Testo della relazione di A.Ferruta al secondo seminario su “I Profili clinici del narcisismo” (organizzata dal C.P.F. presso il Convitto della Calza – 1? febbraio 2003) che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autrice
1. Soggetti feriti
Il concetto di narcisismo comprende le vicissitudini dei conflitti tra Io e oggetto: l’angoscia narcisistica riguarda oggetti travestiti da oggetti narcisistici. L’oggetto, che pure è lo scopo delle soddisfazioni dell’Es, in effetti per l’Io è sempre causa di squilibrio. Se l’Io aspira all’unificazione con l’oggetto, è vero però che questa riunificazione obbliga l’Io a modificare la sua organizzazione, con il rischio di venire invaso e sostituito dall’oggetto, oppure di precipitare nel nulla di fronte a un’eccessiva distanza o a un allontanamento definitivo dell’oggetto. Afferma Andrè Green (1983): “Il problema dei rapporti tra Io e oggetto è quello dei loro limiti, della loro coesistenza. Questi limiti sono tanto esterni che interni. Voglio dire che i limiti tra Io e oggetto entrano in risonanza e riverberano con i limiti tra Es e Io.” (170)
Egli afferma che le personalità narcisistiche sono soggetti feriti nell’onnipotenza infantile, diretta o proiettata sui genitori. Il desiderio è il movimento attraverso cui il soggetto si decentra: il centro non è più in lui stesso, ma in un oggetto da cui è separato. Per fare fronte alle delusioni inflitte dall’oggetto si prospettano diverse vie: realizzazione allucinatoria del desiderio, identificazione con un oggetto con cui l’Io si fonde facendone un’emanazione di sè, spostamento su altri oggetti sostitutivi che si rivelano egualmente deludenti. Alla fine, nel narcisismo positivo l’Io investe se stesso con le sue pulsioni, realizzando un’indipendenza dall’oggetto, preziosa ma precaria; oppure, nel narcisismo negativo, l’Io opera nella direzione di un abbassamento delle tensioni, fino al livello zero, in una specie di morte psichica. Nel lutto una parte dell’Io si identifica con l’oggetto perduto ed entra in conflitto con le altre parti dell’Io.
Per affrontare la clinica di situazioni narcisistiche abitate da angosce depressive, mi sembra opportuno prima delineare il quadro teorico adottato come sfondo metapsicologico di riferimento. Questo dà anche l’occasione di ripercorrere il pensiero di un autore che ha studiato particolarmente questa tematica: Andrè Green, con il suo testo Narcisismo di vita. Narcisismo di morte (1983).
2. Il pensiero di Andrè Green: Narcisismo di vita. Narcisismo di morte (1983)
2a. Green afferma che parlando di narcisismo, più che per altri punti della teoria psicoanalitica, si può operare una confusione tra la descrizione del fenomeno (ricerca della coesione del soggetto) e il concetto (che implica l’inconscio e lo statuto diviso del soggetto, abitato dagli oggetti interni e scisso). Osserva che il concetto di narcisismo si colloca nell’interregno tra la prima e la seconda topica freudiana (Introduzione al Narcisismo, 1914), come risultante delle libidinizzazione delle pulsioni dell’Io fino a quel momento ritenute rivolte solo all’autoconservazione.
Freud (1920) in “Al di là del principio di piacere” rinuncia alle sue precedenti tesi sull’opposizione tra libido dell’Io e libido oggettuale, a favore del conflitto fondamentale tra Eros e Thanatos, pulsioni di vita e pulsioni di morte. Green si preoccupa di collocare il concetto di narcisismo all’interno della seconda topica (L’Io e l’Es, 1922): le pulsioni di vita, Eros, rappresentano le tendenze del soggetto che operano per la riunione e includono quindi anche il narcisismo come tendenza alla riunificazione con l’oggetto, che può includere anche l’odio nei riguardi dell’oggetto stesso; le pulsioni di morte, Thanatos, operano per la disgiunzione, la divisione, e includono il narcisismo negativo, come ritiro dall’oggetto fino ad arrivare al non desiderio dell’altro, all’inesistenza, al non essere. Quindi Green propone una struttura del narcisismo di vita e una di morte, una nella quale c’è la tendenza all’unificazione con l’oggetto, e una in cui è ricercato l’annullamento dell’oggetto o del soggetto.
