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Sessarego A. (2006). La distanza nel controtransfert

Testo presentato ai SEMINARI CLINICI 2006 DEL CENTRO PSICOANALITICO DI FIRENZE sul CONTROTRANSFERT, Accademia Toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”, Via S. Egidio 23/1 Firenze – Sabato 1 Aprile 2006

Ad Annalise

Ho avuto la tentazione di aprire questo seminario con un bellissimo brano di Bion tratto dai “Seminari Brasiliani”. Rileggendo però il lavoro di Winnicott “Il controtransfert” ho trovato un passo che spiegava in modo chiaro, e per me ampiamente condivisibile, quello che succede ad un analista in seduta. Ho avuto la tentazione di leggervi anche quello. Non si può evitare di citare diversi autori, ma ho pensato che il gran numero di studi su questo argomento, interessanti e per così dire progressivi, nel loro svolgersi, hanno un senso se scelti, letti e riflettuti alla luce delle proprie esperienze. Quindi quello che io posso portarvi qui non sono e non potrebbero essere le loro parole, ma ciò che io ho letto nelle loro parole.

Un’ampia rassegna degli studi sull’argomento la possiamo trovare su un testo classico: I Fondamenti della Tecnica Psicoanalitica di H. Etchegoyen.
Il progressivo importante affermarsi della presa di coscienza che i sentimenti sono presenti nell’analista (al di là delle soluzioni tecniche che ogni autore poi ha dato nel lavoro clinico), comincia con i contributi storici di P.Heimann e H. Racker negli anni cinquanta. Si è trattato e si tratta di una discussione sempre aperta, a tratti conflittuale, che pur nella sua varietà non può che approdare a costituire un “terreno comune” della psicoanalisi (Gabbard 1995).

E’ evidente dallo sviluppo storico che fin dall’inizio c’è stata una difficoltà a pensare ai sentimenti dell’analista. Tutti gli elementi del problema erano già presenti in Freud. La metafora dell’analista come specchio reso opaco proprio dalla presenza di un ostacolo, rappresentato dai fattori controtransferali che disturbano la capacità di osservazione, pur così nota, è forse troppo facilmente citata ad esempio di come Freud volesse tenere fuori i sentimenti dell’analista. Radicalizzando questa posizione si è potuta leggere anche come una prescrizione di indifferenza, piuttosto che di astinenza. Sono note le difficoltà che la psicoanalisi aveva allora ad affermarsi dato il particolare materiale di cui si occupava. Il problema dei sentimenti, la loro relazione con i pazienti, coinvolse infatti anche alcuni dei pionieri dell’ analisi. Schematizzando molto potremo dire che, in senso più strettamente freudiano, l’analista era concepito come colui che provava un diffuso sentimento di benevolenza verso il paziente. Questo era frutto anche di una formazione che aveva funzionato. Contemporaneamente a Freud, Ferenczi pur non occupandosi di dare una definizione di controtransfert, lo metteva in evidenza nella sua scelta tecnica, in quanto interagiva emotivamente col paziente. L’idea che le “macchie cieche” dell’analista, i residui della sua nevrosi, fossero conosciuti dal paziente e addirittura avessero un ruolo nel trattamento, ci riporta a concezioni anche molto attuali. Allora se usiamo un senso più “ferencziano”, l’analista può riconoscere di provare una gran quantità di sentimenti, che in certe situazioni possono anche essere comunicate al paziente per rendere più umana la relazione (Ferenczi 1921). Già dagli inizi si vede quella che sarà la successiva molteplicità delle posizioni su questo tema.

