattato di psicoanalisi, in formato condensato, ma di grande chiarezza e profondità”. È il frutto di una lunga e intensa esperienza analitica, un lavoro particolarmente prezioso, che raccoglie scritti inediti, ulteriori elaborazioni di articoli già pubblicati, nuove riflessioni suggerite dal tempo che passa. È un libro, come scrive l’Autrice (p. X), nato per “un gioco di sguardi” e cresciuto in “un fermento di affetti”, proprio a Firenze, il 14-01-2017, alla fine del seminario Agire. Giocare nella psicoanalisi infantile (organizzato dal Centro Psicoanalitico di Firenze, avente come segretario scientifico Benedetta Guerrini Degli Innocenti) insieme a Stefania Nicasi e Alessia Fusilli De Camillis, che hanno contribuito alla sua realizzazione, e che hanno scritto un’introduzione ampia, con una messa in luce delle varie parti del testo.

Il libro si rivela essere originale da vari punti di vista. Innanzitutto perché qui la psicoanalista Marta Badoni ‘racconta’ di sé, in un intreccio tra la sua storia personale, formativa e professionale, dal momento che per lei la vita e la formazione professionale godono degli stessi accorgimenti, in linea con l’idea che nella dinamica del prendersi, che caratterizza l’incontro analitico, entri in gioco la personalità dell’analista, insieme a quella del paziente. Analista e paziente “camminano [come] due viandanti” sulla via del processo analitico, interpreti della trasformazione” (Riolo, 2018). Si intravede poi un costante atteggiamento di dialogo interno tra la psicoanalisi dei bambini e degli adolescenti, e quella degli adulti, così come tra le varie correnti di pensiero in psicoanalisi. Il libro di Marta Badoni ha il grande merito di evidenziare e approfondire i motivi dell’importanza della psicoanalisi infantile per la psicoanalisi tutta, ripercorrendo la storia della psicoanalisi infantile e della formazione in questo campo. Se oggi la psicoanalisi infantile ha risollevato le sue sorti, e non è più oggetto dell’anatema “Questa non è psicoanalisi”, è anche grazie all’impegno profuso da quegli analisti che sono stati molto attivi nella loro produzione scientifica, nella diffusione del proprio pensiero, nell’insegnamento, nelle campagne istituzionali, talora aspre come ‘battaglie’. Negli anni Novanta del secolo scorso Marta Badoni, insieme ad alcuni colleghi, si è adoperata perché la psicoanalisi infantile uscisse dalla condizione minoritaria nella quale era relegata nell’istituzione e nell’immaginario degli analisti, recuperando la piena dignità che le spettava. E di questo siamo tutti profondamente grati e riconoscenti verso Marta. “L’affacciarsi nella stanza d’analisi di pazienti che sanno parlare ma non sanno dire, l’attenzione attribuita agli avvenimenti traumatici dell’infanzia, la crescente importanza data all’intreccio tra intrapsichico, inter-psichico e intersoggettivo hanno creato un ponte tra il mondo dell’infanzia e il funzionamento della mente che è d’obbligo transitare e alla cui costruzione ho dedicato nella nostra società parecchie energie” (p. 36-37). In aggiunta a questo, Marta Badoni, ha rivolto una speciale attenzione al corpo, all’azione e all’agire, con scritti pionieristici, che vengono riportati nel libro. Nell’ambito della formazione, sia nella International Psychoanalytical Association (IPA), come nella SPI, ci è voluto molto tempo e sono occorse tante fatiche perché si arrivasse a concepire l’idea che fosse importante formare analisti dedicati anche al lavoro con bambini e adolescenti. L’Autrice si interroga sulle ragioni di questo lungo travaglio nella storia della psicoanalisi infantile, osservando come in una società dalla forte impronta maschile fossero le donne, e donne dal destino sfortunato, a occuparsi dichiaratamente di bambini. Marta Badoni sottolinea come la recente apertura nella SPI di un Corso di perfezionamento nell’infanzia e nell’adolescenza, rappresenti una conquista, purché l’introduzione di una formazione specifica non incorra nel rischio di “creare un recinto o aree non comunicanti, più che aprire le menti a un dibattito scientifico.. un’area intermedia condivisa