2b. Green affronta poi la questione del narcisismo primario e dell’amore primario oggettuale: pensa che la questione sia mal posta. L’amore del bambino per l’oggetto è presente fin dagli inizi ed è incontestabile. Tuttavia questo amore, dal punto di vista del bambino, ha una qualità narcisistica:
“Si può parlare di una struttura narcisistica primaria, caratteristica di forme inaugurali d’investimento, se, con tale espressione, si vuol designare una forma primitiva di relazione in cui tutti gli investimenti partono dal bambino, il che forse può essere distinto dall’autoerotismo che ha già eletto alcune zone erogene sul corpo del neonato. (…) Giacchè ciò che caratterizza il tipo e la qualità degli investimenti è l’indistinzione primitiva soggetto-oggetto, sono incline a pensare che il più antico narcisismo primario inglobi in modo confuso tutti gli investimenti, ivi compreso l’amore primario oggettuale, e persino quello che, per simmetria, potremmo chiamare l’odio primario oggettuale. Dunque si potrà giustamente opporre il narcisismo primario più tardivo, in quanto designante i soli investimenti dell’Io, agli investimenti d’oggetto, solo quando la separazione si è verificata.” (295-296)
C’è un narcisismo primario positivo (riconducibile a Eros), tendente all’unità e all’identità, e un narcisismo primario negativo (riconducibile a Thanatos), che si manifesta con la tendenza dell’Io a disfare la sua unità per tendere verso zero:
“Il narcisismo primario in questa prospettiva è Desiderio dell’Uno, aspirazione ad una totalità autosufficiente e immortale, di cui l’autogenerazione è il presupposto necessario, morte, e al tempo stesso, negazione della morte.”(160)
A volte corrisponde a uno stato di quiescenza assoluta, da cui è abolita ogni tensione, a volte è una condizione di indipendenza dal soddisfacimento, che comporta l’allucinazione negativa della madre, attraverso identificazione e appropriazione di un ideale di massima perfezione, fino all’autogenerazione che sopprime la differenza tra i sessi.
Invece il narcisismo dell’Io è secondario, sottratto agli oggetti: l’avvenuta separazione tra la madre e il bambino è compensata dall’investitura narcisistica dell’Io che cerca di occupare il posto che il bambino occupava nel desiderio della madre. L’Io potrà “proporsi come oggetto d’amore alla parte dell’Es che ha catturato fregiandosi degli attributi dell’oggetto: “Vedi, puoi amare anche me, che sono così simile all’oggetto “. (154) Il narcisismo secondario si configura così come la cancellazione della traccia dell’altro nel desiderio dell’uno, che ha fatto sua la madre come struttura inquadrante, costituendo con l’allucinazione negativa i confini di uno spazio vuoto, nel quale potranno essere ospitati sia gli investimenti d’oggetto che gli investimenti dell’Io. Investimento dell’Io, come serbatoio degli investimenti successivi alla separazione, e investimenti dell’oggetto sono due tappe della costruzione dell’esperienza psichica.
2c. Green osserva che alla base delle angosce depressive in personalità narcisistiche c’è delusione più che frustrazione: l’oggetto rappresenta per l’Io un crocevia, in quanto ricercato dall’Es, che è malato d’oggetto, e quindi è un generatore di tensioni libidiche, di amore e di odio. L’oggetto rappresenta per l’Io una minaccia, perchè, essendo interno all’emergere delle pulsioni, è caricato di tutta la sua energetica e carica pulsionale e quindi l’Io lo può fantasticare come intrusivo, sopraffacente distruttivo; d’altra parte, poichè è anche esterno all’emergere delle pulsioni, non è a disposizione dell’Io, che deve uscire dal suo stato di quiete e andare verso l’oggetto, con angosce di separazione e di annientamento. Infine, l’oggetto ha desideri propri, che coincidono con quelli dell’Io solo parzialmente, in una direzione che non è sempre di reciprocità. L’oggetto può essere troppo presente o troppo assente. In questa alternanza si capisce perchè il narcisismo preferisca l’essere all’avere, anche se pure l’avere rinforza il sentimento di esistenza.