Una novità delle tesi sul controtransfert degli anni cinquanta (Heimann 1950, Racker 1951), era l’idea che questo rappresentasse, nella situazione analitica, l’intera risposta emotiva (quindi tutti i sentimenti e le fantasie) dell’analista al paziente. Si andava così verso una concezione dove tutti i sentimenti provati dall’analista erano ammessi. Ci si avvicinava un po’ anche all’idea che quello che avviene nella stanza d’analisi è tra due persone e che entrambe vi partecipano con i propri sentimenti. L’altra novità riguardava il controtransfert come “creazione del paziente” (Heimann, 1950), effetto del transfert, quindi utilizzabile come fonte di informazione sull’assetto mentale del paziente stesso. Il passo avanti di questa concezione è senz’altro rappresentato dal fatto di accettare pienamente il controtrotransfert come fenomeno. L’analista ha sentimenti ed emozioni sempre e con ogni paziente e con questi sentimenti deve in qualche modo fare i conti. Il passo indietro, per così dire, è pensare che l’analista possa funzionare soltanto da recettore alle proiezioni del paziente. Questa un po’ ripropone la visione dell’ analista specchio, nel senso che i sentimenti provati non oscurano più la mente dell’analista, possono essere compresi, gli si attribuisce una origine e possono essere utilizzati per interpretare (Turillazzi Manfredi 1994). L’interpretazione in questo caso però segue un po’ troppo da vicino la comparsa del fenomeno. Detto in un linguaggio un po’ più crudo, l’analista non li riconosce come suoi e può rinviarli al mittente.

Si fa strada negli anni ottanta l’idea che una parte costitutiva del fenomeno controtransfert sia legato alle dinamiche interne, ai conflitti, alla storia dell’analista stesso. Ne entrano così a far parte gli aspetti transferali dell’analista verso il paziente (o se vogliamo essere più patologici la nevrosi dell’analista). Il controtransfert quindi nella sua accezione più ampia è costituito da questi due elementi, ma il poterne distinguere le componenti appare una impresa pressochè impossibile (Pick 1985), così come riuscire ad eliminarne una delle due. Dobbiamo pensare che per quanto l’ analista sia esperto ed allenato potrebbe non essere così veloce, magari anche perchè sotto la pressione di ciò che prova, a capire e poi distinguere che parte ha avuto il paziente nel provocare questo dentro di lui. D’altra parte qualunque cosa il paziente provochi dentro di lui, non potrà mai essere totalmente una creazione del paziente perchè il modo in cui l’analista risponderà sarà comunque legato al suo funzionamento mentale. Nel senso che ognuno di noi risponde con quello che ha (Faimberg 1992, Turillazzi Manfredi 1994).
In certi momenti dentro di noi, come analisti, possiamo trovare una gamma di sentimenti che possono apparirci innaturali, che magari violentemente si impongono alla nostra coscienza. Tutto questo provocherà una nostra personale reazione verso questi sentimenti. Questa reazione è la parte “più” personale di tutto il processo, perchè dipende dalla persona analista, dalla sua storia, da che tipo di rapporto ha con se stesso.
Un argomento affascinante, sul quale c’è dibattito è proprio l’analista come persona.