da figli, genitori e analisti, ognuno alle prese con la propria infanzia e col proprio infantile” (p. 39). “Più che la distinzione tra una psicoanalisi degli adulti, una dei bambini, una degli adolescenti, dovremmo tenere viva una psicoanalisi che, in quanto centrata sul costituirsi e il modificarsi della psiche umana, debba darsi gli strumenti e le competenze necessarie per intervenire nelle diverse età dell’uomo” (p. 39-40). Mi sembra infine che sia da considerare la scrittura dell’Autrice, una scrittura in continua interazione con il lettore, ricercata e precisa, in cui le parole sono centellinate e ben dosate, usate spesso con una tonalità poetica. Questo è anche il corrispettivo di chi, nel tentare di svolgere la funzione dell’adulto soccorrevole  nel suo lavoro analitico con il paziente, più si avvicina all’origine della vita e della parola, più delicato è il germoglio, è chiamato a un ascolto più sensibile e a un intervento più lieve, per evitare fraintendimenti e chiusure (p. XVII). Il libro è un distillato, e perciò chiede più di una lettura, oltre a essere ricchissimo di contenuti, distribuiti in cinque parti: “Un tempo per accorgersi. Intendere”; “Lo spazio della formazione. Diventare”; “Mettersi in gioco. Risorse e rischi”; “Gli ingredienti della cura. Sapori e dissapori”; “Un tempo per consegnare. Generare”. Un tema cardine è quello del Prendersi in gioco e dell’ INCONTRARSI GIOCANDO, in cui, partendo dal presupposto che “non c’è una cosa come un bambino senza la madre”, ci si addentra nella Teoria del gioco descritta da Winnicott (1971), dove vengono distinti diversi momenti dell’essere con: l’oggetto soggettivo, il momento del va e vieni, lo stare solo in presenza, il giocare assieme. Con Winnicott il gioco e il giocare è diventato un modello del funzionamento della mente, e quindi del processo analitico. Il giocare chiama a sé quanto, sia nell’analista come nel paziente, appartiene alla sua conoscenza relazionale implicita (Stern, 1998), di cui il gioco e soprattutto il modo con cui si gioca (e con cui si) parla è altamente indicativo. Come analisti, è solo mettendoci in gioco che possiamo sapere come sono stati preparati al gioco i nostri pazienti, bambini, o adulti che siano.

La lettura del libro stimola molte riflessioni e domande. Tra le varie questioni affrontate, vorrei concentrarmi su quella dell’intendere e della funzione  dell’intendersi, così come è stata formulata da Freud nel Progetto (1895), una questione che ha accompagnato il lavoro clinico per l’intero arco della vita professionale di Marta Badoni. Si tratta della funzione, propria dell’adulto nei confronti dell’infante, del bambino che è corpo, sprovvisto di parola, che si trova in uno stato di Hilflosigkeit, e che per la sua sopravvivenza dipende completamente dall’ambiente, per cui il soddisfacimento del bisogno viene attuato mediante un aiuto esterno, l’azione specifica da parte di un adulto maturo, che viene indotto a fare attenzione alle condizioni del bambino. Seppur competente, il bambino ha assoluto bisogno di un individuo maturo, consapevole della propria storia, del proprio ruolo, capace di un proprio pensiero. L’individuo maturo è indotto a fare attenzione, e il suo corpo è alterato dalla vicinanza con il bambino. Tutto ciò contribuisce a dare avvio alla funzione dell’intendersi, che in base a quanto dice il vocabolario, corrisponde al “percepire e comprendere, che sono in certo modo l’effetto del tendere l’attenzione”. Sembra proprio che la funzione di rêverie di cui parla Bion (1962), la funzione propria dell’adulto nei confronti dell’infant, rimandi alla funzione dell’intendersi del Progetto di Freud. Sembra che Bion, nel suo sviluppare il concetto di identificazione proiettiva formulato dalla Klein, tenesse bene in mente il lavoro di Freud e l’importanza che Freud attribuisce alla funzione dell’attenzione: il compito dell’attenzione è quello di andare incontro alle impressioni sensoriali, facilitando la trasformazione delle stesse in attività di pensiero. La nozione di rêverie, che Bion mette in relazione alla funzione alfa materna, anche per