La doppia fonte di tensioni costituita dall’oggetto può essere affrontata seguendo la strada dell’oggetto transizionale o del narcisismo. L’oggetto transizionale è un oggetto reale, ma sul quale l’Io sospende il giudizio di esistenza e che può utilizzare per transitare attraverso la separazione dall’oggetto, trattandolo come una sua creazione: l’orsetto è “come se” fosse la madre. L’attività creativa del soggetto, che sceglie tra i tanti oggetti reali uno che per lui ha il significato di essere come la madre costituisce un ponte tra l’Io e l’altro, media tra impotenza e onnipotenza, tra accettazione della realtà e creazione onnipotente, tra ingresso nel mondo degli oggetti non creati e onnipotenza demiurgica, tra cose e significati. Winnicott afferma che la peculiarità dell’oggetto transizionale è costituita proprio dal fatto che è un oggetto reale, che quindi è sottratto al controllo onnipotente del soggetto. Ma allo stesso tempo è un oggetto che per il suo significato è creato dal soggetto, e costituisce quell’area intermedia nella quale prende forma e forza la soggettività dell’uno e il piacere di incontro con l’altro. Dall’oggetto transizionale non c’è separazione: esso decade progressivamente man mano che viene meno la sua funzione.
L’altra soluzione è costituita dal narcisismo: l’Io trova in se stesso un oggetto d’amore, strutturato sul modello dell’oggetto. Questa narcisizzazione sarà tanto più forte quanto più l’oggetto che era stato investito sarà stato deludente, precocemente. Il soggetto perde la fiducia nell’oggetto, diventato troppo reale prima del dovuto: non gli rimane che contare sulle risorse della fiducia che pone nella propria onnipotenza. Il ritiro narcisistico può comportare affetti depressivi a causa dell’oggetto che delude; o più regressivamente il sentimento di fallimento dell’Io rispetto alle esigenze di un Ideale dell’Io che ha preso il posto dell’oggetto; oppure scissioni di parti di sè proiettate nell’oggetto che diventa persecutorio.
2d. L’amore oggettuale è l’investimento del bambino sulla madre come garante del suo benessere; è un investimento che non comprende solo la soddisfazione pulsionale, ma costituisce anche una funzione elaborativa e trasformativa. L’oggetto esterno svolge il ruolo di specchio, di contenitore, di Io ausiliario. Quando l’oggetto è deludente, l’Io si rifugia nel ripiegamento narcisistico, trovando nell’autoidealizzazione un rifugio protettivo ma precario. Ma se il rifugio è minacciato, va incontro ad angosce narcisistiche: l’Io allora deve difendersi contro le sue pulsioni e contro l’oggetto. Il ripiegamento narcisistico sull’Io megalomane non basta più (narcisismo positivo), e allora il narcisismo diventa negativo: l’Io e l’oggetto tendono a un annullamento reciproco.
3. Una situazione clinica di tipo depressivo in personalità narcisistica. Negazione dell’alterità e impossibilità della dipendenza
3a. Un uomo apparentemente di successo di 40 anni chiede una consultazione: ha una buona professione, una bellissima famiglia, ma è attraversato da forti angosce depressive che si accompagnano a pensieri suicidari: tutto quello che vive è privo di senso. Le serate con amici affettuosi, le vacanze in luoghi incontaminati, il buon vino e i buoni cibi, lo vedono fisicamente presente ma indifferente. Nonostante abbia fatto notevoli sforzi per arrivare a questa condizione di bellezza e di benessere, rispetto alle condizioni di partenza della sua famiglia, si sente sempre inadeguato: vorrebbe mollare tutto, ma non sa che altro fare. Di qui la tematica suicidaria come unica via d’uscita rispetto a un sentimento di impotenza e insoddisfazione. Nessuno potrebbe immaginare questo suo vissuto, perchè agli altri appare come un uomo di successo, particolarmente abile a intervenire e a risolvere qualsiasi problema degli altri, capace di organizzare serate e uscite. Ma tutta la sua vita è una fatica che lo ha stancato. E’ sfinito, e vuole gettare la spugna. Arriva alla consultazione riluttante, con un profondo senso di umiliazione e di vergogna, poco convinto che possa servire a qualcosa.