Vi accenno qualcosa perchè riguarda molto da vicino il tema di cui ci stiamo occupando. Un numero monografico della Rivista di Psicoanalisi nel 2003 è stato dedicato all'”Analista in persona”. In questo numero compare un lungo ed appassionato articolo di Davide Lopez, dove, tra le altre cose, viene ripreso il tema/problema del transfert dell’analista e della necessità di divenirne consapevoli. Il transfert dell’analista qui viene pensato come subdolo e difficile da scoprire, perchè non legato ad una manifestazione episodica con un paziente, ma piuttosto ad una disposizione generale preconscia, connessa con il proprio modo di essere e di pensare. Questa condizione può portare l’analista, in alcune situazioni di difficoltà, a perdere l’identificazione soggettiva con se stesso. Nell’articolo viene poi tracciato quello che è chiamato “transfert personale”, cioè un tipo di transfert dove l’analista trasferisce sul paziente le istanze di risanamento coincidenti con quelle parti del paziente che in effetti volevano risanarsi. In questo tipo di transfert, sostiene sempre Lopez, l’analista può provare tutta la gamma della emozioni umane, ma in forma attenuata, e la disposizione prevalente che ne deriva sarà allora di “amorevole piacevolezza e di lieve umorismo”. Mi sembra che torni in altra forma, senz’altro poetica e leggera, una visione dell’analista pensato come una persona che ha risolto molte cose della propria vita, e che ha raggiunto uno stato di equilibrio piuttosto stabile da cui sembrerebbe non muoversi. In questa dimensione sembra però vadano perdute le possibilità della differenziazione, tutta la ricchezza dei confronti non solo rispetto al paziente, ma anche rispetto alla relazione ed a se stesso. D’altro lato è assolutamente evidente che gli psicoanalisti appartengono a “mille varietà di razze” (Bolognini 2003), imparentate dal percorso formativo. Parentele che si confermano nei percorsi istituzionali delle società o nei gruppi di appartenenza, ma che soprattutto sono mantenute con una continua “frequentazione” ed elaborazione delle teorie, mentre non troveremo mai due analisti uguali nel modo di lavorare.
Quindi è proprio il tipo di reazione che l’analista ha verso i sentimenti provati che potrà condizionare la sua risposta al paziente. Utilizzare il controtransfert per una immediata restituzione al paziente, anche se attraverso una interpretazione, può far evitare una esperienza emotiva più profonda. Sono quindi queste reazioni che devono essere elaborate perchè altrimenti non sarà possibile “tollerare il controtransfert” (Turrillazzi Manfredi 1994).

Tollerare il controtransfert non significa riuscire sempre ad analizzarlo, può anche significare più semplicemente comprenderne la presenza e poterlo pensare come parte di un processo di sviluppo. Consciamente ed inconsciamente il paziente “registrerà” comunque questa posizione dell’analista, il compimento dell’intero processo consisterà nella possibilità per il paziente di acquisire questa stessa capacità verso quello parti di sé che gli erano intollerabili. Tutto questo mi sembra strettamente connesso alla funzione dell’ascolto. E’ nell’ascolto analitico che si apre uno spazio per l’altro, è attraverso l’ascolto che possiamo sapere su che terreno ci stiamo muovendo, cogliendo i segni che il paziente può darci. Questa funzione deve sempre mantenersi attiva per garantire al paziente quello forse è il suo primo diritto.

COMMENTO
Un analista è tale nel momento in cui si trova con un paziente all’interno di un setting, è lì che agiscono le armi specifiche della psicoanalisi che crediamo efficaci per curare l’altro. Pensare che di queste armi faccia parte anche la considerazione che l’analista ha una maggiore maturità affettiva rispetto al paziente, o almeno rispetto alle aree di cui ci si deve prendere cura, è ciò che ci impone un lavoro di elaborazione di pensiero costante rispetto a tutto ciò che emerge.
Possiamo tentare di riassumere così la situazione: benchè ci sia stato un sostanziale cambiamento nel modo in cui il controtransfert viene oggi considerato, da ostacolo a strumento di comprensione, l’uso che ne possiamo fare è complesso.

Il controtransfert è una variabile per sua natura, che attinge da un patrimonio sia conscio sia inconscio, tutte le operazioni mentali che l’analista fa con il paziente possono essere solo in parte conosciute. Dobbiamo quindi metterci in contatto con questo fenomeno, tollerarlo, elaborarlo, utilizzarlo, con la consapevolezza che se ci teniamo troppo ancorati alle nostre convinzioni potremmo non riuscire a conoscerlo. Sicuramente non è possibile lavorare né capire senza una qualche teoria, ma quello che può produrre una qualche opacità, per tornare ad un termine freudiano, non sono le teorie, ma piuttosto il nostro desiderio di vederle confermate o confutate. Questo davvero può portarci fuori strada, non solo impedendoci di cogliere quello che sta avvenendo, questo ce lo segnala il paziente costantemente , ma anche quello che potrà svilupparsi.