sottolinearne l’importanza all’esordio della vita mentale, è una funzione svolta dalla madre nell’interezza della sua persona, della sua storia, dei suoi legami affettivi, ed è volta a trasformare elementi sensoriali grezzi che il bambino propone, dando ad essi soccorso e senso. Marta Badoni osserva come, introducendo il termine di rêverie, Bion sia riuscito a comporre una frattura che sembrava destinata a rimanere aperta, tra intrapsichico e intersoggettivo; tra la teoria del sogno e quella del trauma. “Anziché sottovalutare la cesura, Bion se ne lascia impressionare e la indaga, senza dimenticare Freud, forse senza ammettere del tutto il suo debito con Winnicott” (p. 172). La rêverie è una capacità particolarmente complessa, fondata su scambi intrapsichici e interpsichici, per cui l’individuo maturo, mettendo il proprio psichesoma a disposizione dei segnali che l’infante invia, permette innanzitutto all’infante di sentirsi riconosciuto nella sua capacità di comunicare, prima ancora che soddisfatto nei suoi bisogni. Come analisti abbiamo la responsabilità di trattare le nostre rêveries e di metterle a frutto nella relazione col paziente. Spesso nella clinica osserviamo che le braccia salde del setting sono un primo intervento utile a calmare angosce anche profonde. I pazienti sembrano essere consapevoli che il setting analitico sia una promessa di attenzione. L’attitudine alla rêverie pone così analista e paziente in una dimensione intersoggettiva e intrapsichica, in cui occorre una capacità di intrattenersi con il proprio corpo e le proprie emozioni: analista e paziente sono soggetti di un incontro e assoggettati agli accadimenti dell’incontro, dove la psiche dell’uno si riverbera in quella dell’altro, e dove l’analisi dovrà permettere al paziente di trovare e di vivere la propria soggettività. Il lavoro che presiede a questo scambio assomiglia al lavoro del sogno, ed è in sé una attività interpretativa. In quanto sogno è luogo di libertà, in quanto interpretazione, chiama in causa la responsabilità dell’analista (Badoni, 2005). Qui il ruolo del corpo è fondamentale e Marta Badoni ci ricorda che  J. De Ajuriaguerra (1964), in studi pionieristici, ci ha mostrato come il corpo del bambino dialoghi col corpo materno tramite il tono, che entra nella relazione tra infante e madre, ne regola l’intensità, informa sullo stato di tensione dei partecipanti al dialogo, sulla qualità della presenza, sulla disponibilità ad accogliere e a contenere. Il tono è il primo limite e il segnale di un incontro. Il lattante che non vuole abbandonarsi al sonno e si divincola nelle braccia dell’adulto, riesce a rinunciare alla sua ipertonia, a dormire e a sognare, se l’adulto che lo tiene in braccio si fa garante per lui di un limite. Nell’incontro analitico il corpo è in primo piano: “Un corpo, una storia. La virgola che separa l’uno dall’altra segna una pausa di cui non conosciamo l’ampiezza.. Il corpo è espressione visibile e tangibile della realtà della persona, della differenza dei sessi, del susseguirsi delle generazioni; è sede degli affetti… I neonati, all’origine, prima della parola, si presentano con un corpo; così i pazienti: al telefono è la voce, sulla soglia, il corpo” (p. 115). Alle origini c’è infatti un incontro impari, del tutto asimmetrico, tra un individuo che è nudo nella sua corporeità e un soggetto con la propria storia. Avendo come modello la diade madre-bambino di cui parla Winnicott (1965), Marta Badoni pensa che la situazione analitica possa riattivare una forma speciale di esperienza evolutiva, il cui prototipo è la responsività sperimentata nella relazione madre-bambino (p. XX). I pazienti, giovani e adulti, arrivano da noi quando sono perduti i nessi tra corpo e storia, e quando ci sono delle mancanze nel trattare le emozioni, segno che lo stato di incontro non è funzionante. L’Autrice esplora la natura e le regole alle origini di un incontro, le funzioni e le disfunzioni dell’adulto soccorrevole, affrontando temi di particolare interesse, tra i quali quello della clandestinità e del legame tirannico, sui quali vorrei soffermarmi brevemente.