3b. Nei primi colloqui riesce ad essere interessante e stimolante per l’analista, che controtransferalmente si sente vivificata e arricchita dal rapporto con lui. E’ proprio questo il primo elemento che permette di costruire un’alleanza terapeutica: l’uso del controtransfert per cogliere la capacità del paziente di tenere in vita l’altro, a prezzo di una sua progressiva tendenza alla morte psichica. L’emozione controtransferale, il suo utilizzo per cogliere la dinamica transferale che il paziente ha inconsciamente attivato, la comunicazione di questo, costituiscono elementi importanti per stabilire l’alleanza terapeutica con un paziente difficile da raggiungere, abituato a risolvere lui da solo tutti i problemi. I primi incontri sono un aspetto importante e quasi decisivo per il trattamento di questi casi.
3c. Nel corso dell’analisi, si manifesta sempre più chiaramente la condizione di sfinimento di G.: il suo Io appare impoverito da un’attività estenuante volta a tenere in vita gli altri, un lavoro di Sisifo, che ha anche la motivazione di tenere in piedi un’immagine onnipotente di sè. Il cibo che gli viene dalla famiglia e dalle cene con gli amici viene ingoiato e vomitato, sostituito poi da due spaghetti che si cucina nella notte; anche il sonno è indotto da lui attivamente ricorrendo a sonniferi. Il successo con le donne si inscrive anch’esso in questa modalità che lo vede alimentare il piacere altrui, sulla base di un sentimento di onnipotenza autarchica. Nessuna situazione lo arricchisce e lo nutre: resta isolato in un’autosufficienza narcisistica che oramai non riesce più a sostenere.
Il venire in analisi è accompagnato da sentimenti di umiliazione e di vergogna: non avrebbe mai pensato di potersi ridurre a trascinarsi fino allo studio di uno strizzacervelli, consapevole di non farcela più a vivere, ma anche con un senso profondo di sconfitta.
Il fatto di avere bisogno di un altro non è per lui un rimedio desiderabile, ma è la fonte stessa della sua vergogna e disperazione: interpretazioni su questo registro sono un ulteriore fattore infiammatorio di una situazione già grave. Il silenzio, modalità analitica classica, finisce per confermare ancora di più la sua convinzione di essere solo e senza speranza.
Io impoverito, vergogna per il senso di impotenza, isolamento, costituiscono difficoltà che ostacolano la possibilità di raggiungere il paziente. Sono casi che sollecitano lo sviluppo della teoria e della tecnica psicoanalitiche.
3d. Dal punto di vista della tecnica, si tratta di sapere individuare e riconoscere nel paziente un soggetto sofferente. L’intolleranza alla dipendenza non può essere ributtata addosso al paziente, ma occorre cogliere la qualità particolare della sofferenza narcisistica che ha finito per infiltrare tutti i suoi investimenti.
