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Vigneri M. (2021) – Giovanni Hautmann e la passione del pensiero

 

 


La richiesta di presentare il libro su Giovanni Hautmann e la sua
passione per il pensiero e il pensare1 mi ha fatto molto piacere ma mi ha anche un poco stupito. Il mio rapporto con Giovanni Hautmann è stato personale, discreto e in un certo senso privato.
Ero una analista alle prime armi quando lui divenne Presidente della SPI nel 1986 e seguivo il suo percorso istituzionale e scientifico dalla mia postazione di ultima arrivata con grande rispetto e ammirazione. Era soprattutto l’uomo ad affascinarmi, gentile, autenticamente disponibile, attento al pensiero degli altri. Aveva quasi sempre accanto a sé, specie nelle occasioni conviviali, la sua splendida moglie, una donna alta e sottile, elegante, sorridente, vagamente remota.
Sicché nell’ascoltarlo, le sue parole, i suoi interventi, persino i suoi pensieri erano per me pervasi da quell’aura romantica e leggermente regale che ispiravano quando erano loro due insieme.
I ricordi tratteggiano rappresentazioni pittoriche nella memoria e di lui ne ho soprattutto uno, per me indimenticabile. Non so più in che Convegno fossimo, lui interveniva alla fine e l’uditrio era oramai stanco. Forse proprio per questo, al suo parlare, l’atmosfera si fece rarefatta come fosse un po’ sfumata, e tutti lo ascoltammo in uno strano silenzio ipnotico. Parlava a voce bassa, leggendo infiniti foglietti scritti a mano con un tono pressoché inudibile obbligandoci ad una assoluta immobilità. Parlò a lungo Giovanni Hautmann e la passione del pensiero, a cura di Gabriellini, Lucarini, Nissim, ed. Mimesis, Sesto San Giovanni Milano,2020 delle mistiche del seicento e fu la prima volta che udii un discorso psicoanalitico sull’anoressia che da li a poco sarebbe diventa a uno dei flagelli del mondo occidentale. Il capo reclinato sulla spalla, gli occhi fissi sui suoi lunghissimi appunti, sembrava infondere con le sue ponderazioni una significazione psicoanalitica alla storia, conferendole una speciale profondità ermeneutica. Nel parlare delle testimonianze letterarie di Teresa d’Avila, di Angela di Foligno e di Caterina da Siena, citate nel libro che presentiamo oggi, formulò anche una traccia di pensiero sull’anoressia, allora argomento ancora sottaciuto, ponendo l’estasi mistica e l’estetica al servizio di una trasfigurazione effimera e sublime del corpo. Ne potei comprendere a pieno il senso e il carattere mirabilmente antesignano solo anni dopo. Per questo e per molti altri motivi ho non solo accettato volentieri di presenziare ad un evento a lui dedicato ma ho goduto della lettura del volume che oggi viene presentato, ricavandone direi soprattutto una gradita sensazione di sollievo.
E’ come se dopo un lungo viaggio che porta a visitare terre nuove, talora impervie, turbolente, si tornasse ai luoghi conosciuti e se ne potesse ancora una volta apprezzare la bellezza, la struttura, la tenuta.
Una volta, una formidabile Analista di Training che oggi cede lentamente al procedere della sua lunga età, ad una mia domanda sul Training, mi rispose che ciò che lei riteneva veramente importante nello svolgere le sue funzioni di formatore era riuscire a mantenere viva, nell’altro, la capacità di pensare, mantenere vivo il pensiero.
Vorrei iniziare dunque, in sintonia con il suggerimento di Giovanna Goretti, è lei la carissima collega ed amica cui facevo riferimento, da una frase apparentemente semplice che le curatrici del volume scrivono nell’introduzione, seguendone poi lo sviluppo nelle parole dello stesso Hautmann. Parole e concetti che mi sembra possano riflettersi con una particolare luce anche sul flagello che stiamo vivendo oggi e sul modo di affrontarlo analiticamente. Scrivono le curatrici a pag. 14, in apertura a un discorso sugli elementi emotivo‐corporei del lavoro analitico: “L’esperienza di avere un corpo e l’esperienza di avere una mente appaiono qualità inseparabili del sentimento di essere vivi”.
Consapevole dei molti risvolti di cui il libro è arricchito e di tradirne in parte la complessità nello scegliere un vertice di osservazione, mi accorgo di ritrovare un filo rosso che conferisce all’odierno e citatissimo concetto di distanza una pregnanza, direi un pathos prendendo impropriamente a prestito una espressione nietzschiana.
A più riprese nel libro Hautmann e i suoi scolasti propongono l’analisi come una specifica funzione della mente, un modo di entrare in una relazione mentale con l’altro e con sé stessi: “uno stato mentale aperto alla recezione di tutti gli stimoli provenienti dall’oggetto amato”. Sarebbe come dire che il minuetto relazionale nella vita “è ritmato dai passi di avvicinamento o allontanamento dall’amore per l’oggetto primario”. Il discorso si estenderebbe dunque alla natura essenzialmente libidica dell’essere umano. Ma in questo contesto vorrei porre attenzione specifica a quei passi di avvicinamento e allontanamento cui gli autori fanno riferimento.
“La mente” scrive Hautmann “mi appare quindi come un luogo ove il regno del pensiero e il regno della natura convivono trasformandosi l’uno nell’altro”. In particolare tale convivenza e trasformazione consiste per Hautmann nel processo di simbolizzazione che si costituisce come l’area dove il sottofondo dell’energia fisica viene trasformato in pensiero. Hautmann chiama questo processo “l’organizzazione del Sé e della realtà”
(pag. 31).
E’ questo luogo, per lo più ignoto, di congiunzione, di transito, di trasformazione, che sappiamo dunque debba essere caratterizzato e tenuto in vita da un movimento: “Un movimento è innegabile che sottenda tutta l’attività mentale espressa dalla simbolizzazione. I processi trasformativi in quest’ambito implicano il movimento.” “Tutta l’attività mentale che si realizza nella situazione analitica, sia intrapsichica che interpersonale che
nell’ambito del simbolico, verbale, ideativo, emozionale, percettivo‐corporeo, implica il movimento”(pag. 116). A questo movimento si sintonizza l’analista nel suo fluttuare. Nel bellissimo articolo che di fatto conclude il libro, Hautmann conferisce al setting un valore inusitato, pari, direi riflettendoci, a quello che aveva il segno neuma nella musica antica (dal greco νεύμα: segno, traccia, ma anche da πνεύμα: soffio, fiato o νόμος:
speriamo solo una sospensione, di quell’equilibrio che il setting deve tenere in gioco fra il sensibile, il fantasmatico e la realtà fisica; il fallimento, al momento, di quello che Hautmann chiama vicenda ludica, dell’analisi e della vita stessa …

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