Come esseri umani abbiamo bisogno di essere bene accolti sulla scena del mondo (Ferenczi, 1929), per poter passare dal piacere immediato legato al corpo e alla sensorialità, a un piacere di tipo diverso, mediato da operazioni mentali, attraversando l’ ‘assenza’, in modo da non farne una minaccia insopportabile, ma uno spazio che interroga. Per questo abbiamo bisogno di un adulto soccorritore che intenda e sostenga, e che ci renda possibile il gioco del rocchetto di Freud (1920), cioè il gioco del vivere una funzione di risarcimento, che porta il bambino a far propria l’esperienza del vivere, fatta di scomparse e di ritrovamenti, di assenze e di incontri. È a questo livello profondo che risiede il senso di esistere, quel sentirsi capito in ciò che si prova, di cui hanno parlato Marco Macciò e Dina Vallino (2004). Dunque corporeità e adulto soccorritore sono impegnati a sperimentare uno stato di separatezza, punto di arrivo e di partenza per nuove separazioni. Gaddini (1981) afferma che l’atto cruciale della separazione “non è il momento in cui la madre smette di allattare, ma quello sconvolgente di quando il bambino si accorge di essere separato”. Questo genera spavento, e conseguentemente l’acting out e la clandestinità, che, come nota Gaddini, è parte integrante dei processi di sviluppo, e può essere usata contro, o in funzione del processo. Gaddini (1981) afferma che nel lavoro analitico “La partecipazione al lavoro analitico può aver luogo solo in segreto, in una specie di clandestinità (…). I messaggi inviati dall’Io del paziente (…) sono messaggi in codice per chi sia in grado di decifrarli”. L’analista attento alla sua funzione di soccorritore, dovrà innanzitutto avvertire l’esistenza del clandestino, al di là dei messaggi manifesti, dovrà intendere, sostenere, capire la situazione del clandestino, soppesando bene i modi e i tempi per avvicinarlo. Sarà fondamentale valutare se il clandestino mantiene il dialogo con la collettività, oppure no, rischiando un ritiro senza tempo. Viene da chiedersi come si declini l’incontro con l’adulto soccorritore nelle varie fasi della vita, e che fisionomia possa assumere la clandestinità, che trova il suo momento privilegiato in adolescenza. La clandestinità ha a che fare con il divenire del soggetto, quindi con il processo di soggettivazione, e potrebbe essere vista come una modalità di reagire all’impatto con l’alterità. L’adolescenza è una posizione, oltre che un periodo della vita, un’occasione speciale per riprendere contatto après-coup, col clandestino e operare un’integrazione, per cercare di stabilire un nesso tra corpo e storia. Dunque in adolescenza accanto al mito di Edipo, assume grande rilievo il mito greco della clandestinità (Vidal-Naquet, 1981; Badoni, 1994), mito del doppio e di un altrove segreto, in cui l’adolescente sperimenta, in una esperienza iniziatica, separazione e separatezza. Ne Il cacciatore nero di Vidal-Naquet (1981), il giovane raffigurato in copertina è tratto dalla Caccia notturna di Paolo Uccello: un fragile e oscuro adolescente in groppa a un cavallo ben più potente di lui. Vidal Naquet interroga la società greca del V secolo, alla ricerca di possibili nessi tra organizzazione sociale e struttura del pensiero. Sia ad Atene che a Sparta l’adolescente ha un posto particolare nell’assetto giuridico e nello spazio cittadino. Il cacciatore nero, che lo raffigura, è un simbolo di passaggio. È un passaggio che può essere mancato, esitando in un’adolescenza interminabile, o in destino di imboscamento e di rinuncia. L’adolescente vive appartato al limite della città, la caccia è il suo passatempo, il luogo è la foresta, la sua armatura è leggera, la sua legge l’astuzia, nero il colore della sua veste. Ai margini della sua cultura l’adolescente è clandestino, rispetto alla società da cui proviene e a cui dovrebbe fare ritorno dopo i due anni di vita appartata (Badoni, 2019).  Da un lato, solo nel bosco, mette alla prova se stesso, dall’altro sa di vivere un passaggio e che, al limite del bosco, lo aspetta la generazione degli adulti. Se l’adulto soccorritore non comprende, ma già sa ciò che il bambino prova, il soggetto può esistere solo sottraendosi alle regole dell’incontro, con delle ripercussioni sulle sue capacità percettive. Se il soggetto non è riconosciuto in ciò che prova, non potrà a sua volta riconoscersi. Nell’ottica bioniana, la funzione materna ha una caratteristica che Marta Badoni definisce “iniziatica”, in quanto promuove delle trasformazioni, ma non ne chiede conto. Come sappiamo, nei riti di iniziazione, c’è un tempo in cui l’iniziando è lasciato solo, alla prova della esperienza (Badoni, 1994). Nel pensiero di Bion la colpa è meno presente, e il buon uso del tradimento è nella prassi della capacità negativa come di ogni passaggio trasformativo. La madre non trasmette una conoscenza, ma una modalità di conoscere, una sapienza, nel senso dell’assaggiare. La madre sufficientemente buona è quella che è riuscita a rinunciare a un ideale di perfezione, e che trasmette al bambino il suo modo di avere assaggiato (sapio) il mondo.  