Come analista quindi occorre intervenire per cogliere i momenti di sofferenza del soggetto, a cominciare da quello di dovere venire a consultare qualcuno. Insieme a questo si tratta di evitare una comunicazione che induca alla confusione tra soggetto e oggetto, in una specie di comprensione diffusa, che appena uscito dallo studio perderebbe. Al contrario, è opportuno sottolineare che accanto alla sua sofferenza senza nome c’è qualcuno, l’analista che la individua, senza cancellarla o attenuarla. A lungo G. dice che per lui venire in analisi è come sostare per un’ora su una panca. E allora gli dico che la panca c’è, una panca umana, che in certi momenti serve ed è preziosa. In casi come questo è richiesto all’analista di essere un oggetto che si mostra vivo e capace di sentire, di dare voce ai sentimenti di un soggetto spesso muto, congelato, quasi morto, come il Cristo della Pietà di Michelangelo a S. Pietro, che gli piace molto. Gli dico che sente che lasciarsi andare al piacere di riposarsi, abbandonandosi finalmente a qualcuno a cui non è lui a pensare, vorrebbe dire morire, per quanto riguarda il senso di sè soggettivo e condiviso. Questi interventi in cui io sono viva e non deve essere lui a tenermi in vita ci accompagnano in un viaggio attraverso lo scongelamento di una parte di sè mantenuta bloccata e isolata rispetto al contatto con l’oggetto.
Altra modalità tecnica riguarda il fatto che l’Io impoverito dal lavoro infinito di tenere in vita l’altro, è un Io scisso, che ha lasciato parti preziose di sè fuori dal contatto con l’altro, fuori da un processo di sviluppo. Una situazione di onnipotenza infantile si è congelata ed ha impedito che altri aspetti scissi entrassero a fare parte dell’Io nutrendolo, arricchendolo e sviluppandosi secondo percorsi di esperienza e di crescita. Il lavoro dell’analisi assume così la qualità di percorso di sviluppo e di crescita di parti scisse, mai esposte al contatto vivificante con l’altro. Per procedere in questo senso occorre che di fronte a sviluppi l’analista metta in evidenza che la comprensione di qualcosa è avvenuta perchè il paziente si è fatto capire, ha dato il suo personale contributo. E’ una tematica approfondita da Gemma Corradi Fiumara (1976), che osserva che occorre rivolgersi al paziente non solo come persona che soffre, ma che vuole evolvere:
“La graduale elisione delle barriere solipsistiche deve essere consapevolmente vissuta come una viva risposta al nucleo più valido del paziente, che vuole esprimersi e che vuole fare capire la condizione della personalità nel suo insieme. (…) L’analista gli offre un’interpretazione perchè il paziente, con i suoi abili messaggi, è riuscito a fargli capire qualcosa di importante; in realtà il terapeuta non può non rispondergli perchè il soggetto stesso è riuscito a farsi capire.” (111-112).
In questo modo si sviluppa il potenziale evolutivo dell’Io al fine di integrare rimozione e scissioni come arricchimento ed espansione strutturale: i legami oggettuali possono diventare elementi di strutturazione dell’apparato psichico. Le interpretazioni che discendono dalla mente dell’analista sul paziente hanno invece l’effetto di umiliarlo e farlo sentire ancora più impotente: è davvero un lavoro che deve nascere da un intreccio comune, un incontro sessuale delle menti, come dice Ferro (2002).
3e. Attraverso queste modalità si avvia il rapporto terapeutico con il paziente, seduta per seduta: la dipendenza diventa tollerabile, perchè l’oggetto analista segnala di essere in vita anche senza l’alimentazione del paziente; ma allo stesso tempo quello che accade, uno sviluppo e una crescita, è creato dalla presenza e partecipazione viva del soggetto. I sogni sono un elemento elettivo di questo percorso, perchè sono una creazione del soggetto che si produce nella situazione analitica in cui c’è il rapporto con un altro che lui non deve sostenere, ma che è presente con interesse e partecipazione. (materiale clinico: il sogno del maialino).
Arriva anche un ricordo infantile che fa da fossile-guida di una configurazione mentale che sta alla base dell’organizzazione narcisistica, del blocco nello sviluppo, del senso di morte psichica. Il paziente G. ricorda che quando da bambino era nel letto con la mamma, mentre il padre era assente e lontano, quasi di nascosto appoggiava la testa sulla sua spalla.