Un’altra delle armi specifiche che l’analista non dovrebbe mai lasciare è l’autoanalisi. Pur senza pensare che possa essere strumento risolutore per sciogliere quel nodo rappresentato dalla duplice formazione del controtransfert, questa contribuisce a costituire qualcosa di nuovo e di inedito all’interno della storia e della relazione col paziente. A questo proposito vorrei richiamare qualcosa di questo concetto così come lo descrive Bollas.

Bollas sottolinea l’importanza dell’elemento autoanalitico ed intende con questo “la creazione della capacità di ricevere notizie dal sé”. Quello che in un senso più comune potremmo definire la capacità di introspezione. Quando una persona diviene paziente, e questo appartiene alla nostra formazione di psicoanalisti, accetta l’esistenza del suo disagio, della malattia, creando così uno spazio che permette l’arrivo e l’esistenza delle sue parti disturbate, ed attraverso questo l’ esperienza del proprio essere. L’arrivo di notizie dai sogni, dai pensieri, dalle osservazioni dell’altro, dalle azioni della vita o qualunque altro materiale appartiene all’area dell’esperienza di se stessi. Questa capacità, dice Bollas, è la stessa che dobbiamo attivare quando siamo con un paziente. Durante una seduta noi ascoltiamo i nostri pazienti, ne riceviamo le libere associazioni, ascoltiamo i dettagli del loro racconto, ci meditiamo sopra e li organizziamo in una interpretazione. Il paziente grazie a questo lavoro con l’analista fa esperienza della capacità recettiva dell’analista, potrà così interiorizzare un metodo, che servirà ad acquisire e mantenere uno spazio ricettivo dentro di sé, questo consentirà il vero cambiamento psichico. Motore importante di questo processo sarà anche la capacità dell’analista di cogliere quei momenti in cui “l’analizzando deve essere lasciato in pace” (Bollas 1987). Nessuna fretta quindi di verbalizzare l’esperienza interna del paziente, o spinta a superare il silenzio. L’elaborazione quindi da qualunque punto di vista ci spostiamo, diviene momento cruciale. E’ il processo di elaborazione che determina i tempi di una analisi. L’elaborazione riguarda il transfert, il controtransfert, i colloqui preliminari, la consultazione, gli invii. Non è misurabile in termini di efficienza, richiede tempo, e questo curiosamente è anche ciò che oggi alla psicoanalisi è maggiormente rimproverato.

Nel suo lavoro l’analista è attratto dalle differenze, da quello che si inceppa piuttosto che da ciò che funziona. Il cogliere le differenze gli dà la responsabilità di dover incontrare dentro di lui degli aspetti mai incontrati, o mai chiariti, o che magari non avrebbe voluto reincontrare. Non potremo mai vederli tutti, né risolverli, non dimentichiamo che le nostre capacità sono sempre e comunque limitate, nella migliore delle ipotesi possiamo porci nei pressi dei limiti che la nostra condizione soggettiva, esistenziale, ci impone.

Bibliografia
Bollas C. (1987) L’ombra dell’oggetto. Roma, Borla
Bolognini S. (2003) Il ruolo della persona dell’analista nell’ambito della cura. Riv. Psicoanal.,4.
Faimberg H. (1992) The countertransference position and the countertransference. Int. J. Psycho-Anal.,73,3
Ferenczi S. (1921)Ulteriore estensione della “tecnica attiva” in psicoanalisi. In Opere,vol.III. Milano. Cortina 1992
Gabbard G.O. (1995) Countertransference: the emergent common ground. Int. J. Psycho-Anal., 76
Heimann P.(1950) Sul controtransfert. In: C. Albarella e M. Donadio (a cura di), Controtransfert. Napoli , Liguori 1986
Pick I. (1985) Working-through in the countertransference. Int. J. Psycho-Anal.,66
Racker H. (1951) Un contributo allo studio del controtransfert. In: Studi sulla tecnica psicoanalitica. Roma, Armando
Turillazzi Manfredi S. (1994) Le certezze perdute della psicoanalisi clinica. Milano, Cortina
Winnicott D.W. (1965) Il controtransfert. In: Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando 1970

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