Laddove questo non sia possibile, a causa di un deficit di rêverie, ne può derivare una condizione di vulnerabilità, legata alla minaccia più o meno remota che l’incontro con l’altro si traduca in un assalto volto a sopraffare il soggetto. Questo è il caso del piccolo paziente, di cinque anni, che Marta sceglie di chiamare Achille (p. 134), associandolo all’eroe omerico, sull’onda del suo primo disegno (vedi Figura 7 nell’inserto). Si tratta di un eroe nato per una vita breve, come ci dice Omero (Kerényi, 1951), potente e vulnerabile allo stesso tempo, a causa del tentativo estremo della madre di assicurarselo per l’eternità, trattenendo il piccolo per il tallone. La madre dell’eroe omerico rimanda a una madre che fatica a lasciare il figlio al suo destino, e che con lo stesso atto con cui lo vuole suo per sempre, lo consegna a un destino di vulnerabilità. Marta Badoni ci aiuta a comprendere come situazioni come quella del caso di Achille, siano complesse e difficili anche nella relazione analitica, a livello controtransferale. Infatti se l’incontro diventa possesso, a causa di un deficit della funzione di rêverie, il transfert può assumere la forma della tirannia e diventare tirannico (Badoni, 2005). Allora, come indizi di controtransfert, l’analista si trova a provare un sentimento angosciante di oppressione, spesso accompagnato da tensione muscolare, e sente compromessa la sua capacità di pensiero, in balia della concretezza del corpo, a rischio di agire l’ansia. In questi casi la “capacità negativa” (Bion, 1970) dell’analista è spinta al suo limite estremo, avendo a che fare con il sentirsi negato non tanto il proprio funzionamento, ma il diritto stesso di esistere. All’inizio il piccolo paziente Achille, che soffre di incubi notturni, disegna poco, e attira su di sé l’attenzione degli insegnanti per i suoi comportamenti eccitati e aggressivi, sembra non avere valore di per sé per i suoi genitori, sembra non esistere nella mente dei genitori, entrambi in grande difficoltà. A contatto con i genitori, Marta avverte un funzionamento in eco che sostituisce la funzione di rêverie: la madre attribuisce ad Achille una sofferenza soprattutto sua, il padre gli attribuisce un atteggiamento che è ora soprattutto materno. Achille si sente un nulla, minacciato e impotente e per questo violento: l’impotenza senza soccorso e senza comprensione si trasforma in tirannide, e in un transfert tirannico. Nei luoghi della mente questo provocherà l’entrata in clandestinità di aspetti del sé e della relazione tra soggetti. “Il lavoro analitico, ospitando aspetti forclusi del sé, cercherà di conferire a essi diritto di esistenza prima, di parola poi” (p. 134). Dopo due anni circa dall’ inizio, dopo un intenso e impegnativo lavoro, emergono delle trasformazioni cruciali. C’è una seduta in cui Achille comincia subito a disegnare, cosa insolita per lui. E disegna un bambino che è lui, all’estremo del foglio, in cui accanto disegna prima delle note grandi e scure, alle quali aggiunge delle note più chiare, aggiungendo che gli piace cantare. A questo punto dell’analisi c’è un disegno accompagnato con delle parole, con delle associazioni: entra in scena  Achille in prima persona, con il suo corpo, con la la musica e il canto. Aggiungerei anche il ritmo del setting, visto che nel disegno c’è un alternarsi di note dapprima scure, poi chiare, note con un diverso valore musicale e una diversa durata, che si alternano, rendendo possibile una frase musicale.  E poi c’è Achille che sparisce dietro la macchia marrone che va colorando. E  a questo punto l’analista, sorpresa, chiede al bambino “Dove sei finito… in un mucchio di terra?” E lui, altrettanto sorpreso aggiunge: “Sono in una stanza buia, sogno di cantare, la stanza è tutta di legno, per questo ha il colore marrone”. L’analista commenta che sta cercando di farle capire quanta musica ha a sua disposizione, ma forse è un po’ solo in questa stanza tutta di legno”. Qui, di fronte al perdere di vista , al ritirarsi di Achille in un rifugio oscuro e clandestino, l’analista mostra curiosità e sorpresa  (un suo non sapere) nel chiedere ma dove sei finito? In un mucchio di terra? La sorpresa di Marta si intreccia con quella di Achille  e  il disegno assomiglia allora a un sogno fatto in presenza dell’analista. Ecco dunque che sogno e disegno si intrecciano, bambino e analista giocano assieme.   

             

Riferimenti bibliografici

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