Questa possibilità di appoggiare la testa sulla spalla di qualcuno finalmente emerge nell’analisi, con la percezione di avere dovuto dissimulare il suo desiderio e bisogno di appoggio e abbandono sotto la mascheratura di essere uno già grande, che prende il posto del padre, Così l’onnipotenza pseudoadulta, la pronta intelligenza, la capacità di risolvere ogni problema, hanno isolato e lasciato bloccata quella parte di sè che poteva crescere ed operare in modo vivace e autenticamente identificatorio. Solo di nascosto, di straforo, emerge tale esigenza. Per il resto, la sua vita psichica si è sviluppata in una configurazione nella quale a un padre assente si affiancava una madre che non investiva il bambino di interesse, ma era concentrata sul proprio narcisismo che il bambino doveva contribuire ad alimentare.
3f. Il caso è un’efficace esemplificazione della configurazione descritta da Green (1983) come “la madre morta”, tipica delle situazioni narcisistiche. La madre è morta non nel senso fattuale, ma nel senso che non è viva nel rapporto con il bambino, non lo investe affettivamente, ma è persa in un lutto o in un altro investimento. Tale disinvestimento materno trascina il bambino in uno stato psichico di non vita, sotterrando una parte del suo Io nella necropoli materna. Green ne parla come di una depressione bianca, intendendo per bianco il blank inglese: qualcosa che doveva esserci e che è assente. Si tratta dell’esperienza del bambino di un disinvestimento massiccio da parte dell’oggetto materno, che lascia nel soggetto dei vuoti, dei buchi, dei blank Il bambino porta la traccia del rapporto con un oggetto che è triste e che non ha interesse per lui. E’ una madre presente ma morta psichicamente per quanto riguarda l’investimento del bambino: è lui che deve attivarsi per sopravvivere, come G. che furtivamente appoggia la testa sulla spalla della mamma o si trascina, di nascosto anche a se stesso, nello studio dell’analista per usufruire furtivamente della sosta su una panca.
La madre assorbita in altro (un lutto o un uomo o altro ancora) costituisce per il bambino una situazione di perdita di amore, di senso e di profonda impotenza. Allora L’Io attiva le difese, di cui la più importante è il disinvestimento dell’oggetto materno e di tutti gli affetti e l’identificazione inconscia con la madre morta secondo una modalità primaria. Il bambino diventa la madre, senza averne elaborato separazione e lutto. Come G., il bambino diventa la madre ed esiste un solo oggetto: di fatto gli viene proibito di essere, proprio come sente G., che provvede in modo onnipotente all’esistenza di altri a prezzo della sua non esistenza come persona reale con affetti e esigenze.
Green afferma che in questi casi il soggetto non può deviare l’aggressività all’esterno, a causa della vulnerabilità dell’immagine materna; può pensare, in una triangolazione precoce, che il padre sia il responsabile della tristezza della madre. Verso di lui scatena odio secondario e disprezzo. Si instaura una ricerca di piacere sensuale puro, piacere d’organo, per l’impossibilità di amare l’oggetto. La ricerca di un senso perduto sollecita lo sviluppo precoce di capacità fantasmatiche e intellettuali dell’Io, in una specie di coazione a pensare. Performance e auto-riparazione si sviluppano spesso brillantemente come espressione di tentativi di sostenersi: un Io bucato, che non ha affrontato separazione e lutto dell’oggetto, a cui si è sostituito. Al centro del soggetto c’è una ferita, una sofferenza psichica legata al disinvestimento massiccio da parte dell’oggetto, replicato poi, con una simmetria reattiva, nella incapacità di investimento. Il soggetto non dispone delle cariche necessarie per l’instaurarsi di una relazione oggettuale durevole e per un impegno personale profondo che richiede la cura dell’altro:
“Sia la delusione dell’oggetto, dunque, come quella dell’Io, mettono necessariamente fine all’esperienza, con la ricomparsa del sentimento d’insuccesso e d’impotenza.” (279)
E’ impossibile gioire: il soggetto è prigioniero, occupato al centro di sè dalla madre morta, che aveva portato via, con il disinvestimento, l’amore di cui era stata investita. Il soggetto si è identificato con il buco lasciato dal disinvestimento. Green indica tre modalità per affrontare questo blank: mantenere l’Io in vita con la ricerca di piacere eccitante e di senso; rianimare la madre morta cercando di suscitarne l’interesse; competere con l’oggetto del lutto nella triangolazione precoce. Resta il nucleo congelato di amore per la madre morta, mentre altri aspetti della personalità si sviluppano.
Nell’analisi è opportuno utilizzare il setting come spazio transizionale in cui l’analista si muove come oggetto vivo e interessato a stabilire legami associativi. L’analista deve dare vita alla parte del bambino identificata con la madre morta. Se la madre si risveglia, il paziente è diviso tra la sofferenza in presenza e la sofferenza in assenza della madre: deve attraversare tutte le vicende della separazione dall’oggetto.
“La scomparsa dell’oggetto materno, trasformato in struttura inquadrante, si realizza quando l’amore per l’oggetto è sufficientemente sicuro da svolgere un ruolo di contenitore dello spazio rappresentativo.” (294)
L’Io non si accanisce più a trattenere l’oggetto primario confondendosi con lui e rivivendone ripetitivamente la perdita, con senso di insufficienzanarcisistica, ma si costituisce come serbatoio degli investimenti successivi alla separazione.
4. Una situazione clinica di onnipotenza narcisistica: Intolleranza della scena primaria e fantasia di autogenerazione
4a. Un’altra esemplificazione clinica è invece di qualità opposta: si tratta anche qui di un giovane uomo, questa volta agli inizi della carriera, che per mantenere un’immagine narcisistica di sè come speciale e unico e superiore, evita qualsiasi esperienza depressivogena, utilizzando massicciamente meccanismi proiettivi. Il risultato è che l’agognato sentimento di autosoddisfazione non è mai adeguato e i meccanismi proiettivi che ne attribuiscono le cause ad altri si ripetono in modo unico e ripetitivo, al limite del non riconoscimento dell’esame di realtà. In questo caso, non ci sono problemi per la definizione clinica dei meccanismi di funzionamento del paziente D.: appare immediatamente evidente che si tratta di una personalità narcisistica, in cui prevalgono meccanismi proiettivi, al servizio di mantenere un’immagine speciale e unica di sè. Non c’è posto per l’oggetto, con il quale è magicamente confuso: ogni smentita viene rigettata e tenuta fuori con il diniego.
I problemi di tecnica sono invece complessi: i tentativi dell’analista di mostrargli queste modalità di funzionamento in seduta (ritardi, dimenticanze, etc.) vanno a cozzare contro un muro. Non c’è posto per un altro: tutto quello che accade è regolato dall’attività onnipotente del soggetto che attribuisce a sè il positivo e annulla o proietta all’esterno il negativo. L’analista è magicamente riassorbita in lui, indistinta, idealizzata come parte del suo funzionamento. Gli interventi differenzianti scivolano via e sono sentiti come parte di un rituale, di una commediache l’analista deve recitare, ma il vero significato della scena lo tiene lui in mano: una condizione mentale onnipotente contro ogni tentativo di incrinare la perfezione narcisistica.
4b. Anche in questo caso, l’analista si trova di fronte a un’impasse relativa alla tecnica: non può intervenire con interpretazioni precoci delle proiezioni, che ferirebbero un narcisismo vulnerabile che si mantiene con queste difese; d’altra parte non può semplicemente offrire un rispecchiamento che faccia da sostegno a un’onnipotenza infantile che si scontra continuamente con le prove della vita e che si manifestata attraverso attacchi di rabbia. Il silenzio potrebbe durare cent’anni e finirebbe per funzionare da conferma di una perfezione narcisistica in attesa solo di essere riconosciuta da qualcuno che dia la conferma di quello che già esiste, senza aspettarsi nulla da processi di sviluppo e da vicissitudini legate all’incontro con l’altro. Le cose sono a posto sin dall’origine.
Per descrivere questa situazione, ricorro a una sequenza del film di Sergio Leone C’era una volta in America, che mi è stata ricordata da un paziente (impariamo sempre dai pazienti, come ci segnala la dedica di Winnicott (1971) a Gioco e realtà: “Ai miei pazienti che mi hanno pagato per insegnarmi”). Il boss mafioso interpretato da Robert De Niro, sgominato dalla banda rivale ma sopravvissuto al periodo di reclusione, torna a New York dopo molto tempo per riprendersi quello che gli era stato portato via. A chi lo riconosce e gli chiede: “Che cosa hai fatto tutti questi anni?”, risponde: “Sono andato a letto presto”. Ecco, talvolta con le patologie narcisistiche l’analisi non procede e ci si trova in situazioni di stallo: la mente analitica non lavora in una condizione onirica di associazioni libere e di attenzione fluttuante, si trova imprigionata. Il paziente arriva e “va a letto presto”, ripetendo le stesse modalità difensive, in attesa che quello che è suo gli venga confermato. Non c’è sviluppo, il che richiederebbe l’elaborazione depressiva di sentimenti di mancanza. Basta aspettare.
4c. (Segue l’esposizione di materiale clinico)
4d. Per questo caso la lezione di Stefania Turillazzi Manfredi (1998) è esemplare. L’Autrice mette in luce che, se l’interpretazione dell’analista si limita a mostrare al paziente il bisogno di amore, la sete di potere, l’invidia o la rabbia, si corre il rischio di confermarlo nella sua autosvalutazione. Occorre dire al paziente che l’analista si rende conto che lui sta cercando di sfuggire a penosi sentimenti di dipendenza e autodisprezzo, dovuti al fatto che è stato ferito e che non sapeva come esprimere la sua disperazione senza correre il rischio di essere abbandonato. E ancor oggi teme che questo gli accada per avere ferito il narcisismo dell’analista. Ma soprattutto la Turillazzi mette in evidenza che il muro narcisista che rende il paziente inaccessibile (come aveva detto Freud ricorrendo alle metafore dell’ameba che emette e ritira i suoi pseudopodi,) è un fenomeno di campo, è una situazione che non appartiene solo al paziente, ma che si costruisce anche all’interno della situazione analitica. Infinite collusioni tra analista e paziente possono contribuire a consolidare questo muro di inaccessibilità, proprio come nel caso di D. Qui il narcisismo dell’analista ha infiltrato la scena dell’analisi e anche l’analista è diventata l’inconsapevole sostenitrice dell’illusione che si può fare a meno dell’altro: era un caso così chiaro, tutto tornava perfettamente! Solo la possibilità di tollerare ed elaborare un suo autentico sentimento depressivo ha permesso di sgretolare il muro del narcisismo e di fare ancora una volta l’esperienza che anche l’analista non era la generatrice unica della scena primaria della mente, il luogo nel quale si generano significati ed esperienze vitali, che ogni volta richiedono il contributo che viene da un oggetto che smentisce l’autosufficienza del soggetto.
5. Conclusioni
Per trasformare l’organizzazione narcisistica della mente, occorre favorire la formazione di condizioni per un assetto interno atto ad ospitare gli altri. Talvolta gli altri sono completamente assenti, come nel caso di G., sfinito dalla fatica di tenere in piedi il mondo con la sua onnipotente autosufficienza solipsistica. Altre volte gli altri ci sono, ma nella forma di una gang di mafiosi, come pensieri che hanno il compito di rafforzare l’immaginaria autosufficienza e onnipotenza,
La nuova organizzazione della mente deve trovare un assetto in cui ci sia un posto per gli altri (Di Chiara, 1985), che non annientino il fragile narcisismo del soggetto. In un sogno G. si rappresenta di notte, a letto con una donna, con una band jazz che suona e che al mattino rapidamente raccoglie i suoi strumenti e se ne va. Mi sembra una bella immagine, e così l’ho interpretata, di un lavoro analitico nel quale l’analista o il paziente non si elidono reciprocamente ma suonano come solisti di una band che accompagna il lavoro onirico della mente con i suoi accoppiamenti possibili, in un reciproco riconoscimento di individualità e di “accordo musicale” (attunement).